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Un coro unanime dal mondo della politica per la morte di Giorgio Napolitano, un cordoglio potremmo dire di “unità nazionale” e di “larghe intese”, sia nazionale che internazionale: «scompare uno statista italiano ed europeo di grande autorevolezza… ho avuto l’onore di collaborare in una fase difficile per il nostro Paese trovando in lui un’alta guida» (Mario Monti); «Napolitano è stato un custode dei valori nazionali» (Matteo Renzi); «un uomo di sinistra al servizio delle istituzioni della Repubblica» (Paolo Gentiloni); «ha saputo coniugare il dialogo con tutte le culture politiche con la capacità di agire con saggezza e coraggio» (Mario Draghi); «il Paese perde un testimone prezioso della nostra storia» (Romano Prodi); «un importante protagonista della storia politica italiana» (Antonio Tajani); «un protagonista della vita politica del Paese» (Matteo Salvini); «ho sempre riconosciuto la sua puntigliosa attenzione nei confronti delle nostre Forze armate, del loro onore, delle loro qualità, della loro necessità» (Ignazio La Russa); «è stato un’ancora di stabilità per l’Italia nei momenti difficili» (Ursula von der Leyen); «ho apprezzato l’umanità e la lungimiranza nell’assumere con rettitudine scelte importanti con il costante intento di promuovere l’unità e la concordia» (papa Francesco); «suo insegnamento un faro per tutti i riformisti» (Josep Borrell). Un poco più fredde le dichiarazioni della Meloni e di altri esponenti della estrema destra per ovvie considerazioni tattiche di partito.

Una vera e propria santificazione, addirittura maggiore di quella ricevuta durante il suo operato politico ed istituzionale, quando TV e giornali borghesi lo esaltavano come costruttore dell’unità nazionale e supremo garante degli interessi nazionali.

Ma è proprio così? Napolitano è stato veramente “al di sopra delle parti” e “garante della Costituzione”? La risposta che va data è assai diversa: Napolitano è stato per decenni un uomo fortemente di parte, più precisamente dalla parte dei padroni. È stato il garante supremo, in quanto Presidente, degli “interessi nazionali” intesi come gli interessi politici ed economici della borghesia italiana e della Troika europea, cioè delle loro scelte liberiste antisociali ed antipopolari con il costante attacco contro i diritti e le conquiste della classe lavoratrice. Napolitano è stato quindi un importante esponente politico e garante istituzionale del sistema capitalista italiano. Per questo viene oggi esaltato dai politici borghesi e dai media.  

Attraverso la sua costante sollecitazione e il suo intervento diretto da Presidente della repubblica, le politiche capitaliste dell’austerità sono state portate avanti dai governi che si sono succeduti (Berlusconi, Monti, Letta e Renzi) e contemporaneamente sono stati inferti duri colpi all’assetto democratico e sociale del paese, con la totale prevalenza dell’esecutivo rispetto al potere legislativo e con il diritto del lavoro ulteriormente indebolito dal Jobs Act.

Napolitano, a cui paradossalmente in più occasioni si è appellato il cosiddetto “popolo della sinistra” (speranzoso di essere salvato dalle leggi di Berlusconi) ha sempre spinto per un accordo tra il “popolo della libertà” e il centro-sinistra liberato dai troppi “estremisti”, che secondo lui impedivano l’intesa. Si è sempre mosso per il “superamento degli steccati”, per “fare squadra insieme”, per eliminare le barriere tra destra e sinistra. Fu tra i protagonisti di una gigantesca opera di mistificazione sulle foibe, operando una tendenziale equiparazione tra le vittime del nazifascismo e le vendette partigiane del 1943 e del 1945. Tutto ciò per un intento politico di “conciliazione nazionale” necessario per eliminare ogni ostacolo per un accordo tra centrosinistra e centrodestra.

Da dirigente del Pci ai governi di centro-sinistra

Napolitano è entrato per la prima volta in Parlamento nel 1953 e nei successivi 70 anni ha ricoperto la carica di dirigente di partito, deputato, senatore, presidente della Camera, parlamentare europeo, ministro dell’Interno, presidente della repubblica per due volte e infine senatore a vita.

Mosse i primi passi della sua traversata politica nella Federazione di Napoli del Pci, diretta negli anni Cinquanta del secolo scorso da Salvatore Cacciapuoti e Giorgio Amendola, esponenti di spicco della corrente di destra del Pci che si caratterizzava per una fortissima propensione all’accordo e all’unità politica e sociale, anche con le forze politiche estranee al movimento operaio. Una visione, potremmo dire, interclassista che mirava non più alla trasformazione della società, bensì all’inserimento del Pci nella gestione del potere, considerando la lotta di classe un residuo del passato da eliminare. Altra caratteristica peculiare di questa destra comunista era una concezione autoritaria del partito e dello Stato, tanto da sostenere e giustificare con il resto del partito l’intervento militare sovietico in Ungheria nel 1956.

Dopo la morte di Palmiro Togliatti e l’elezione di Luigi Longo a segretario del Pci, quando Pietro Ingrao nel 1966 si scontrò da sinistra con il gruppo dirigente del partito, Napolitano divenne coordinatore della segreteria e membro dell’Ufficio politico.

Dal 1976 al 1979 fu responsabile della politica economica del Pci. Nel 1978, non per caso, fu il primo comunista (si definiva ancora tale) ad essere invitato in alcune università negli Stati Uniti, quando ancora esisteva la norma che negava il visto ai comunisti: «La novità e il significato dell’avvenimento – scrisse lui stesso su Rinascita – stavano nel fatto stesso del rilascio del visto, per la prima volta a un membro della Direzione del Pci, invitato in quanto tale negli Stati Uniti per illustrare la politica del Pci».

Alla morte di Giorgio Amendola nel 1980, assunse il ruolo di capo della corrente di destra del Pci, di cui facevano parte, tra gli altri, Chiaromonte, Fassino e Macaluso. Questa corrente puntava alla definitiva socialdemocratizzazione del partito, all’ingresso del Pci nell’Internazionale socialista, a stabilire buoni rapporti con il Psi di Craxi, alla “responsabilità” nei confronti dell’interesse nazionale, che significava sostanzialmente moderazione salariale e ridimensionamento dei diritti acquisiti dai lavoratori, considerati come un’insopportabile espressione del “massimalismo operaistico”. È in questi anni che nasce e si diffonde, in riferimento alla destra comunista, il termine “migliorista”, che qualificava chi accettava il capitalismo così come era, senza metterlo in discussione, proponendosi non più di superarlo ma, al massimo, di migliorarlo. Nelle stanze del Pci si diceva maliziosamente che l’ala migliorista, al presunto “tutto e subito” di ipotetici massimalisti, rispondeva di fatto con un “niente e mai”, per sottolinearne i continui cedimenti politici, sia teorici che strategici, nei confronti del Psi di Craxi e della Dc. Infatti, l’obiettivo dei “miglioristi” era chiaro: arrivare al governo, “a qualunque costo”. Mostrandosi “responsabili” e senza spaventare la borghesia, poiché si dava per scontato che questa dovesse continuare a regnare in eterno.

È con queste coordinate politiche che vanno letti alcuni dei passaggi storici più significativi degli anni Ottanta, causa di pesanti sconfitte per il movimento operaio, come la lotta alla Fiat nel 1980 e il “Decreto di San Valentino” del 1984. Nel primo caso, già dalla fine del 1979, la corrente migliorista rimproverava i dirigenti della Cgil perché non si opponevano a quello che definiva “l’estremismo” dei Consigli di Fabbrica. Con un articolo apparso su Rinascita n. 43 del 9 novembre 1979, venne sferrato un attacco ai sindacati per la loro “tolleranza” nei confronti delle lotte “incontrollate” o “corporative” e per la loro “complicità” con l’estremismo diffuso nei principali Consigli di Fabbrica. Una linea politica e sindacale, questa dei miglioristi, di totale capitolazione e definitiva rinuncia alla difesa degli interessi generali della classe lavoratrice, a scapito di più “importanti interessi nazionali”. Nel secondo caso, quando la Cgil e il Pci di Berlinguer decisero di contrastare il “Decreto di San Valentino” del Governo Craxi con cui si sferrava il primo attacco alla scala mobile, Napolitano, Macaluso e il socialista Formica si adoperarono intensamente per trovare un compromesso e ricucire lo strappo politico tra Pci e Psi. Come lo definì lo stesso Napolitano successivamente, fu un «banco di prova del non settarismo, del non dogmatismo», per «non perdere il filo del rapporto unitario con il partito socialista», in un’ottica di interessi comuni nazionali.

Alla morte di Enrico Berlinguer, nel giugno 1984, Macaluso auspicò che Napolitano divenisse segretario del partito poiché è «l’unico che aveva acquisito la cultura e le stimmate di un dirigente assimilabile ai socialisti europei». Ciò tuttavia non avvenne.

Dal 1986 al 1989 Napolitano diresse la commissione del Pci per la politica estera e le relazioni internazionali e nel luglio del 1989 divenne “ministro degli esteri” nel governo-ombra del Pci.

Quando divenne Presidente della Camera, negli anni di Tangentopoli, bloccò l’indagine della Finanza che il 2 febbraio 1993 si era presentata a palazzo Montecitorio con un ordine di esibizione di atti (gli originali dei bilanci dei partiti politici), che il magistrato Gherardo Colombo riteneva utili per verificare se talune contribuzioni a politici inquisiti fossero state dichiarate a bilancio, secondo le prescrizioni della legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Napolitano fece opporre dal Segretario della Camera all’ufficiale della Finanza “l’immunità di sede”, l’antichissima guarentigia delle Camere che proibisce alla forza pubblica di accedere se non su autorizzazione del loro Presidente. E naturalmente, essendo lui stesso il Presidente della Camera, non la concesse. Nei giorni successivi tutti i partiti politici e tutti i principali organi di stampa sostennero la sua scelta.

Nel 1996, Romano Prodi lo scelse come Ministro dell’Interno del suo governo di centro-sinistra. Come primo ex-comunista ad occupare la carica di Ministro dell’Interno, propose quella che divenne nel luglio 1998 la Legge Turco-Napolitano, le prime misure di controllo poliziesco dell’immigrazione che istituivano i centri di permanenza temporanea (CPT) per gli immigrati “clandestini”. Mentre ricopriva tale incarico, fu criticato per non aver attuato la necessaria sorveglianza su Licio Gelli, fuggito all’estero il 28 aprile 1998, il giorno stesso della divulgazione della sentenza definitiva di condanna per depistaggio e strage da parte della Cassazione. Durante la sua permanenza al Ministero dell’Interno, Napolitano fu sostanzialmente un ministro forte con i deboli e debole con i forti.

La presidenza di “re Giorgio” durante la crisi di direzione politica della borghesia

Napolitano, senza alcun dubbio, è stato il Presidente della repubblica che più è andato al di fuori delle sue prerogative costituzionali, nei fatti accelerando il percorso verso soluzioni istituzionali presidenzialiste. Il suo “novennato” è coinciso in grandissima parte con la crisi economica, sociale e politica senza precedenti del sistema neoliberista in Italia e andrebbe ricordato per il suo persistente agire come garante e tutela delle scelte della Troika e delle classi dominanti borghesi a scapito delle classi popolari e lavoratrici.

Durante questa crisi, la borghesia ha avuto non poche difficoltà a trovare un assetto istituzionale e politico stabile e a darsi dei governi con maggiore continuità capaci di godere di un largo consenso popolare. Napolitano è quindi intervenuto più volte in aiuto della borghesia: ha garantito nell’autunno del 2010 la continuità del governo Berlusconi, minacciato dalla scissione di Fini; con il defenestramento di Berlusconi nel 2011 ha aperto le porte al governo “salvifico” Monti-Fornero; dopo la sua rielezione alla carica di presidente della repubblica, ha patrocinato la costruzione dei governi di larghe intese. 

Nel 2011, Napolitano ha abbandonato Berlusconi per sostituirlo con Monti solo quando gli è stato richiesto con forza da Bruxelles e dalla borghesia italiana che non consideravano più l’uomo di Arcore adeguato a portare avanti una politica di austerità ancora più dura. In tutti questi passaggi politico-istituzionali, Napolitano non si limitava a suggerire o consigliare, ma li determinava e li guidava. È stato quasi il capo della maggioranza parlamentare piuttosto che il garante di tutte le forze politiche presenti nelle Camere, riservandosi di decidere di fare o non fare governi: salvando quello di Berlusconi nel 2010, come pocanzi ricordato; rifiutando nel 2013 di conferire un incarico di formare il governo al segretario del Pd, Pierluigi Bersani, vincitore delle elezioni politiche ma con la maggioranza in uno solo dei due rami del Parlamento, favorendo così la costituzione di un governo delle larghe intese presieduto prima da Enrico Letta e poi, dopo la conquista del Pd, da Matteo Renzi. Con queste operazioni di alchimia politica, dopo il governo Ciampi del 1992, l’anno in cui Napolitano era stato presidente della Camera, tornavano in Italia le larghe intese e la grande coalizione, necessarie per “il bene superiore della Patria”.

Napolitano metteva ben in chiaro quale fosse il fondamento ultimo della politica del paese: gli interessi e la volontà dell’Unione europea, o meglio del capitale europeo e delle sue istituzioni, Banca Centrale Europea e Commissione Europea. Per questo motivo Napolitano è stato uno dei principali responsabili delle politiche di austerità che hanno imposto, e ancora impongono, “sacrifici” economici per la classe lavoratrice, drastica riduzione dei salari, processi di privatizzazione e in generale politiche antipopolari e antioperaie.

Napolitano intervenne addirittura nel dibattito politico e nella trattativa sindacale sull’articolo 18 durante il governo Renzi per sostenerne la riforma reazionaria, affermando che “di fronte alla crisi non si possono sostenere oltremisura gli interessi particolari”, riproponendosi per l’ennesima volta come supremo garante degli interessi della borghesia italiana. Dall’alto del Colle si univa così alla grande alleanza reazionaria che vedeva uniti tutti i partiti della destra e del centro sinistra, le varie forze padronali e di Confindustria e tutti i mass media per una resa dei conti definitiva con il movimento dei lavoratori, per far valere una sola legge: quella del comando dei padroni nelle aziende e nei luoghi di lavoro e quindi anche nella società, imponendo a tutti (a “vecchi lavoratori garantiti”, a giovani e meno giovani disoccupati e precari) l’eguaglianza verso il basso, attraverso i bassi salari e la libertà di sfruttamento.

Infine, sul piano della politica internazionale, Napolitano va ricordato per essere stato un presidente di guerra, sostenendo prima l’intervento militare in Afghanistan (presentato come una “missione di pace” con l’assenso della “comunità internazionale”) e poi in Libia nel 2011, quando intervenne su un Berlusconi “renitente alla leva” per appoggiare il bombardamento di Tripoli e la cacciata di Gheddafi. 

Per sottolineare la sua fedeltà atlantica, Napolitano intervenne anche concedendo la grazia al colonnello statunitense Joseph Romano, sequestratore dell’imam di Milano Abu Omar.

In conclusione, Napolitano va ricordato per i suoi atti politici concreti, per i suoi continui tentativi di appiattire le istanze della sinistra e fagocitarle nel sistema borghese e per il suo zelo filostatunitense. Va ricordato inoltre perché è stato il maggior protagonista e regista del distacco del Pci dalla sua tradizione, ancorché moderata, e il propagandista più solerte del capitalismo all’interno del movimento operaio.

Una sinistra radicale e combattiva potrà e dovrà rinascere anche ricominciando a rigettare e ad opporsi, non solo ai padroni e alla loro corte politica, ma anche a tutti i complici e fiancheggiatori delle politiche antioperaie (come Napolitano è stato in tutto il suo agire politico) e a chi non ha il coraggio di rompere con essi e anzi li legittima considerandoli validi interlocutori.

*articolo apparso su Sinistra Anticapitalista il 25 settembre 2023