Nel 1934, Leone Trotsky, in un articolo poi pubblicato assieme a parecchi altri sempre dedicati a quel che accadeva nel paese transalpino, si chiedeva: “Dove va la Francia?”; in quell’articolo metteva in guardia “gli operai avanzati” di quel paese sulla crisi che stava conoscendo la democrazia e sul fatto che la borghesia francese, messa di fronte alla crescita delle diseguaglianze e alle lotte popolari, non riusciva più a “sopportare l’ordine democratico”.
Lungi da me il voler fare un paragone tra la situazione in Francia oggi e quella di circa 90 anni fa, né tanto meno di volermi mettere a emulare il grande rivoluzionario, resta però che la domanda che Trotsky poneva a titolo del suo articolo, di fronte a quel che è successo nei mesi scorsi sulla questione delle pensioni e quel che sta accadendo in questi giorni dopo l’assassinio di Nahel a Nanterre, torna ad essere pertinente e di attualità.
La Francia sta bruciando, è una constatazione.
Dopo il movimento dei Gilets jaunes e altri movimenti sociali ad alta intensità, dopo mesi e mesi di massiccia mobilitazione sindacale e popolare, con una decina di giornate di sciopero nazionale e una ventina di giornate di manifestazioni in tutte le città grandi, medie e piccole, dopo la messa fuorilegge del principale movimento ecologista, è arrivata l’esecuzione in strada di Nahel.
La risposta incendiaria della periferia e di buona parte della società era prevedibile, in qualche modo annunciata, con la conflagrazione nei quartieri popolari, tanto era nota la rabbia sociale che vi ribolliva.
Era una risposta talmente prevedibile, che Emmanuel Macron, Elisabeth Borne e Gérald Darmanin non hanno tardato a comprenderne la gravità.
Chi ha invocato la “distensione” ha parlato invano, perché la morte di Nahel, lungi dall’essere un semplice “errore”, è stata pianificata.
Il ruolo delle forze di polizia
È la conseguenza automatica della rassegnazione del potere politico francese negli ultimi trent’anni, sotto la pressione corporativa delle forze dell’ordine, che non hanno mai smesso di farsi beffe delle “regole dello stato di diritto”. Forze dell’ordine che hanno ottenuto, di governo in governo, una sfilza di leggi distruttrici della libertà, ma considerate dai sindacati dei poliziotti mai sufficienti, con la scusa della lotta al terrorismo, all’immigrazione “clandestina” e alla criminalità.
Fino a esigere e ottenere la riscrittura dell’articolo 435-1 del Codice di sicurezza interna nel 2017, che ha ulteriormente allargato le condizioni per l’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine. E il risultato non si è fatto attendere.
Nel 2020 il numero di persone uccise dalla polizia è raddoppiato rispetto al 2010. Il più delle volte per rifiuto “d’obtempérer à un ordre d’arrêt”, cioè, detto in italiano, per il reato di “resistenza a pubblico ufficiale”: il numero di sparatorie mortali in queste circostanze è quintuplicato. Nahel è morto a causa di questo emendamento al Codice di sicurezza interna.
Tanto che l’avvocato del poliziotto assassino ha giustificato il suo cliente: dato che Nahel non stava rispettando le regole, non c’era altro modo per fermarlo che sparare (abbiamo pubblicato qualche giorno fa il video che illustra l’esecuzione a sangue freddo del giovane, nella sua auto bloccata nel traffico). Secondo l’avvocato, secondo i sindacati di polizia, secondo la destra “moderata” e estrema, in fin dei conti secondo il governo, il rifiuto di conformarsi sembra ora punibile con la morte.
L’atteggiamento del governo
Per tutti costoro, allineati sostanzialmente con la stessa lettura degli avvenimenti, la colpa è dell'”ultra-sinistra”, degli “eco-terroristi”, della France insoumise, mentre i veri responsabili sono da ricercare nelle autorità pubbliche, nei media reazionari e nell’estrema destra.
Come ha dimostrato una sequela di fatti nel corso degli anni, la violenza della polizia è diventata la regola nelle banlieue. Il rifiuto delle autorità politiche anche solo di assumere la questione, sempre derubricata a “eccessi”, “sbavature”, “errori”, ha contribuito ad esasperare il sentimento di ingiustizia. Ma la verità è che questa violenza poliziesca è anche il prezzo dell’asfissia sociale e finanziaria a cui è stato sottoposto il tessuto associativo locale, dello smantellamento dei servizi pubblici e dell’affidamento ai poliziotti di una missione impossibile: mantenere la pace sociale in uno stato di crescente ingiustizia sociale, contemporaneamente denunciando le presunte colpe della “marmaglia”.
Il tutto in un contesto di denunce isteriche del “wokismo”, cioè della mania di denunciare le ingiustizie e le discriminazioni, come se il problema non fossero proprio ingiustizie e discriminazioni, ma chi osa denunciarle. Mentre i telegiornali nelle ore di punta danno la parola ai rappresentanti dei sindacati di polizia.
Qualche settimana fa il quotidiano “Liberation” aveva fatto notare come tanti agenti di polizia esibissero sulla propria divisa di ordinanza una linea blu, resa nota (Thin blue line) negli scorsi anni dall’estrema destra suprematista americana.
E’ solo dopo questa segnalazione giornalistica che il generale Alain Pidoux, capo dell’Ispettorato generale della gendarmeria nazionale ha ingiunto a tutti gli ufficiali del corpo di vietare questa che rischiava di diventare una consuetudine tollerata o persino incoraggiata.
La repressione si fa sistematica
Oggi, lo stato non può permettersi delle periferie fuori controllo né il diffondersi di manifestazioni ambientaliste radicali, costi quel che costi, un anno prima delle Olimpiadi, previste a Parigi nel luglio 2024.
Così, qualche giorno fa, il movimento Soulèvements de la Terre è stato sciolto su pressione della FNSEA (Fédération nationale des syndicats d’exploitants agricoles), il grande sindacato agroindustriale, un tempo di sinistra, con una storia anche di occupazioni di latifondi. Uomini di mano e dirigenti della FNSEA hanno più volte usato impunemente la violenza contro gli ambientalisti.
Il decreto di scioglimento di Soulèvements de la Terre giustifica la misura in maniera “orwelliana”: perché gli ambientalisti sono soliti leggere il pamphlet di Andreas Malm “Come far saltare un oleodotto” e “impostano i loro cellulari sulla modalità aereo quando escono a manifestare”. Il portavoce del governo si è spinto ad accusarli di intento omicida nei confronti delle forze dell’ordine.
La Commission nationale de contrôle des techniques de renseignement ha pubblicamente dichiarato il proprio allarme per l’aumento delle richieste di sorveglianza dell’attivismo politico e sociale da parte dei servizi segreti.
Nel frattempo, i tribunali si rifiutano di rinnovare l'”accreditamento” (che le consentiva di intentare azioni civili) all’associazione Anticor (attiva contro la corruzione), quella la cui la denuncia ha portato all’incriminazione del segretario generale dell’Eliseo.
La spinta verso l’estrema destra
Vincent Bolloré, il padrone di Vivendi che tentò qualche anno fa di impadronirsi di Mediaset sottraendola a Berlusconi, è il grande finanziatore della rivoluzione conservatrice francese. Bolloré ha nominato un giornalista di estrema destra, amico del fascista Eric Zemmour, ex candidato presidenziale alla destra di Marine Le Pen, come caporedattore del Journal du Dimanche, uno dei principali settimanali francesi. La cosa curiosa è che questo giornalista era stato licenziato da un altro settimanale di estrema destra, Valeurs actuelles, che lo aveva criticato per le sue posizioni “eccessivamente radicali”.
Dietro tutto ciò c’è Emmanuel Macron, ex “socialista”, rieletto presidente lo scorso anno.
Richard Ferrand, ex presidente dell’Assemblea nazionale e uno dei più stretti “uomini del presidente”, ha alluso alla possibilità di una revisione costituzionale che consentirebbe a Macron un terzo mandato, un po’ con lo stile di Putin. Mentre altri, se l’operazione non riuscisse, stanno preparando la candidatura del Medvedev francese, Jean Castex, ex primo ministro di Macron.
Tutto questo, compreso il grande movimento contro la riforma delle pensioni (su cui siamo lungamente intervenuti), maggioritario nel paese ma schiaffeggiato da Macron con la promulgazione per decreto della legge, è accaduto in pochi mesi, da gennaio ad oggi.
Che sta succedendo in Francia? La “democrazia liberale” si sta ribaltando? Che effetti avrà l’esplosione sociale delle periferie su tutto quel che stava già accadendo? La Francia, pur essendo governata da un “ex-socialista” che oggi si autodefinisce di “estremo centro”, rischia di entrare nel campo delle democrazie “illiberali”?
Tutta la vicenda delle pensioni è stata un sintomo acuto dell’esaurimento di questo governo di estremo centro, peraltro in un paese un tempo indicato come modello dai cultori dell’efficientismo liberale.
In realtà, Emmanuel Macron si è presentato come il “nuovo”, come l’uomo “provvidenziale” nel più trito e ritrito repertorio bonapartista. E come tutti i Bonaparte piccoli e grandi mescola liberalismo, nazionalismo colonialista, e fantasie reazionarie. Con un modo di fare immaturo, narcisista, capriccioso, arrogante, sordo a quel che dice l’opinione pubblica (salvo quando gli dà ragione).
Un armamentario repressivo a disposizione di chi verrà
Il divieto di “utilizzare dispositivi sonori portatili” per impedire il “movimento delle casseruole” dopo la promulgazione del decreto sulle pensioni, un impressionante cordone di polizia nei luoghi in cui si reca il presidente, la ricorrente denuncia del “wokismo”, della “teoria gender”, dell'”islamoguelfismo”, dell'”ecoterrorismo” o dell'”ultrasinistra” sono alcuni degli indizi di un regime sempre più autoritario. Secondo non pochi analisti, la “patria della democrazia moderna” si sta muovendo per entrare a pieno titolo nel campo delle democrazie “illiberali”.
Altrove, in Europa, i governi di destra dall’Italia alla Svezia e alla Finlandia, si spostano sempre più verso l’estrema destra. Macron, se non sarà fermato, con il suo uso indiscriminato delle forze repressive, con la continua erosione delle libertà civili in nome della lotta al terrorismo e all’immigrazione “clandestina”, con l’utilizzazione delle innovazioni tecnologiche nel controllo politico, sta preparando il terreno per l’arrivo al potere del Rassemblement National e di Marine Le Pen, che potrà quindi fregiarsi dell’appellativo di “governo democratico” perché l’arsenale repressivo le sarà stato fornito dal governo “democratico” precedente, senza il bisogno di nuove leggi “illiberali”.
Macron non è né Putin né Modi. Ma ormai è una versione chic di Viktor Orban: applicare il programma dell’estrema destra per evitare la sua ascesa al potere. Ma sta preparando l’avvento in Francia della clone di Putin e Modi.
La resistibile ascesa di Emmanuel
Per ricordare la sua storia, Macron si è accaparrato il bottino elettorale quando i “gollisti” Nicolas Sarkozy, Alain Juppé e François Fillon, e i “socialisti” François Hollande e Manuel Valls sono usciti di scena. Ha ritenuto “intelligente” distruggere la sinistra e la destra “allo stesso tempo” per potersi sistemare in un “comodo” faccia a faccia di fronte all’estrema destra di Marine Le Pen.
Emmanuel Macron è stato eletto la prima e la seconda volta solo grazie ai voti della sinistra, giustamente preoccupata di scongiurare la vittoria dei neofascisti. Ma il suo programma, liberale ed europeista, non è mai stato approvato da più di un quarto dell’elettorato, senza contare la crescente percentuale di astenuti (oltre il 28% alle presidenziali del 2022) che mina la legittimità delle istituzioni.
Con uno stile sordo e sprezzante, Emmanuel Macron è stato eletto per la prima volta alla suprema magistratura francese senza aver mai esercitato in precedenza il minimo mandato locale o nazionale, ha immediatamente avanzato un programma di fatto basato su due idee banali, quella dello “stato forte” e quella dell’”economia sana”. Così ha promulgato le sue riforme neoliberali per mezzo di ordinanze e decreti, bypassando i corpi intermedi e affidandosi a consulenze private.
Il retroterra democratico del paese e l’autoritarismo del presidente hanno prodotto un effetto prevedibile: i più profondi movimenti sociali dopo il maggio 1968, quello dei Gilets jaunes, e poi quello sulle pensioni del febbraio-maggio 2023.
Senza tenere in alcuna considerazione la persistente opposizione dell’opinione pubblica e di tutti i sindacati, alleandosi con Nicolas Sarkozy, ha voluto imporre una riforma finanziaria delle pensioni, di cui ha inutilmente rivendicato un’immaginaria legittimità democratica, ripetendo che la riforma faceva parte del suo programma e che sarebbe stata adottata attraverso un percorso istituzionale convalidato dal Consiglio costituzionale,
Rimuovendo però di essere stato eletto solo grazie ai voti della sinistra, tutta quanta ostile all’innalzamento dell’età pensionabile, dimenticando che il popolo non gli ha dato la maggioranza parlamentare nelle elezioni legislative che hanno seguito le presidenziali e che la legge è stata adottata non grazie ad un voto del parlamento ma solo in forza dei poteri dovuti all’articolo 49.3 della costituzione.
Come nel 2018 di fronte ai Gilets Jaunes, Macron ha risposto alla rabbia popolare con la violenza della polizia. Le violazioni della libertà costituzionale di manifestare, l’uso di tecniche di polizia belliche che provocano lesioni irreversibili come abrasioni e mutilazioni hanno portato alla condanna della Francia da parte delle organizzazioni per i diritti umani, del Consiglio d’Europa, della Corte di giustizia europea e delle Nazioni Unite.
Macron contro chi lo ha eletto per paura del fascismo
Di fronte a queste accuse, Emmanuel Macron sprofonda in una realtà parallela e radicalizza il suo discorso politico. Rieletto a malapena grazie ai voti della sinistra, compresi quelli de La France insoumise, sta escogitando di porre questa forza politica al di fuori dell'”arco repubblicano”, della cui demarcazione rivendica il monopolio.
Ha visto la mano dell'”ultra-sinistra” nelle proteste contro la sua riforma previdenziale e la vede anche oggi nella rivolta delle banlieue. Giustifica la violenza della polizia con la necessità di combattere la violenza di alcuni manifestanti. E la delegittimazione della sinistra va di pari passo con il silenzio del governo sulle aggressioni dell’ultra-destra identitaria e degli agricoltori produttivisti che moltiplicano gli attacchi agli ambientalisti.
Il rifiuto di Macron di tenere conto del parere degli elettori quando non gli piace (come d’altra parte avvenne già nella Francia di Chirac nel 2005 di fronte al No al progetto di costituzione europea) getta ulteriore discredito sulla democrazia rappresentativa, alimenta l’astensionismo e incoraggia l’azione diretta per affermare le proprie opinioni.
Il governo Macron, come tutti i governi di destra (vedi Meloni in Italia) esibisce il suo disprezzo per i poveri, difende i mega bacini con le granate della polizia mentre le falde acquifere del paese si prosciugano, in nome della logica della finanza non fa nulla contro il crescente sovrasfruttamento dei lavoratori mentre i posti di lavoro diventano sempre più precari, legittima il trafugamento dei beni pubblici a vantaggio degli interessi privati, distribuisce fondi alle aziende più ricche e ai contribuenti più abbienti.
Il governo ha messo in discussione perfino alcune delle istituzioni “repubblicane” più prestigiose e fino ad oggi “intoccabili”, come la Ligue des droits de l’homme (Lega dei diritti dell’uomo), nata al momento dell’affare Dreyfus, finora considerata inseparabile dall’idea repubblicana. Solo il regime filonazista di Pétain osò attaccarla.
Nel mondo, sono il russo Putin, l’ungherese Orban, il turco Erdogan, l’indiano Modi, il tunisino Kaïs Saïed e il cinese Xi Jinping a comportarsi così.
A noi seguire quel che accade e trarre le conseguenze.
*articolo apparso sul sito https://refrattario.blogspot.com/ il 2 luglio 2023.