Le polemiche e gli onori tributati in occasione della sua scomparsa hanno riconfermato che Silvio Berlusconi ha modellato non solo il centrodestra ma, di rimbalzo, anche la forma e i contenuti dell’opposizione, in una tenzone durata dal 1994, quando iniziò la sua avventura nella politica con Forza Italia, diventando per ben quattro volte premier, fino alla forzata abdicazione del 2011. Nel 1994 colse la palla al balzo del sistema elettorale maggioritario, appena introdotto, per accaparrarsi le spoglie della Democrazia Cristiana, piegata da tangentopoli, unirle alla destra leghista, forte al Nord e al Movimento sociale italiano più radicato al Sud. Si trovò al posto giusto e nel momento giusto della storia. Fortuna e volontà di affermazione, sorrette dalla disponibilità economica di cui poté avvalersi, si combinarono con la spinta del contesto storico, caratterizzato dalla crisi del sistema politico partitico dei primi anni Novanta e dalla ristrutturazione capitalistica, iniziata nel decennio precedente. Provò ad indirizzarla, con successi e più fallimenti, in senso neoliberista con tratti populisti. Un arcitaliano che sintetizzava nella sua complessa e contraddittoria personalità molti difetti e pochi pregi degli italiani, facendone una, non nuova, autobiografia della nazione.
Per l’ironia che affianca la storia, egli era un uomo favolosamente ricco e prendeva voti dai meno abbienti. Gli avversari lo trovavano insopportabile, intollerabile, la sua parte lo ammirava a prescindere. Non era uno stinco di santo, aveva vizi privati e pubblici, accusato più volte di ogni tipo di reato, condannato una sola volta definitivamente per frode fiscale. Non era una nuova crociana “parentesi dello spirito”, come non lo fu il fascismo. Non era un fatto estraneo alla nostra storia, alla cultura e alle classi sociali del paese, un’invasione di un corpo politico estraneo che sottometteva un “popolo buono”. La destra odierna al governo riconosce in lui il fondatore di un arco politico conservatore d’impianto neoliberista in tono con la controrivoluzione capitalistica in atto da tre decenni, che è riuscita a sconfiggere anche il riformismo solidale e socialdemocratico di vecchio stampo, cooptando le élite politiche e sindacali di riferimento del movimento operaio novecentesco in un sistema politico di governo che non lascia vie di fuga, sottoposto al controllo del dominio economico- finanziario e geopolitico atlantista.
La sua affermazione pose il problema di come sbarazzarsi della sua ingombrante presenza, ma ancor più avrebbe dovuto porre quello di sgombrare il campo dei difetti sociali ed economici che avevano consentito la sua ascesa. L’antiberlusconismo, il collante secondo cui bastava liberarsi di Berlusconi e tutto si sarebbe risolto, si è rivelato un’arma spuntata: una volta al potere, i governi del centro sinistra producevano politiche di simili a quelle combattute nelle campagne elettorali. Due Italie si costituirono separandosi in campi interclassisti, schierati l’uno contro l’altro. Si compose un sistema politico che omogeneizzava gli schieramenti, costringeva a fusioni e ad unioni artificiali e spesso poco sentite dal “cuore”, ma necessarie per vincere le elezioni, con la tendenza ad emarginare quelle che non accettavano l’amalgama. Iniziò una lotta “civile”, uno scontro per il potere, per occupare ruoli, funzioni, status e prestigio, lasciando intatto il sistema, le sue strutture, il suo modo di funzionamento. Uno scontro politico non per l’alternativa ma per l’alternanza, cioè la sostituzione di élite politiche al governo. In questi giorni, giornali e commentatori hanno scritto che è finita un’epoca, quella iniziata più di trent’anni fa. Non lo credo, non è ancora finita, gode di “buona salute”.