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Com’è noto, alla fine del mese di luglio, 169.000 famiglie italiane hanno ricevuto sul cellulare un laconico ma inquietante messaggio dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) che diceva più o meno così: “Il reddito di cittadinanza è sospeso come previsto dal decreto lavoro in attesa di un eventuale intervento dei Servizi sociali comunali”. Quelle 169.000 famiglie costituiscono solo una parte delle circa 436.000 (per un totale di circa 615.000 persone) che il decreto lavoro adottato dal governo Meloni il 1° maggio ha voluto privare del Reddito di Cittadinanza (RdC), il sussidio tra i 500 e i 700 euro mensili creato dal governo Conte 1 nel 2019 per alleviare la crescente povertà diffusa nel paese e soprattutto nel Sud.

Un messaggio, quello dell’INPS, peraltro errato, perché nessuno dei quasi 8.000 comuni italiani era stato avvertito di dover affrontare in piena estate l’improvvisa perdita di reddito di decine di migliaia di famiglie e soprattutto perché i “servizi sociali comunali” non sono affatto dotati di fondi adeguati a far fronte ad una così ampia e imprevista emergenza.

La guerra agli ultimi cercando di reclutare i penultimi

La gelida brutalità del messaggio è stata minimizzata come un semplice passo falso della nuova dirigente dell’INPS, Micaela Gelera, che la ministra del Lavoro Marina Calderone aveva da poco nominato scegliendola tra i suoi colleghi di lavoro (la ministra è una consulente aziendale) per soppiantare il precedente presidente Pasquale Tridico, vicino al Movimento 5 Stelle.

Però, al di là dello stile adottato per cambiare la vita di centinaia di migliaia di persone con un semplice SMS, l’iniziativa dell’INPS costituisce la violenta concretizzazione di una delle promesse fatte dalla coalizione di destra durante la campagna elettorale.

Coloro che perderanno il sussidio di povertà sono i cosiddetti “occupabili” (cioè cittadine e cittadini tra i 18 e i 59 anni, senza minori, anziani o inabili a carico), ai quali spetterà da ora in poi un sussidio di soli 350 euro al mese (cioè circa la metà di quanto previsto per il RdC), solo per 12 mesi, e solo a patto che frequentino corsi di formazione che, peraltro, ancora non sono stati attivati. Come dire: “noi non vi sosteniamo più; da ora in poi arrangiatevi”.

Ma la misura non è tanto di tipo economico. Infatti il risparmio previsto dal governo a spese delle cittadine e dei cittadini più deboli sarà di meno di 3 miliardi di euro, dunque una cifra pari allo 0,15% del PIL, a meno dello 0,3% della spesa pubblica, allo 0,1% del debito pubblico.

Lo scopo della cancellazione del reddito di cittadinanza è soprattutto sociale, per sancire la rottura di ogni vincolo di solidarietà delle lavoratrici e dei lavoratori occupati con reddito medio basso nei confronti della vasta e crescente fascia di cittadini in condizioni di povertà assoluta o relativa.

Durante la campagna elettorale e anche oggi, a sostegno del “decreto lavoro” che ha sancito la fine del RdC, gli esponenti della destra hanno cercato di colpevolizzare i poveri definendoli “pigri” e “fannulloni”, come se la mancanza di posti di lavoro dipendesse dalla loro incapacità o non volontà di proporsi sul mercato. E la campagna di colpevolizzazione è stata accompagnata dalla denuncia della presunta impossibilità di tanti imprenditori di reperire manodopera proprio a causa dell’esistenza del RdC, indicato come un fattore di scoraggiamento al lavoro. Una denuncia chiaramente strumentale. 

Matteo Salvini quanto al RdC (che peraltro approvò quando era vicepresidente del governo Conte 1) arrivò a dichiarare durante la campagna elettorale: “Non ci sono imprenditori sfruttatori. Molto semplicemente: se con il RdC prendi 600 euro per stare a casa a guardare la televisione e ti offrono 600 euro per andare a fare il cameriere, la soluzione la lascio intuire”, ritenendo dunque legittimo e dignitoso un salario di 600 euro mensili. 

La difficoltà di trovare lavoratori da assumere è con tutta evidenza strettamente collegata alle condizioni retributive offerte. Fece scalpore, qualche tempo fa, la vicenda dell’azienda toscana Sammontana che cercava 350 lavoratori stagionali per la produzione dei suoi gelati. Viste le vantaggiose condizioni retributive proposte, non ebbe alcuna difficoltà a trovarli e ad assumerli, anzi fu sommersa da oltre 2.500 domande di lavoro.

L’obiettivo, dunque, è quello di costringere sempre più le persone ad accettare un lavoro purchessia, quali che ne siano la retribuzione e le modalità di prestazione. E’ quello che chiedono ampi settori del padronato al fine di contenere i costi e di incrementare così i profitti.

Dunque la destra, invece di combattere la povertà crescente nel paese, ha deciso di fare la guerra ai poveri cercando anche di reclutare per questa ignobile battaglia le fette meno coscienti della classe lavoratrice.

Ma c’è anche uno scopo politico: quello di disperdere quel significativo capitale di consenso che ha consentito al M5S di risultare in tutte le regioni del Sud il primo partito anche alle ultime elezioni.

Nonostante la tregua estiva, si stanno organizzando le risposte di piazza contro il taglio del Reddito di Cittadinanza. Naturalmente nelle mobilitazioni che si stanno sviluppando soprattutto al Sud (la gran parte di coloro che saranno privati del RdC risiede nelle regioni meridionali) integrano nella loro propaganda anche la denuncia di tutta la politica economica del governo Meloni, l’aumento delle spese militari, i condoni fiscali a favore degli evasori, la reintroduzione dei vitalizi per i parlamentari…

E’ previsto un primo appuntamento a Napoli, a Palermo, a Catania e a Cosenza, per il prossimo 28 agosto e si attendono iniziative concomitanti anche in altre città. L’iniziativa è stata presa dalla “Rete dei comitati per la difesa e l’estensione del Reddito” che raccoglie significativi settori popolari di ex percettori del RdC, un tempo base di consenso politico ed elettorale dei 5 Stelle, organizzati attraverso alcune chat e spalleggiati da collettivi di disoccupati ed organizzazioni di sinistra.

I salari in Italia

Come avviene con cadenza trimestrale, a fine luglio l’istituto nazionale di statistica (ISTAT) ha pubblicato i dati sull’andamento delle retribuzioni delle lavoratrici e dei lavoratori italiani, mettendo in luce che “nonostante il recente rallentamento dell’inflazione, nei primi sei mesi del 2023, la distanza tra la dinamica dei prezzi e quella delle retribuzioni supera ancora i sei punti percentuali”. Cioè che anche quest’anno i salari perderanno circa il 6% del loro potere di acquisto.

Questo dipende da tanti fattori: primo fra tutti la totale assenza, dal 1993, di qualunque forma di adeguamento “automatico” delle retribuzioni alla crescita del costo della vita. Infatti, giusto 30 anni fa, nel luglio 1993, i sindacati maggioritari stipularono con le associazioni padronali, sotto la supervisione del governo di centrosinistra presieduto da Carlo Azelio Ciampi, un accordo che sanciva la fine della “scala mobile” dei salari, il meccanismo che dal 1945 aveva tutelato dall’inflazione i livelli di vita delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti.

Dal 1993 le retribuzioni sono governate esclusivamente attraverso i contratti collettivi che periodicamente (formalmente ogni tre anni) vengono sottoscritti tra i sindacati e la Confindustria e le altre organizzazioni dei datori di lavoro. Ma questi contratti sono sempre stipulati con la preoccupazione della “moderazione salariale” e del “contenimento del costo del lavoro”. Inoltre mediamente (anche qui, dati dell’Istat a supporto) vengono sottoscritti con 2, a volte 2 anni e mezzo di ritardo (in alcuni casi il ritardo si protrae fino a 70 mesi). 

Tutto ciò fa sì che, tanto più in una fase come quella attuale nella quale l’inflazione sfiora o supera le due cifre, le retribuzioni reali non solo non aumentano ma anzi tendono a diminuire, anche significativamente: l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie, a giugno 2023 rispetto a giugno 2022, registra un aumento medio del 3,1%, a fronte di un aumento medio dei prezzi al consumo del 5,9% (ma per i beni alimentari, per la cura della casa e della persona l’aumento annuo è del 10,2%). Senza dimenticare che l’aumento del 5,9% per il 2023 si somma e si combina con quello del 2022, pari al 7,9%.

Ecco perché l’OCSE nel 2022 registra per i salari reali italiani un calo addirittura del 7,5% rispetto al periodo precedente la pandemia, a fronte di un leggero incremento (+1,5%) per i salari francesi e di perdite di potere d’acquisto molto più contenute tra il 2 e il 4% negli altri paesi a “capitalismo avanzato”. 

E le previsioni dell’OCSE ipotizzano per l’Italia ulteriori perdite di potere d’acquisto anche per l’anno in corso e per il 2024.

Avevamo già registrato nel 2021 il poco invidiabile primato dei salari italiani, unici tra i paesi dell’OCSE ad essere, dopo 31 anni, a un livello di potere d’acquisto addirittura inferiore (-2,9% in termini reali) rispetto al 1990.

Naturalmente, la perdita di potere d’acquisto ha un impatto più forte sulle famiglie a basso reddito, che hanno una minore capacità di far fronte all’aumento dei prezzi attraverso il risparmio o l’indebitamento. 

Secondo l’Istituto per la previdenza sociale (INPS), il 19,5% delle lavoratrici e dei lavoratori “regolarmente” occupati ha un reddito inferiore a 11.000 euro (è il livello dei working poor) e un altro 9,9% si colloca tra gli 11.000 e i 15.000 euro: si tratta dunque di milioni di lavoratori che hanno un reddito di pura sussistenza, del tutto incapace di affrontare eventi imprevisti anche banali (malattie, incidenti, nascita di figli, ecc.).

Salario lordo di fame significa salario orario di fame: per gli oltre 3 milioni di working poor italiani che hanno un reddito inferiore agli 11.000 euro, perlomeno per chi tra di loro lavora full time, dunque attorno alle 173 ore mensili, quel salario corrisponde a una retribuzione oraria lorda di 4,89 euro.

L’articolo 36 della Costituzione del 1948 (dunque vigente da 75 anni) obbligherebbe il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Ma questa “solenne” norma costituzionale è palesemente disattesa non solo per la voracità del padronato ma anche per la moderazione salariale adottata dai sindacati nella sottoscrizione dei contratti.

Occorre ricordare che l’Italia è uno dei pochissimi paesi europei (assieme all’Austria e ai paesi scandinavi) a non avere un salario minimo per legge. I salari sono fissati esclusivamente dagli accordi tra le “parti sociali”, attraverso tabelle contrattuali concordate ogni tre anni. 

E’ impossibile una verifica puntuale di queste tabelle, visto che i contratti in vigore differenziati per i numerosissimi settori di lavoro sono ben 985. Ma non sono pochi i contratti che, soprattutto nel terziario dei servizi e del turismo, pongono come retribuzione mensile cifre di pochissimo superiori ai 1.000 euro (ad esempio, alimentaristi, imprese di pulizia e di vigilanza, custodi, ecc.), corrispondenti dunque a salari orari lordi di poco superiori a 6 euro (a cui vanno sottratti i contributi fiscali e previdenziali).

Lo sottolineiamo, numerosi di questi contratti miserevoli sono sottoscritti dai sindacati confederali (oltre che da numerosi “sindacati” filopadronali e di comodo).

L’iniziativa per il salario minimo

Sono queste le considerazioni che hanno indotto le forze dell’opposizione parlamentare italiana ad avanzare la proposta dell’istituzione di un salario orario minimo fissato per legge a 9 euro.

Il Movimento 5 stelle, fin dal suo nascere, aveva avanzato la proposta dell’istituzione di un salario minimo per legge, quando il Partito democratico era ancora subalterno alla posizione dei sindacati confederali, contrari a questa ipotesi perché toglierebbe loro una parte significativa di quella “autorità salariale” che esercitano (malamente) da decenni.

Oggi, di fronte all’iniziativa unitaria dell’opposizione a favore dell’introduzione anche in Italia di un salario minimo, sostenuta congiuntamente da PD, M5S, Sinistra italiana e, seppure con minore decisione, dalla formazione centrista di Carlo Calenda, la Cgil e la Uil hanno dovuto ammorbidire la loro contrarietà, mentre la Cisl continua a pronunciarsi in maniera nettamente ostile.

Sulla questione si è aperta una partita politica significativa che ha colto in contropiede il governo di destra. 

Giorgia Meloni e i suoi, nei 10 mesi di governo, sono riusciti abbastanza efficacemente a rassicurare la classe dominante, il grande capitale, le istituzioni europee e l’amministrazione statunitense con la loro fedeltà alla politica economica neoliberale. Ma coloro che li hanno portati al governo, anche per pure considerazioni numeriche, sono stati soprattutto i piccoli imprenditori e parte dei ceti medi impoveriti e impauriti dalla crisi: verso questa base sociale la destra ha utilizzato a piene mani la demagogia razzista sui migranti, ma tutto ciò non basta più. 

La crisi morde in maniera crescente, e l’impoverimento di ampi settori sociali si scarica attraverso il calo dei consumi anche sui commercianti e sulle piccole aziende.

Nella sua campagna demagogica contro il Reddito di cittadinanza la destra ha strumentalmente cercato di reclutare la classe lavoratrice, agitando l’argomento degli “oziosi mantenuti da chi paga le tasse”. Ora che l’opposizione è riuscita a portare al centro dell’attenzione il problema di chi pur lavorando è comunque povero, il governo (e soprattutto la premier e il suo partito) non ha potuto controbattere con la consueta arroganza.

Le contraddizioni della destra di governo

Sono emerse però palesi contraddizioni tra gli alleati della coalizione governativa, con una significativa contrarietà di Forza Italia, il partito meno condizionato da una base “popolare”, e della Lega di Salvini, il cui elettorato operaio e popolare è concentrato nel Nord, dove le retribuzioni sono più alte e più tutelate dalla contrattazione sindacale.

Infatti la destra può contare sul fatto che nell’Italia del XXI secolo le diseguaglianze territoriali ereditate dal passato, invece che attenuarsi, si sono incrementate.

Sulla base dell’elaborazione Eurostat per il 2021, nel continente europeo quasi tutte le regioni con meno opportunità di lavoro sono nel Sud Italia: la Campania, la Sicilia, la Calabria, la Puglia (e la Guyana “francese”). In queste regioni il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni è di poco superiore al 41,0%, quando la media italiana è del 58,2% e quella europea del 68,4%. E per le donne la situazione è ancora peggiore, con tassi di occupazione femminile che non superano il 30% nelle regioni del Sud Italia.

Lo scandalo dei “lavoratori poveri” sta scuotendo dal torpore estivo il dibattito pubblico e Giorgia Meloni segue con preoccupazione i risultati dei numerosi sondaggi di opinione che attestano tutti una massiccia quota di opinione pubblica (oscillante tra il 70 e il 75%) favorevole all’introduzione di un salario minimo.

Ma Giorgia Meloni deve anche tenere conto della contrarietà dei suoi alleati, oltre che delle associazioni padronali che continuano a sostenere che lo strumento per difendere i salari è quello della contrattazione, nonostante la semplice constatazione dei fatti attesti il contrario. 

Per chi conosce la burocrazia sindacale italiana non sorprende che tra i contrari ad una legge per il salario minimo vadano annoverati anche i vertici di Cgil, Cisl e Uil che spudoratamente sostengono, in una nota unitaria, che tale norma potrebbe provocare un “abbassamento dei salari e delle tutele delle lavoratrici e dei lavoratori”. La direzione della Cisl si è schierata esplicitamente contro. Cgil e Uil sono più imbarazzate, vista la posizione assunta dal loro “partito di riferimento” (il PD di Elly Schlein), e chiedono più che altro l’introduzione di meccanismi di incentivo alla contrattazione.

Così, la maggioranza si è ricompattata con la tradizionale scelta “paleo democristiana” del “prendere tempo”, approvando, assieme al gruppo di Matteo Renzi, una mozione che rinvia a ottobre la discussione sull’argomento, anche se con tutta probabilità ad ottobre la situazione si ripresenterà in tutta la sua contraddittorietà. La mozione tra l’altro affida il chiarimento della questione al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL, un organo consultivo previsto dalla Costituzionale e formato da esperti di materie economiche e di rappresentanti delle organizzazioni sindacali e padronali). Il Cnel è attualmente presieduto da un campione del neoliberismo, Renato Brunetta, ex ministro dei governi Berlusconi.

Per aggirare la tattica del rinvio adottata dal governo, le opposizioni parlamentari hanno scelto di sviluppare durante l’estate una campagna di raccolta firme (nelle piazze e via web) a sostegno della loro proposta di legge, sulla quale, a dimostrazione dell’impatto che la proposta sta avendo nell’opinione pubblica, hanno raccolto in poche ore più di 200.000 adesioni. Ma occorre anche mettere in luce le caratteristiche contraddittorie e negative di quella proposta. 

Si propone che il salario minimo orario si attesti a 9 euro lordi, per la cui applicazione si concedono alle “parti sociali” (padroni e sindacati maggiormente rappresentativi) 18 mesi di tempo per accordarsi sulle “modalità di applicazione”. 

Il salario minimo non sarà indicizzato rispetto all’inflazione. Verrà istituita una “commissione” (sempre costituita dalle parti sociali) che prenderà periodicamente in esame le variazioni del costo della vita e assumerà le decisioni relative.

Inoltre il differenziale tra il salario attualmente corrisposto al lavoratore e il salario minimo definito dalla legge sarà solo in parte a carico del datore di lavoro, mentre un’altra parte sarà coperta da un “contributo” statale. E’ come dire che i lavoratori (le cui tasse coprono per oltre l’80% il bilancio pubblico) autofinanzieranno l’aumento dei salari più bassi.

Ma il punto più debole per la proposta della sinistra parlamentare è quello politico, che viene utilizzato a pieno dalla destra nella sua controffensiva. Lavoratori poveri e salari scandalosamente bassi non sono apparsi 10 mesi fa con il governo Meloni. Esistono da decenni e mai il PD, che è stato al governo quasi ininterrottamente dal 2011 a oggi, ha indicato questa realtà come un’urgenza né tantomeno ha adottato misure adeguate per superarla.

Comunque, la vicenda sul Reddito di Cittadinanza e la campagna sul salario minimo stanno scuotendo dal torpore la sinistra che, tutta, nelle sue diverse versioni era, fino a qualche settimana fa, solo impegnata a curare le proprie ferite dopo la sconfitta politica ed elettorale di settembre.

La coalizione di Unione popolare (composta dal Partito della rifondazione comunista e da Potere al popolo) ha predisposto una “legge di iniziativa popolare” su cui, anche con il sostegno di altre organizzazioni come Sinistra Anticapitalista, si stanno raccogliendo le 50.000 firme richieste dalle norme.

Questa legge risolve alcuni dei punti deboli della proposta del centrosinistra: fissa a 10 euro il salario minimo lordo orario, indicizzandolo automaticamente all’inflazione e ponendolo integralmente a carico dei datori di lavoro.

La Cgil di Maurizio Landini, da parte sua, ha preso l’iniziativa di convocare assieme ad un centinaio di associazioni una manifestazione nazionale a Roma per il 7 ottobre “per il lavoro, contro la precarietà, per la difesa e l’attuazione della Costituzione, contro l’autonomia differenziata (un progetto di forte differenziazione tra le regioni più ricche e quelle più povere) e lo stravolgimento della Repubblica parlamentare (di fronte alla ipotesi presidenzialista del governo). All’iniziativa hanno aderito tutte le organizzazioni e i partiti della sinistra e del centrosinistra.

Demagogia della premier sugli “extraprofitti”

Nei giorni scorsi, certamente allo scopo di distogliere l’attenzione mediatica dalla questione del salario minimo, la premier ha improvvisamente annunciato che i cosiddetti “extraprofitti” delle banche, cioè i maggiori guadagni ottenuti nell’ultimo anno grazie all’aumento dei tassi di interesse su mutui e prestiti, sarebbero stati tassati al 40%. 

Il quotidiano “Sole 24 Ore” aveva rivelato poche settimane fa che nel primo semestre di quest’anno le sei principali banche italiane (Intesa San Paolo, UniCredit, Mediobanca, BPM, BPER e MPS) hanno accresciuto del 60% i loro profitti rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (che peraltro era già stato per le banche un anno d’oro), per un aumento pari a 11 miliardi di euro.

Si tratta della conseguenza dell’aumento dei tassi di interesse che le banche applicano a mutui e prestiti come riflesso dei rialzi decisi dalla Banca Centrale Europea. Cioè, in poche parole, è il frutto di una sorta di “scala mobile” per i capitalisti bancari, molto simile a quella che per i lavoratori è stata abolita 30 anni fa.

Peraltro, già le banche pagano sui loro profitti molto meno di quanto sono costretti a pagare al fisco le lavoratrici e i lavoratori. Una ricerca dell’EuTax Observatory del settembre 2021 illustra molto bene la situazione di favore fiscale in cui si muovono i principali istituti bancari europei (compresi quelli italiani).

L’ipotesi clamorosamente annunciata da Giorgia Meloni non era stata minimamente concordata nel governo, dato che solo poche settimane prima il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti (Lega) aveva dichiarato in parlamento: “Non abbiamo in cantiere nessuna tassazione sugli extraprofitti”, smentendo l’ipotesi di seguire l’esempio di quanto fatto da alcuni governi europei, come quello spagnolo. 

Sembra anche che Giorgetti si fosse impegnato in tal senso a fine luglio in un incontro informale che aveva avuto con il presidente dell’ABI (l’associazione dei banchieri). L’annuncio a sorpresa della presidente del consiglio poi l’aveva evidentemente messo in difficoltà, tanto da farlo essere assente dalla conferenza stampa al termine del consiglio dei ministri del 7 agosto nella quale è stato annunciato il provvedimento.

L’annuncio ha avuto una pesante ricaduta sui titoli borsistici delle banche che nella giornata di martedì 8 hanno “bruciato” 9 miliardi di valore, anche se sono stati largamente compensati dai rialzi dei giorni successivi, dopo che le precisazioni del governo hanno drasticamente ridimensionato l’impatto della misura.

La premier, in un’intervista rilasciata congiuntamente lunedì 14 agosto ai tre maggiori quotidiani del paese (Corriere della SeraRepubblica La Stampa), ai giornalisti che le domandavano in che misura i partner di governo fossero stati coinvolti nella decisione ha risposto: “È un’iniziativa che ho assunto io. Punto”. E ha aggiunto: “Ci può essere stata sicuramente una questione di metodo. È più facile intervenire su una misura del genere se la notizia non gira troppo, quindi io mi assumo la responsabilità politica. Tutti i partiti sono sempre estremamente coinvolti, questa è una materia molto particolare e delicata su cui mi sono assunta la responsabilità di intervenire”.

Non è comunque ancora chiaro come funzionerà questa norma, né tantomeno quanto si prevede sarà il gettito. Dopo le prime voci che indicavano entrate per lo stato attorno ai 9 miliardi, ora le cifre che si ipotizzano non superano i 2 miliardi. 

Né è chiaro a che cosa sarà finalizzato questo gettito fiscale “imprevisto”: il vice presidente Matteo Salvini ha dichiarato che sarà usato per “aiutare le famiglie in difficoltà coi mutui prima casa” e per coprire “il taglio delle tasse per famiglie e imprese” che il governo vuole adottare nell’ambito della sua “riforma fiscale”.

Comunque l’iniziativa ha avuto il merito di riportare alla luce le contraddizioni interne alla maggioranza, in particolare tra l’ala più “populista” (quella impersonata dalla stessa presidente Meloni e dal suo vice Salvini) e quella più tradizionalmente neoliberale di Forza Italia (e dello stesso ministro Giorgetti).

Forza Italia critica la proposta apertamente, descrivendola come “illegittimamente retroattiva” (perché si applicherebbe sui profitti ricavati nel 2022) e rischiosa per la “credibilità internazionale” del paese.

L’iniziativa cerca di rispondere alla permanente e concreta contraddizione tra i due punti di riferimento dell’azione del governo della destra, da un lato i settori dominanti della borghesia, di cui i vertici bancari sono parte essenziale, dall’altro la base sociale piccolo borghese che ha consentito alla destra di vincere le elezioni del settembre scorso e che è colpita dalla crisi, che chiede continuamente sovvenzioni e che oggi paga anche, con il rialzo dei tassi, il surplus di profitti delle banche e dei grandi capitalisti.

A differenza dei governi “tecnici” che sono largamente insensibili alla ricerca del consenso, il governo Meloni fin dalla sua formazione ha dovuto destreggiarsi equilibristicamente tra questi due punti di riferimento. Finché ci si poteva limitare alla strumentalizzazione razzista dei migranti o alla colpevolizzazione dei percettori del RdC, l’azione poteva essere facile. 

Ma qualcuno ha fatto notare a Giorgia Meloni che gli 11 miliardi di extraprofitti accumulati dalle banche nel 2022 costituiscono in grande parte uno spostamento di reddito dai debitori alle banche creditrici, soldi sottratti alle piccole imprese e ai piccoli proprietari.

Le piccole imprese, finché possono, scaricano questo aumento dei costi bancari sui consumatori, ma quando la contrazione dei consumi intralcia l’aumento dei prezzi finali, il meccanismo non funziona più.

Così Meloni e Salvini si sono “inventati” l’imposta sugli extraprofitti bancari, molto probabilmente pensando di destinare le risorse che ne ricaveranno, poche o tante che siano, a sostenere quella piccola borghesia “sofferente” che è essenziale per la loro tenuta elettorale e politica.

Fino a pochi mesi fa la destra cavalcava le proteste dei piccoli imprenditori in difficoltà per la crisi. Oggi sta al governo e vuole evitare che nuove iniziative di protesta minino la sua base di consenso. E’ così che cerca di far quadrare il cerchio. La tassa sugli extraprofitti si delinea come un Robin Hood che toglie qualcosa ai ricchi più ricchi per dare qualcosa ai ricchi meno ricchi. I poveri si arrangino.

*articolo apparso su https://refrattario.blogspot.com/ e in francese su www.alencontre.org

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