Il 13 giugno (sorpresa!), l’Unione padronale svizzera (UPS) ha pubblicato un trionfale comunicato stampa in cui annunciava che il 99,3% delle aziende rispettava la parità salariale. Alla faccia di risultati e di un tipo di propaganda che ricorda quelli del più puro stampo sovietico.
Vi è tuttavia un piccolo problema: e cioè che questo studio dell’Università di San Gallo, finanziato dall’UPS, non dice questo, ma quasi l’esatto contrario. Peccato!
1. L’indagine si basa sui risultati di 463 aziende che impiegano circa 487’000 persone. Secondo gli autori dello studio, ciò corrisponde a meno del 10% delle aziende con almeno 100 dipendenti, che sono tenute a effettuare un’analisi dei salari. L’ansia dei datori di lavoro di fornire dati che dimostrino che l’UPS ha ragione è modesta. Oppure i loro risultati non sono presentabili? 463 aziende corrispondono allo 0,8% (!) delle 61’000 aziende con almeno 10 posti di lavoro e… un’inezia rispetto alle 600’000 aziende censite. E non parliamo nemmeno di rappresentatività: hanno partecipato 18 (non una di più) aziende alberghiere e della ristorazione. Risultati di qualità garantiti. Insomma, se ci fosse bisogno di una prova che l’attuale meccanismo di analisi delle retribuzioni è totalmente inefficace, lo studio finanziato dall’UPS la fornisce. Bel lavoro!
2. In media, sulla base di queste 463 aziende, la differenza salariale tra uomini e donne, confrontando gli stipendi standardizzati a tempo pieno (compresi tredicesima, bonus, ecc.) è compresa tra il 13,5% e il 20,7% a seconda della regione. Questi risultati sono vicini a quelli pubblicati dall’Ufficio federale di statistica (UST) (19,5% nel 2020 a livello nazionale nel settore privato), che i datori di lavoro criticano in continuazione. Soprattutto se si tiene presente che, nel caso dell’UPS, il divario è misurato all’interno di ogni azienda, mentre nel caso dell’UST il divario è misurato a livello dell’economia nel suo complesso, con tutte le differenze che ciò comporta. Conclusione: i dati su cui le donne hanno basato le loro denunce di discriminazione salariale per decenni sono pertinenti.
3. In media, sempre secondo gli autori di questo studio, il divario retributivo “non spiegato” sarebbe del 3,3%. Non lo 0% da percentuale bulgara, ma il 3,3%. Per capire questo dato: se in una grande distribuzione (i giganti arancione della distribuzione devono essere stati coinvolti, dato che le 44 aziende di vendita al dettaglio che hanno risposto all’UPS impiegano più di 128’000 persone) le posizioni dirigenziali, meglio retribuite, sono occupate molto più spesso da uomini che da donne, il divario retributivo risultante è “spiegato“… e non rientra nel 3,3%. E se questa stessa grande distribuzione subappalta le pulizie a imprese specializzate, che impiegano soprattutto donne con salari molto bassi, queste donne non sono incluse nel confronto e nel 3,3%… che è ciò che rimane quando abbiamo eliminato tutte le principali cause di discriminazione salariale, come i settori e le professioni a bassa retribuzione o il famoso soffitto di vetro. In realtà è enorme! Per la cronaca, secondo l’UST, il divario retributivo “non spiegato” nel settore privato ammonta all’8,8% per l’economia nel suo complesso. Il punteggio dei datori di lavoro è quindi tutt’altro che una smentita.
4. La percentuale bulgara ( il 99% di aziende che si suppone rispettino la parità retributiva) è raggiunto solo grazie alla “soglia di tolleranza” del 5% prevista dalle analisi retributive. Ma questa soglia non ha alcuna base statistica: le analisi includono già intervalli di confidenza che tengono conto delle incertezze dei dati. Non ha nemmeno una base giuridica: né la Costituzione né l’Equality Act stabiliscono che un divario retributivo del 5% sia accettabile. È una pura concessione ai datori di lavoro. Nel 2022, l’Ufficio per la parità del Canton Vaud ha pubblicato uno studio su questo tema. Basato sui dati dell’Indagine svizzera sulla struttura dei salari (ESS), raccolti da circa 35’000 aziende (rispetto alle 463 censite dall’UPS), lo studio mostra che con una soglia di tolleranza del 5%, il 19% delle aziende ottiene un risultato non conforme alla parità salariale, mentre questa percentuale sale al 50% con una soglia di tolleranza pari a zero. Lo studio commissionato dall’UPS conferma questi risultati: la soglia di tolleranza serve solo a nascondere la portata della discriminazione retributiva.
In sintesi, lo studio finanziato (un buon investimento!) dall’Unione svizzera dei datori di lavoro (UPS) dimostra: 1) che le disuguaglianze salariali corrispondo effettivamente ai livelli denunciati dal movimento delle donne e dalle organizzazioni sindacali; 2) che l’attuale metodo di monitoraggio dei salari, con la sua soglia di tolleranza del 5% e praticamente nessun obbligo, è del tutto inefficace per portare avanti la causa della parità salariale.
*Jean-François Marquis, è membro del sindacato dei servizi pubblici (SSP). Questo articolo è apparso lo scorso 14 giugno 2023 sul sito www.alencontre.org. La traduzione in italiano è stata curata dal segretariato MPS.