Da una parte un medico, le urne e la democrazia. Dall’altra, un generale che ha organizzato un colpo di stato, le armi e la dittatura. Tra i protagonisti dell’11 settembre 1973, il pantheon cileno dovrebbe poter scegliere facilmente. Eppure…
“Continuate ad essere consapevoli che, prima o poi, tornerete ad aprire le grandi vie attraverso le quali passa l’uomo libero, per costruire una società migliore”. Da una parte all’altra dello spettro politico, quasi tutte le donne e gli uomini cileni conoscono l’ultimo comunicato di Salvador Allende, da cui è tratta questa citazione. Questo discorso, noto come “de las alamedas”, fu pronunciato l’11 settembre 1973 dal presidente cileno eletto nel 1970, durante il colpo di stato fomentato dal generale Augusto Pinochet.
Allende era rinchiuso nel palazzo presidenziale de La Moneda, con pochi intimi e armi in mano. Sapeva che non sarebbe uscito vivo dal palazzo presidenziale. Nel suo ultimo discorso al popolo, Allende intendeva lasciare “una lezione morale che punirà la criminalità, la viltà e il tradimento”, nonché la testimonianza “di un uomo degno che è stato fedele al suo paese”.
A cinquant’anni di distanza, come aveva previsto, il “metallo tranquillo” della sua voce continua a risuonare e il primo presidente marxista democraticamente eletto nella storia del Cono Sud latinoamericano rimane una delle figure centrali nella storia mondiale della sinistra del XX secolo.
In piena guerra fredda, l’esperienza della “via cilena al socialismo” durò meno di tre anni (dal novembre 1970 al settembre 1973). Tuttavia, trasformò il paese andino di nove milioni di abitanti ed entusiasmò il mondo intellettuale e militante, da un capo all’altro del pianeta. La sinistra (riunita intorno al Partito Socialista e al Partito Comunista), che nel 1969 diede vita alla coalizione che prese il nome di Unidad Popular (UP), proponeva una transizione al tempo stesso democratica e rivoluzionaria, istituzionale, elettorale e non armata: non si trattava più di puntare sulla guerriglia e sui kalashnikov, ma sulla mobilitazione delle classi popolari e del movimento operaio.
Basandosi – erroneamente – su quella che consideravano una tradizione storica legalista dell’esercito e una certa flessibilità dello stato cileno, Allende e i suoi seguaci scommisero che i militari avrebbero rispettato il suffragio universale e che sarebbe stato possibile imporre la volontà della maggioranza all’oligarchia senza sparare il minimo colpo. Lontano dalle opzioni strategiche della rivoluzione cubana, questo azzardo era considerato suicida dalla sinistra extraparlamentare, che comprendeva il Movimiento de Izquierda Revolucionaria (MIR), allora guidato da Miguel Enríquez.
La vittoria di Allende il 4 settembre 1970 (con una maggioranza relativa del 36,6% dei voti) sui candidati della destra e della Democrazia cristiana cilena suscitò un’enorme ondata di speranza. Le “40 misure” del governo, adottate all’inizio del suo mandato, miravano a promuovere la crescita, a ridistribuire la ricchezza – in modo molto ambizioso -, ad aumentare i salari, ad approfondire la riforma agraria avviata dal governo precedente e persino a porre sotto il controllo dello stato le principali risorse nazionali (in particolare quelle minerarie).
La nazionalizzazione di alcune decine di grandi imprese e del 90% delle banche permise la costituzione di un’Área de Propiedad Social (APS) in cui venne attuato un sistema di cogestione tra salariati e amministrazioni pubbliche. Il settore privato, tuttavia, rimase molto presente nell’economia nazionale. Il paese viveva un clima di effervescenza: si moltiplicavano gli scioperi, le occupazioni di terreni e fabbriche…. Ma la sinistra rimaneva una minoranza in parlamento.
La reazione
La borghesia e i grandi proprietari terrieri reagirono alle politiche della coalizione come i vampiri reagiscono all’aglio: rabbrividirono di orrore. Il 6 novembre 1970, il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon disse al Consiglio di Sicurezza Nazionale: “La nostra principale preoccupazione riguardo al Cile è la possibilità che lui [Allende] consolidi il suo potere e che il mondo abbia l’impressione che stia ottenendo un successo. […]. Non dobbiamo permettere che l’America Latina pensi di poter percorrere questa strada senza subirne le conseguenze”.
Il presidente cileno si era insediato due giorni prima. Nel 1971, l’esproprio del rame (la più grande riserva al mondo), allora in mano a imprese statunitensi, fu interpretato dalla Casa Bianca come una dichiarazione di guerra. Allende si stava affermando anche come leader degli stati non allineati. Difese il diritto all’autodeterminazione dei paesi colonizzati e denunciò il sistema finanziario internazionale.
Ben presto, la Central Intelligence Agency (CIA), l’ambasciata statunitense e le potenti multinazionali interessate dalle nazionalizzazioni cospirarono per far crollare questa originale esperienza radicale a metà strada.
A Santiago del Cile, la destra – sostenuta da Washington con milioni di dollari (come dimostrerà un’indagine del Senato statunitense) – si è pose l’obiettivo di smantellare il blocco sociale e politico che sosteneva la sinistra al potere. Ha iniziato a cercare il sostegno dei settori reazionari delle forze armate. Gli attentati di Patria y Libertad, un’organizzazione di estrema destra, scossero la popolazione.
I grandi datori di lavoro e alcune professioni liberali lanciarono boicottaggi e serrate per devastare l’economia. I media conservatori, in particolare il quotidiano El Mercurio, ingranaggi essenziali della macchina, mettevano costantemente in guardia dalle “derive” della “dittatura marxista”. L’assedio si stava progressivamente stringendo sul processo rivoluzionario, mentre l’esplosione dell’inflazione, il boicottaggio internazionale e lo sviluppo del mercato parallelo stavano alienando i settori medi urbani. Nel 1972, la Democrazia Cristiana mise da parte i suoi dubbi e passò all’opposizione frontale.
Il movimento sindacale resistette. In risposta a ogni tentativo di sciopero dei padroni, si moltiplicarono le forme di auto-organizzazione e di potere popolare, soprattutto nei settori industriali. Ma la sinistra era sempre più divisa, mentre il governo si ostinava a credere che sarebbe stato possibile evitare il confronto. Invano.
La mattina dell’11 settembre 1973, con l’appoggio dell’amministrazione Nixon (ma anche, come ormai sappiamo, della dittatura brasiliana), i diversi settori delle forze armate si sollevarono. La sinistra fu disarmata sia politicamente che militarmente. La battaglia del Cile si concluse drammaticamente. La dittatura civile-militare, basata sul cattolicesimo nazional-conservatore e sulla dottrina della sicurezza nazionale, chiuse il parlamento, represse sanguinosamente i sindacati, proclamò lo stato d’assedio e praticò la censura.
Contro il “cancro marxista”, il terrorismo di stato travolse il paese. Per 16 anni, i militari e la polizia politica torturarono decine di migliaia di persone, assassinarono più di 3.200 persone, di cui più di mille sono ancora oggi disperse (i loro corpi non sono mai stati ritrovati). Centinaia di migliaia di persone furono costrette all’esilio. Questo periodo di violenza massiccia coincise, a partire dal 1975, con un periodo di terapia d’urto economica che trasformò il Cile in un laboratorio a cielo aperto del neoliberismo: il paese divenne l’esempio dei Chicago Boys e delle teorie monetariste sostenute dall’economista Milton Friedman.
Il presente
Cinquant’anni dopo il colpo di stato cileno, la guerra dei ricordi sta portando scompiglio in un paese profondamente fratturato. Sostenuto dal Partito comunista, è vero che Gabriel Boric (del Frente Amplio) è riuscito a battere al ballottaggio – con il 56% dei voti – José Antonio Kast (Partido Republicano, PR), candidato di estrema destra, durante la campagna presidenziale del 2021, presentando un programma critico nei confronti del neoliberismo.
Tuttavia, Kast è uscito vincitore al primo turno, lasciando i partiti tradizionali molto indietro. Ammiratore del generale Pinochet, l’uomo forte della destra cilena è figlio di un ex tenente nazista fuggito dall’Europa. Cattolico fondamentalista, come la sua famiglia ha sostenuto la dittatura (uno dei suoi fratelli è stato addirittura ministro).
Da parte sua, Boric cita volentieri Allende come esempio, ma lo fa soprattutto per richiamare al rispetto delle istituzioni e dei diritti umani di fronte a chi ha attaccato la democrazia nel 1973, non per esaltare il militante antimperialista. Senza una maggioranza parlamentare, senza un vero legame con i movimenti popolari e con una parte della sua coalizione oggetto di uno scandalo di corruzione, Boric governa nell’“estremo centro”, ben lontano dalle “alamedas” (le piazze, ndt) immaginate da Allende.
Tuttavia, due anni fa, la fine dell’eredità autoritaria e del neoliberismo sembrava possibile, grazie alla forza della grande rivolta sociale dell’ottobre 2019. Oggi sono i reazionari ad avere il vento in poppa. Dopo la massiccia bocciatura referendaria nel 2022 del progetto di Costituzione femminista e progressista, paradossalmente è ora la destra del Partido Republicano a guidare la stesura di una nuova Magna Carta, dopo gli ottimi risultati ottenuti nelle elezioni costituenti del maggio 2023. Così, ai “figli” di Pinochet viene affidata la responsabilità di sostituire la Costituzione del 1980, immaginata dal loro mentore…
Due fantasmi infestano la politica cilena e due strade diverse si stanno delineando per il paese: un ex dittatore morto nel 2006 e mai processato; un socialista pacifista morto con un mitra in mano. Per 50 anni il Cile ha esitato…
* professore di storia e studi latinoamericani all’Università di Tolosa Jean Jaurès. Autore, tra gli altri libri, di Découvrir la révolution chilienne (1970-1973), Les Éditions sociales, Parigi, 2023. Questo articolo è apparso su Le Monde diplomatique, edizione uruguaiana, settembre 2023.