Stato spagnolo. Battuta d’arresto per le destre ma…

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Elezioni nello Stato spagnolo: si arena il progetto ultrareazionario del PP anche se è il primo partito. VOX si ridimensiona ma l’alleanza con SUMAR non basta al PSOE per governare. Probabili nuove elezioni.

Evidentemente, esistono varie chiavi di lettura del risultato elettorale nello Stato spagnolo del 23 luglio. Una, però, si impone su tutte le altre: il progetto ultrareazionario della destra del PP e dell’estrema destra di VOX e il coronamento del sogno di un’Europa unita sotto la direzione del neoconservatorismo in odore a estrema destra si sono infranti in poche ore. Almeno per ora.

Il cosiddetto progressismo, che ha governato il paese in questi ultimi quattro anni, ha resistito bene all’offensiva reazionaria. E lo ha fatto per più di un motivo ma, anche in questo caso, soprattutto per uno, potente e trascinante: il voto antifascista delle classi popolari e delle persone democratiche. Voto che è riuscito a capovolgere la grande e assoluta vittoria della destra, strombazzata da quasi tutti i media, con i loro falsi sondaggi e le lusinghe vergognose all’estrema destra. D’altra parte, lo scarso mese e mezzo di vita dei governi regionali e municipali di VOX e del PP hanno fatto accapponare la pelle a tutti quanti (o perlomeno a moltissima gente), scatenando un vero e proprio panico nei confronti di questa destra. L’abrogazione di regolamenti e leggi regionali sulla violenza di genere, la censura di innocenti spettacoli teatrali, le dichiarazioni sessiste, volgari e omofobe, la proibizione di pubblicazioni infantili in catalano, sono solo alcune delle perle di queste settimane. C’è da ricordare che molti spagnoli e spagnole -almeno quelli ultrasessantenni- hanno vissuto sulla propria pelle il franchismo e, nonostante tutto, è rimasto nella società un certo sapore amaro di quei vecchi tempi. Inoltre, andare a votare il 23 luglio con quaranta gradi all’ombra e con un sacco di gente in vacanza non garantiva una grande partecipazione: invece, il fatto che abbia votato qualcosa in più del 70% degli aventi diritto costituisce di per sé un piccolo prodigio della mobilitazione popolare. E infatti i numeri hanno parlato chiaro: anche se, dopo il successo strepitoso delle elezioni amministrative di maggio, il PP si conferma come la formazione più votata (con poco più di 8 milioni di voti e 136 seggi) il PSOE lo segue a pochissima distanza (più di 7 milioni e 700.000 voti e 122 seggi). La sproporzione fra numero di voti e seggi assegnati non è dovuta a un premio maggioritario come succede in Italia ma alla curiosa legge elettorale spagnola che castiga le grandi città (e quindi le grandi concentrazioni di lavoratori), dove per eleggere un deputato sono necessari moltissimi più voti che nei piccoli centri e nelle provincie.

Non è mancato chi ha evocato lo spettro del bipartitismo “di ritorno”, dati i risultati più o meno equiparabili e ampiamente maggioritari delle due formazioni storiche della politica spagnola. Ma, a una più attenta osservazione, non è esattamente così; né l’uno né l’altro potrebbero fare gran cosa senza il vasto arcipelago di forze di sinistra e di destra, nazionaliste e indipendentiste, e chi più ne ha più ne metta, che colorano il variopinto panorama politico in Spagna negli ultimi anni. Il bipartitismo, diretta creatura del “regime del ‘78” (come lo chiamavano gli indignados), agonizza da tempo insieme alla caduca struttura dello Stato che lo ha generato. Ma è pur vero che non è sempre facile rendersene conto.  Tornando alle elezioni e al loro risultato, la grande ascesa della destra si è trasformata quindi in un “flop” elettorale, soprattutto per VOX, che vede ridurre la sua forza di un buon terzo (630.000 voti e 19 deputati in meno rispetto al 2019) e soprattutto la possibilità di formare un governo insieme al PP è definitivamente naufragata, dato che l’aritmetica parlamentare proprio non lo permette, salvo alleanze assai improbabili.

Invece, la stessa aritmetica parlamentare potrebbe permettere una riedizione del governo di Pedro Sanchez anche se fra mille difficoltà, fra cui quella più importante potrebbe essere il sassolino nella scarpa del partito dell’ex presidente catalano in esilio Puigdemont, probabile ago della bilancia di una rielezione di Sanchez e ben deciso a dar filo da torcere alle istituzioni dello Stato spagnolo. I giochi quindi sembrano abbastanza aperti e nelle prossime settimane, salvo sorprese, sapremo se veramente il governo del PSOE-Podemos ripeterà il mandato. Chi annuncia a gran voce i pericoli dell’instabilità politica e dell’ingovernabilità dello Stato spagnolo nel prossimo futuro sono però, un po’ sospettosamente, gli stessi che nei giorni scorsi davano per trionfante la coalizione PP/VOX…

E qui si inserisce tutt’altra riflessione su queste elezioni. Lo Stato spagnolo sta vivendo in questi anni, fondamentalmente dopo la crisi del 2008 -che nella penisola è stata più disastrosa che da altre parti, anche grazie alla forma particolarmente rognosa e corrotta del capitalismo locale- una crisi profonda. E’ una crisi globale: una profonda crisi istituzionale (una monarchia con sempre meno prestigio e più corruzione, degli apparati repressivi sempre più loschi e deviati, una magistratura di estrema destra super-politicizzata), territoriale e progettuale (con una rivolta quasi permanente e mai del tutto sedata in Catalogna e in Euzkadi) e totalmente incapace di imporre una soluzione di consenso alle numerose contraddizioni sociali, politiche ed economiche. E il governo liberal progressista di Pedro Sanchez ha governato, nei fatti, cercando di cavalcare più tigri allo stesso tempo: in primo luogo, quella del movimento dei lavoratori. C’è riuscito abbastanza bene attraverso l’orizzonte concertativo dei sindacati maggioritari e la collaborazione di un Podemos ormai totalmente slegato dall’eredità del movimento degli indignados e abbacinato dalle luminarie del potere. Una serie di palloni-sonda lanciati verso le lavoratrici e i lavoratori (scongelamento delle pensioni, aumento del salario minimo, ecc.) non hanno veramente intaccato i problemi di fondo, cioè gli interessi e i profitti delle grandi imprese, delle banche e delle diverse corporazioni economiche, che dettano in realtà gli orientamenti politici “spicci” del paese. In secondo luogo, Sanchez si vanta di aver “pacificato” la Catalogna ribelle. E’ vero che il movimento indipendentista attraversa una crisi profonda, ma questa si deve in buona parte alla sua storica -e piuttosto litigiosa- direzione politica, alla sua totale mancanza di prospettive e al suo legame intrinseco con il sistema capitalista, che le impedisce di concepire un progetto di liberazione globale. Ciò che ha fatto Sanchez, oltre a modificare un articolo particolarmente vergognoso del Codice penale e promulgare un indulto per i dirigenti catalani ingiustamente condannati da un tribunale ispirato a quelli del franchismo, è stato un abile quanto disonesto bla bla bla, approfittando le debolezze (molte) dei suoi avversari indipendentisti. Insomma, il fatto che Puigdemont lo stia punzecchiando in questi giorni -e vedremo fino a quando e fino a dove- si potrebbe attribuire ad una specie di “giustizia poetica” che a volte nella storia e nella politica fa capolino con un sogghigno.

Il governo “più progressista della storia di Spagna” (così come si è autodefinito a più riprese), inoltre, non si è dimostrato molto all’altezza su alcuni terreni di non secondaria importanza: con uno spettacolare voltafaccia e rompendo una tradizionale posizione della sinistra spagnola, ha buttato a mare il Frente Polisario del Sahara Occidentale e le sue rivendicazioni alleandosi alla monarchia marocchina e al suo progetto reazionario. Inutile ricordare poi l’incondizionato e precoce appoggio del governo spagnolo alla NATO e agli Stati Uniti nella guerra ucraina, con relativo e vertiginoso aumento delle spese militari (del resto, Josep Borrell, il bellicoso commissario europeo agli Esteri, è uno storico dirigente del PSOE).

Questo bilancio non molto lusinghiero sulle vicende governative del PSOE e di Podemos non è per mettere tutti nello stesso sacco, ovviamente. E’ chiaro che per le donne, per i lavoratori e le lavoratrici, per la gente giovane, per le persone LGBT, un governo con Santiago Abascal (il leader di VOX così amico di Giorgia Meloni) come vicepresidente, sarebbe un incubo dei peggiori. Il problema è un altro. Se questo miracoloso risultato elettorale è stato in realtà il frutto della legittima paura nei confronti di questo incubo e la gente ha reagito all’appello antifascista (il PSOE ha fatto una campagna elettorale “di sinistra”, tutta centrata sulla difesa dei diritti), non è detto che lo faccia sempre e comunque. Una volta va bene, due sono già una di troppo.

Se il governo più progressista della storia di Spagna, ecc. non sarà in grado di affrontare i cruciali problemi a cui abbiamo accennato, e in senso favorevole ai lavoratori, alle donne, al pluralismo nazionale di un paese come la Spagna con un’autentica e coraggiosa riforma territoriale e politica, le stesse masse che oggi hanno votato per il PSOE e Sumar, domani potrebbero tranquillamente decidere che anche il PP va bene. Insomma, se Sanchez e soci non realizzeranno una vera svolta politica e non si limiteranno a scalfire superfici più o meno facili da scalfire a basso costo, le cose potrebbe cambiare velocemente. Le elezioni amministrativa di maggio l’hanno dimostrato con l’ascesa vertiginosa delle destre, anche se Pedro Sanchez (o chi per lui) ha saputo abilmente giocare alzando la posta. Per ora, ha vinto il piatto. Bisogna vedere se la folla che la notte del 23 luglio si è riunita sotto le finestre della calle Ferraz (la sede centrale del PSOE) gridando il “no pasaran!” della resistenza madrilena della guerra civile ci sarà anche la prossima volta.

Infine, due parole sulla sinistra del PSOE. Sumar, la coalizione che ha sostituito ed esautorato Podemos (e la sua dirigente più riconosciuta, Irene Montero, la ministra delle Pari Opportunità del governo Sanchez) e che ha vissuto una breve e tormentosa vicenda poco prima delle elezioni proprio per disfarsi dei dirigenti più “scomodi” politicamente di Podemos, ha condotto una campagna elettorale fondamentalmente all’ombra del PSOE. Il suo risultato non si discosta molto da quello ottenuto da Unidas-Podemos nel 2019 (perde poco più di 80.000 voti su un totale di oltre tre milioni) ma, grazie all’infernale legge elettorale spagnola già citata, perde più di 600.000 voti nell’assegnazione finale dei seggi, rimanendo con 33 fra deputati e deputate rispetto ai 35 della legislazione precedente ed essendo in assoluto il partito che soffre di più questo bizzarro e non molto democratico sistema di distribuzione dei seggi.

Invece, EH Bildu(1), l’erede della vecchia sinistra rivoluzionaria abertzale basca ha goduto di un risultato assai più lusinghiero, anche se in termini relativi: ottiene un deputato in più (6 in totale, grazie all’eletto di questa formazione in Navarra) dei suoi rivali nazionalisti democristiani baschi e dei socialisti locali, e circa 50.000 voti in più rispetto alle precedenti elezioni (considerando che i Paesi Baschi hanno solo un milione e mezzo di votanti, non sono poi così pochi). Bildu, che ha dato un appoggio esterno “critico” al governo di Sanchez in questi anni, è uscita in modo brillante dalla competizione elettorale sia per la sua coerenza politica sia perché gli attacchi forsennati della destra spagnola contro i “terroristi” baschi di questi mesi, quando l’ETA non esiste più da oltre dieci anni, hanno esaurito la pazienza di moltissimi e moltissime basche e, tutto sommato, hanno reso più credibile e “simpatica” questa formazione.

Le CUP, cioè il settore anticapitalista dell’indipendentismo catalano, che avevano un deputato e una deputata alle Cortes -la Camera spagnola-, li ha perduti entrambi insieme a circa 40.000 voti. Anche qui ha contato parecchio l’effetto “voto utile” concentrato sul PSOE (in questo caso, la sua versione catalana, il PSC) ma anche un fenomeno politico-elettorale che si è dato solo in Catalogna. Nonostante i catalani e le catalane abbiano contribuito in buona parte alla battuta d’arresto della destra spagnola con il loro voto antifascista (al neofranchismo di VOX piacerebbe abolire la lingua catalana, la televisione in catalano, la Generalitat e perfino i nomi delle strade di Barcellona, bisogna ricordarlo), una parte dell’indipendentismo di questo paese semplicemente non è andato a votare. Probabilmente perché, arrivati a questo punto della vicenda indipendentista, con le sue sconfitte, i suoi auto-gol, la sua repressione e la disillusione che tutto ciò ha creato, per un settore della popolazione più politicamente attiva, la percezione della destra e della sinistra non è poi così diversa, almeno nell’ambito dello Stato spagnolo. E’ un ragionamento assai semplicistico e di breve respiro, ma le CUP ne sono state evidentemente vittime. Così come le altre formazioni indipendentiste, che perdono -per le stesse ragioni: polarizzazione del voto, astensionismo e disinganno politico- circa 700.000 voti rispetto alle ultime politiche. Un vero terremoto, in realtà.

last but not leastAdelante Andalucia, l’organizzazione anticapitalista andalusa che si presentava però solo a Cadice, ha ottenuto un risultato piuttosto scarso (anche se in Italia nessuna formazione della sinistra radicale lo disprezzerebbe), circa un 1,5%. Evidentemente, le ragioni del voto utile della sinistra con più visibilità hanno avuto ragione della piccola ma tenace organizzazione di Teresa Rodriguez.

Nonostante la soddisfazione per lo stop alla destra spagnola, le Camere di questo paese registreranno una presenza delle forze a sinistra del PSOE (fra cui le anticapitaliste, le indipendentiste e le regionaliste) molto più esigua. Un indebolimento che, come ha detto il portavoce delle CUP a Barcellona la sera del 23 luglio, “non ci fa dimenticare che veniamo da lontano. Abbiamo trascorso la maggior parte della nostra storia politica fuori dalle istituzioni e lì torniamo. Quindi, oggi non finisce nulla né nessuno se ne va a casa sua…”

1.Bisogna segnalare che tanto EH Bildu come le CUP si presentavano solo nei Paesi Baschi la prima e in Catalogna le seconde. Il numero dei loro voti e dei seggi è quindi proporzionale a realtà locali, anche se importanti.

*Sinistra Anticapitalista

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