Il Cile di Allende,  un’esperienza rivoluzionaria

Tempo di lettura: 10 minuti

Cinquant’anni fa, in Cile, il colpo di Stato militare contro il governo unitario di sinistra e il presidente Salvador Allende lasciava immagini sconvolgenti: il palazzo della Moneda in fiamme e i fucili puntati contro i prigionieri politici, detenuti e torturati nello stadio nazionale.
Tuttavia, l’11 settembre 1973 è stato anche il tragico epilogo di un processo al tempo stesso luminoso e contraddittorio, che ha portato le energie e le speranze popolari a un livello di intensità raro nella storia. Furono i tre anni in cui le forze di Unità Popolare (UP), che avevano appoggiato Allende nelle elezioni presidenziali del 1970, tentarono di realizzare una trasformazione sociale di vasta portata, avendo come orizzonte il socialismo.
Con il 36,6% dei voti espressi in quelle elezioni, alle quali partecipava per la quarta volta, Allende non aveva la maggioranza assoluta che gli avrebbe permesso di essere eletto direttamente Presidente della Repubblica. Sulla base della Costituzione vigente, i membri eletti del Congresso cileno decisero tra Allende e il candidato della destra conservatrice Jorge Alessandri, che lo tallonava con il 35,3% dei voti. L’elezione di Allende fu quindi il risultato di un patto con la Democrazia Cristiana, che all’epoca costituiva il polo centrale della vita politica cilena.
Queste condizioni per arrivare al potere pesarono molto sul destino di Unità Popolare. Accrescevano la fragilità di una struttura politica che si scontrava con l’immediata ostilità degli Stati Uniti, i quali davano la caccia a qualsiasi rischio di contagio “collettivista” in quello che consideravano il proprio “cortile di casa”, e con la resistenza opposta dalle classi dominanti della società cilena. Allo stesso tempo, questi ostacoli hanno contribuito all’emergere di notevoli iniziative popolari autonome, che hanno cercato di difendere le conquiste e le promesse dell’esperienza in corso.
È proprio questa ricerca di emancipazione che
Franck Gaudichaud, professore di Storia e Studi latinoamericani contemporanei all’Università di Tolosa, ha esplorato nel libro nato dalla sua tesi, Chili 1970-1973.
Mille jours qui ébranlèrent le monde (PUR, 2013), e in un libro didattico pubblicato questo mese, Découvrir la révolution chilienne (Éditions sociales, 2023).

Salvador Allende conquistò la presidenza del Cile grazie a un’unione di partiti di sinistra chiamata Unità Popolare (UP). Quali erano le sue componenti e come si situava Allende in relazione ad esse?

È importante sottolineare che non ci sarebbe stata vittoria senza l’unità della sinistra. L’unità era stata la grande ossessione militante di Allende fin dagli anni Trenta. Influenzato dall’esperienza del Fronte Popolare nel 1938, riteneva che solo l’unione del PS e del PC cileni gli avrebbe consentito di accedere all’esecutivo. A volte mantenne questa posizione anche di fronte alle avversità, come quando ruppe con il suo stesso partito, il PS, durante la fase anticomunista di quest’ultimo.
L’Unità Popolare nacque da diversi esperimenti unitari tra la fine degli anni Trenta e il 1969, quando fu costituita per le elezioni legislative e poi riproposta alle elezioni presidenziali del 1970.


La specificità dell’UP è stata quella di essere stata segnata da un contesto di forte polarizzazione sociale, visibile nella radicalizzazione del discorso e del programma dei partiti di sinistra. L’egemonia era esercitata dai Socialisti e Comunisti, un’alleanza di marxisti antimperialisti i cui alleati secondari includevano componenti del vecchio Partito Radicale, nonché cristiani di sinistra della Democrazia Cristiana, un nuovo pilastro del sistema politico dagli anni Cinquanta.

Leggendo il suo libro, è chiaro che questa vittoria è stata ottenuta grazie a un’impressionante mobilitazione sociale, nella quale la dimensione culturale è stata importante. Un mondo che sembra molto lontano…

È chiaro che, politicamente, il Cile di oggi è un Paese diverso. All’epoca di Unità Popolare esistevano grandi partiti di massa radicati nella classe operaia. Su una popolazione di 9 milioni di abitanti, il PC aveva 160’000 militanti esperti, il PS 140’000, a cui vanno aggiunte centinaia di migliaia di persone che partecipavano all’agitazione di base.
Durante la campagna elettorale furono costituiti decine di migliaia di comitati di UP, alcuni dei quali si rammaricarono in seguito di essere stati trascurati dal nuovo governo. Allende si spostava in treno da un villaggio all’altro, non solo per la propaganda elettorale ma anche per le attività culturali. L’UP godeva di un notevole sostegno tra gli artisti, in un momento in cui stava emergendo una “nuova canzone cilena”, con una prospettiva esplicitamente socialista.

Allende divenne presidente, non disponendo della maggioranza assoluta dei voti, grazie a un accordo con la Democrazia Cristiana. Perché questo ha rappresentato un problema in seguito?

L’esplosione di gioia provocata dalla vittoria di Allende fu limitata fin dall’inizio. Il programma dell’UP prevedeva una transizione legale al socialismo nel rispetto dell’ordine costituzionale. L’essere in minoranza, nell’elettorato e nelle istituzioni, era quindi un problema centrale. Il negoziato con il polo centrale della democrazia cristiana era inevitabile; solo che questa forza, dopo essere stata dominata dalla sua ala sinistra, si è spostata a destra.
Negli Stati Uniti, chi era al potere era ben consapevole di questa fragilità. Allende non era ancora nemmeno entrato nel palazzo presidenziale della Moneda  che giâ erano in corso le manovre per impedirgli di arrivare al potere e poi per destabilizzarlo.

Che tipo di socialismo prometteva Unità Popolare?

Nel contesto della Guerra Fredda, in un piccolo Paese latinoamericano, era una proposta originale. Non si trattava di un allineamento con l’URSS, la via armata fu rifiutata, ma la proposta andava oltre la socialdemocrazia radicalizzata. Si potrebbe dire che UP aveva un programma di sovranità “nazional-popolare”, pur rivendicando un orizzonte socialista. Alla base c’era la convinzione che lo Stato fosse “flessibile”, o almeno abbastanza flessibile da consentire lo svolgimento di un programma di democratizzazione avanzata, compresa la proprietà dei mezzi di produzione.

Esistevano opinioni comuni su questo “orizzonte socialista” e su come raggiungerlo?

Il programma non forniva dettagli. In realtà, nel corso dell’esperienza dell’UP si accesero grandi conflitti, in particolare tra gli economisti comunisti, desiderosi di procedere per gradi, negoziando con i datori di lavoro e i democratici cristiani, e quelli legati all’ala sinistra del Partito socialista, che ritenevano necessario procedere in modo massiccio e rapido. I disaccordi si cristallizzarono sul numero di aziende da nazionalizzare.
Tuttavia, è possibile individuare una strategia generale comune. L’obiettivo era quello di riuscire a governare un’ampia parte dell’economia, assumendo il controllo dei cosiddetti settori “monopolistici”. Si trattava del sistema bancario di erogazione del credito (il 90% di questo settore fu nazionalizzato), nonché delle grandi imprese ritenute essenziali, in particolare le grandi miniere di rame (anch’esse furono nazionalizzate, con l’appoggio unanime dei parlamentari, poiché anche la destra reazionaria non osò opporsi frontalmente alla misura).
A ciò si aggiunge una notevole riforma agraria, attuata tra il 1971 e il 1972. Si trattò di una delle riforme fondiarie più radicali del XX° secolo in America Latina. Alla fine del processo, la proprietà terriera su larga scala fu praticamente azzerata. Infine, era previsto un grande progetto di pianificazione, chiamato Cybersyn, per monitorare gli sviluppi economici in tempo reale, ma non fu portato a termine.

La sinistra cilena era consapevole della resistenza che ci si poteva aspettare da parte della borghesia?

Questo percorso generale soffriva di diverse contraddizioni. Il settore della distribuzione rimase un punto cieco nella politica dell’UP, anche se il 70% di esso era controllato da proprietari privati. Le grandi lobby della distribuzione avevano i mezzi per creare strozzature. Inoltre, aumentare i salari senza aumentare la produzione nella stessa proporzione alimentava l’inflazione dei prezzi, a cui si aggiungeva l’inflazione “politica”, innescata dal boicottaggio internazionale di alcuni beni e dalla chiusura del credito allo Stato cileno.

Come sono state anticipate queste resistenze?

La sinistra cilena era consapevole della resistenza che ci si poteva aspettare dalla borghesia. Il comitato nazionale dell’UP, compresi i leader di tutte le sue componenti, aveva individuato fin dall’inizio gli ostacoli interni ed esterni alla realizzazione del progetto.
C’era l’idea che la transizione al socialismo sarebbe rimasta possibile grazie alla pressione popolare, in particolare attraverso il sindacato unico dei lavoratori, la CUT. La scommessa era quella di costringere la borghesia industriale, commerciale ed estrattiva a vendere i propri beni piuttosto che rischiare di perderli.
Questa consapevolezza della resistenza non impedì tuttavia una diversità di analisi tattiche. C’era una notevole tensione tra, da un lato, un polo conciliante, incarnato principalmente dal PC, che voleva negoziare passo dopo passo, con l’idea di “consolidare per andare avanti”, senza moltiplicare i fronti degli avversari; e, dall’altro, un polo “di rottura”, ben rappresentato dall’ala sinistra del PS e dal Movimento della Sinistra Rivoluzionaria (MIR), che affermava che era necessario andare avanti senza compromessi, per non lasciare che gli avversari si organizzassero.
Questa tensione fu accentuata dall’esplosione della penuria e del mercato nero, che esasperò le classi medie, le quali erano più propense a passare nel campo avversario dell’UP. Oltre alla resistenza interna, ci fu una cospirazione internazionale per “far pesare l’economia”, come disse il presidente statunitense Nixon. Gli Stati Uniti intervennero per bloccare l’accesso del Paese al credito internazionale, per impedirgli di ottenere pezzi di ricambio, per requisire le esportazioni che gli avrebbero permesso di guadagnare valuta estera e così via.

Uno dei punti centrali del suo lavoro riguarda il “potere popolare” che fu messo in atto nell’ottobre 1972 e che è anche una delle caratteristiche originali del processo cileno. Quali furono le sue origini e le sue forme?

Nella primavera del 1971, la coalizione di Unità Popolare ottenne il 50% dei voti. L’opposizione era preoccupata da questa avanzata elettorale e temeva che il Congresso venisse sciolto o addirittura che venisse convocata un’assemblea costituente. Dopo un intenso dibattito, Allende decise di non sciogliere il Congresso, il che potrebbe essere stata un’occasione persa. Dall’altra parte, il campo dell’opposizione radicale capì che doveva unirsi portando i democristiani dalla sua parte e colpendo la sinistra dove faceva male, cioè sull’economia.
Il Paese è stato quindi colpito da uno sciopero dei camionisti, sostenuto dalla CIA, che ha raddoppiato i salari degli scioperanti, e da un blocco generale dell’economia da parte delle professioni liberali e delle principali federazioni commerciali e industriali. Ciò portò a una risposta “dal basso”, con forme di auto-organizzazione popolare che furono definite dal MIR, ma non solo, come “potere popolare”.
Questa risposta è stata un momento fondamentale della rivoluzione cilena ed è il motivo per cui uso questo termine nel titolo del mio libro. Per molto tempo, alcuni esponenti dell’estrema sinistra si sono rifiutati di usare la parola “rivoluzione” per il Cile di Allende, perché non c’era stata “rottura con lo Stato borghese”. Oggi, però, ritengo che si sia trattato di un’esperienza rivoluzionaria per il suo livello di organizzazione, per il modo in cui ha messo in discussione i rapporti di produzione e di genere e per l’azione culturale che ha avuto luogo.

Una dimensione importante di questa esperienza era l’esistenza dei “cordoni industriali”…

Sì, nelle periferie delle grandi città sono stati creati coordinamenti sindacali territoriali. Non si trattava di “soviet alla cilena”, ma di forme avanzate di autorganizzazione. Si è cominciato con occupazioni di fabbriche o di terreni, ma si sono viste anche forme embrionali di potere operaio della durata di alcuni giorni, con assemblee che andavano oltre le strutture sindacali.
L’aspetto interessante è che questi eccessi hanno salvato Allende per un certo periodo. C’era un rapporto dialettico, che Daniel Bensaïd ha definito “respirazione a scatti”. Non c’era separazione tra il movimento sociale e il potere politico. Fino alla fine, Allende è rimasto il presidente di gran parte del movimento operaio, anche quando era sotto tiro.
In particolare quando scelse di far entrare i militari nel governo o di dichiarare lo stato d’assedio dando il controllo delle strade pubbliche ai generali, o quando scelse di restituire le aziende occupate. Dal 1973 in poi, il PC e i militari presero chiaramente il controllo e vollero restituire le aziende nella speranza di poter negoziare con la Democrazia Cristiana.

Tuttavia, queste forme di auto-organizzazione erano viste con sospetto da un governo che si rifiutava di fare affidamento su di esse. Nel contesto di una rivoluzione che doveva essere legale, queste organizzazioni rappresentavano anche un pericolo per Allende e il PC. Non si tratta di una vera e propria contraddizione nel cammino del Cile verso il socialismo?

Sì, c’è stata una dinamica di polarizzazione alimentata dai militanti di Unità Popolare, soprattutto nel PS, e da alcune forze extraparlamentari come il MIR, ma che non si sono spinte fino alla rottura con il governo. D’altra parte, Allende condannò ripetutamente le occupazioni delle fabbriche e le azioni dei cordoni industriali. Il PC voleva integrare questi cordoni industriali nella CUT, confinandoli così a un ruolo sindacale, mentre essi svolgevano un ruolo ben diverso. Il PC ha condannato questi movimenti, accusandoli di fare il gioco della destra e dell’imperialismo e di non rispettare gli impegni di Unità Popolare.
Il governo divenne una sorta di arbitro tra questi due poli e Allende scelse il campo del PC e del negoziato. Ricordiamo la scena in cui un ministro del Lavoro comunista schiaffeggiò un sindacalista membro di un cordone industriale, chiamandolo provocatore ed estremista.

Avevamo due logiche che si sostenevano a vicenda pur opponendosi, ma nessuna delle due aveva i mezzi per andare fino in fondo. Il governo era bloccato nella sua logica legalista e il potere popolare non poteva pretendere di sostituirlo. Questo rendeva vulnerabile l’intera esperienza?

Nella mia tesi di laurea ho parlato di una dualità del potere che non ha avuto successo. Possiamo vedere chiaramente che i due poli prendono strade diverse, tra organizzazione dal basso e logica istituzionale. Anche se non è così netto, perché il governo istituirà dei comitati per il controllo dell’offerta e dei prezzi per gli abitanti. Ma è vero che questi comitati sono rimasti sotto il controllo delle autorità…
In questo complesso processo si è verificata una “doppia incapacità”. C’è stata una sconfitta strategica della via legale ma, d’altra parte, l’opzione del potere popolare e della rottura con il passato non è stata in grado di offrire un’alternativa concreta.
Il MIR, l’ala più radicale, è nato nel 1965 ed era ancora una piccola organizzazione, incapace di organizzare un’alternativa. Inoltre, aveva frainteso la questione dei cordoni industriali, in quanto la sua cultura guévarista, molto verticale e basata su una logica politico-militare, non si adattava alla situazione in cui stavano emergendo nuclei di autorganizzazione. Anche il MIR non era al passo con la situazione rivoluzionaria concreta.

Quindi era come se non ci fossero istituzioni rivoluzionarie in grado di cogliere questo movimento?

Dobbiamo sempre stare attenti ad affermare ciò che si sarebbe dovuto fare. Ma di fatto le istituzioni del movimento rivoluzionario in senso lato non erano in grado di proporre un’alternativa. E questo anche se tutti sapevano che il colpo di Stato sarebbe avvenuto. C’era una sorta di paralisi nell’affrontare la situazione.
Per questo ho usato la distinzione utilizzata da Charles Tilly nella sua Histoire des révolutions en Europe [Les Révolutions européennes, 1492-1992 – n.d.t.], tra “situazione rivoluzionaria” e “risultato rivoluzionario”. A mio avviso, in Cile nel 1970-73, abbiamo avuto una situazione rivoluzionaria che si è spinta fino a mettere in discussione la proprietà privata, nonostante Allende. Il numero di imprese “controllate” o nazionalizzate superava le trecento, molto più di quanto il governo volesse fare sotto la pressione del movimento operaio. Ma non ci furono risultati rivoluzionari.

In mezzo a tutto questo, il presidente Allende sembra una figura ambivalente…

Allende è un personaggio complesso e interessante. Era un parlamentare socialista, un legalista che si dichiarava anche marxista, un antimperialista e un ammiratore di Cuba. Era una figura ibrida. Ma rimane convinto della sua capacità di negoziare in modo permanente radicalizzando la democrazia cilena.
A livello internazionale, si è presentato come un leader del terzo mondo, un anticolonialista che ha sostenuto il Vietnam, con posizioni assai radicale. Ma nelle questioni di politica interna è un riformista che rivendica una prospettiva rivoluzionaria.

Non ha forse sopravvalutato il mito dell'”eccezione cilena”, secondo cui l’esercito non è politicizzato e la tradizione democratica è molto solida?

Sì, ma questo mito era molto forte in tutta la sinistra. Si basava sull’idea che il Paese avesse istituzioni più stabili che altrove, con solo due Costituzioni dall’indipendenza e nessun colpo di Stato formale, che avevano permesso di raggiungere compromessi sociali. In realtà, i militari sono intervenuti regolarmente nella storia del Cile attraverso una dura repressione. Ma la sinistra si è rifiutata di prendere atto di questo. Era dominata dall’idea del costituzionalismo delle forze armate.
Già nel 1974-75, il PC clandestino iniziò una sorta di autocritica sulla sua mancanza di pensiero strategico sulle forze armate.
È in quel contesto che Allende pensò di poter evitare la guerra civile, che era effettivamente minacciosa, nominando Pinochet, ritenuto un legalista, a capo delle forze armate e tenendo sotto traccia l’idea di uno scioglimento che portasse alla convocazione di un’assemblea costituente. Questo era in effetti ciò che intendeva annunciare l’11 settembre. E questo ha fatto sì che il colpo di Stato, inizialmente previsto per la Giornata nazionale, venisse anticipato a quel giorno.

*Intervista apparsa sul sito francese www.mediapart.fr l’11 Settembre 2023. La traduzione è stata curata dal segretariato MPS.

articoli correlati

contro razzismo Trump

Neri, latinos e immigrati pagano il prezzo del razzismo di Trump

dazi-trump cartello

Il prezzo dell’amicizia. Il Presidente Trump e i dazi

A Syrian government soldier gestures a v-sign under the Syrian national flag near a general view of eastern Aleppo after they took control of al-Sakhour neigbourhood in Aleppo, Syria in this handout picture provided by SANA on November 28, 2016. SANA/Handout via REUTERS ATTENTION EDITORS - THIS IMAGE WAS PROVIDED BY A THIRD PARTY. EDITORIAL USE ONLY. REUTERS IS UNABLE TO INDEPENDENTLY VERIFY THIS IMAGE.

Siria. La fragile ripartenza post-Assad