L’offensiva dell’esercito israeliano, prima con aerei e missili, ora anche con i carri armati e le forze di terra, prende di mira deliberatamente e consapevolmente la popolazione civile di Gaza.
Si parla molto e fondatamente delle profonde divisioni interne al governo “di unità nazionale” (sarebbe meglio dire “di unità sionista”) presieduto da Netanyahu, ma la sua pura logica razzista e di vendetta sembra condivisa da tutte le componenti del gabinetto, nonostante la palese contraddizione con tutte le norme del diritto internazionale.
Le sanguinarie azioni di Hamas del 7 ottobre non legittimano tutto questo, anzi erano “lucidamente” finalizzate a provocare una reazione di questo tipo.
I governi occidentali (che quando conviene loro si aggrappano alla loro “identità cristiana”) ignorano ipocritamente il fatto che la religione cristiana è stata creata circa 2000 anni fa proprio per superare la logica del “Vecchio testamento” che prevedeva la “legge del taglione”.
L’Iran, che si era attivamente distinto nel partecipare allo schiacciamento della sollevazione democratica del popolo siriano (in collaborazione con Washington e con il regime russo), si è deliberatamente messo di fronte al bivio tra una partecipazione aperta al nuovo conflitto (cosa che significherebbe entrare direttamente in guerra contro Israele e gli Stati Uniti) o “attendere” che il massacro dei palestinesi continui, incassando la totale messa in crisi del disegno di “pacificazione” tra arabi e Occidente che gli “accordi di Abramo” avevano delineato.
La prospettiva sarebbe quella della costruzione di una contrapposizione totale tra il “Sud del mondo” (sostenuto senza imbarazzo dalla Cina e da Putin) e il “campo occidentale”, una contrapposizione costruita sul sangue dei palestinesi.
Questo scenario sta già creando modificazioni negli schieramenti. Ne è la riprova il comportamento dell’autocrate turco Erdogan, che, pur membro importante della NATO, oggi sembra voler accantonare le stroiche rivalità con Teheran e aderire esplicitamente al campo islamista e antisemita. Nel centro di Istambul, la “vetrina europea” della Turchia, sono apparsi cartelli “Vietato agli ebrei”.
Anche Mosca cerca di sfruttare la nuova situazione, impelagata com’è in sanguinoso conflitto in Ucraina che si avvia a compiere i due anni (o i nove, se vogliamo datarlo dall’inizio della “guerra a bassa intensità” iniziata con l’annessione della Crimea e con la “ribellione” del Donbass) e in cui sono sempre più nebulosi gli obiettivi del Cremlino.
Subito dopo le azioni di Hamas, la Russia ha lanciato l’offensiva attorno alla città ucraina di Avdiivka, un’offensiva estremamente sanguinosa per entrambi gli eserciti, ma finalizzata a cancellare ogni percezione della “controffensiva ucraina”, iniziata teoricamente il 6 giugno, dopo il sabotaggio della diga di Nova Kakhovka.
Mosca, dopo il 7 ottobre, ha ricevuto ufficialmente esponenti di Hamas, dimenticando il fatto che Netanyahu era stato definito da Putin “il mio amico”, come Berlusconi.
Anche in Europa e nella stessa Unione si riassestano le posizioni, con l’Ungheria di Orban, sempre più filoputiniana e la Slovacchia del mafioso “socialdemocratico” Fico, che denuncia la corruzione dell’Ucraina.
Al contrario, forse perché ossessionato dal suo integralismo induista e antislamico, Modi e la “sua” India si collocano nel “campo anti-Hamas”, con il risultato di rassicurare gli americani sul fatto che non c’è, almeno per il momento, nessuna reale ipotesi di una “triplice alleanza” tra Nuova Delhi, Pechino e Mosca.
Biden, forse ignorando di utilizzare uno schema simmetricamente usato anche da certa “sinistra”, mette sullo stesso piano Ucraina e Israele da un lato, e Hamas, Iran e Russia dall’altro.
E il presidente Zelensky, impaurito dalla prospettiva che gli aiuti militari vengano dirottati da Kiev a Tel Aviv, si allinea prontamente alla lettura occidentale del conflitto in Palestina, dimenticando che, fino a poco tempo fa, l’Ucraina (denuclearizzata dal 1994), memore della collaborazione tra Netanyahu e Putin, chiedeva anche a Israele di rinunciare all’armamento atomico e di evacuare la Cisgiordania. Non a caso Netanyahu, che ha ospitato tutti i principali leader occidentali accorsi a portargli la loro solidarietà, ha rifiutato di ricevere Zelensky, proprio per non infastidire il capo del Cremlino.
Biden, d’altra parte, nonostante la raccomandazione ad Israele di “non commettere gli stessi errori commessi dagli USA dopo l’11 settembre 2001”, non può sconfessare né tantomeno abbandonare l’unico alleato sicuro che gli resta nell’area. E, dunque, non fa nulla per evitare il massacro in atto nella “tonnara” della Striscia, e fa vacui riferimenti alla necessità di un “aiuto umanitario”.
E’ evidente la sua preoccupazione che la dinamica in atto diventi, ancor più che nel caso ucraino, una corsa verso la guerra mondiale, ma è ancora più evidente la trappola in cui il mondo si sta infilando.
Peraltro, gli Stati Uniti sono da tempo in un equilibrio precario, alle porte di una vera e propria crisi di regime irrisolta e in via di aggravamento, dopo i fatti di Capitol Hill, le impasse parlamentari, le difficoltà dei due partiti dell’alternanza repubblicana e democratica, entrambi attraversati dalla debolezza delle leadership.
Pechino, da parte sua, pur nella maggiore insondabilità della sua vita politica, ha emesso due segnali di distensione verso Washington: l’ipotesi di un vertice Xi Jinping-Joe Biden e la formale defenestrazione del ministro della Difesa Li Shangfu, peraltro sparito dalla scena già da mesi.
La sopravvivenza dell’umanità, già minacciata a medio termine dalla crisi ambientale e dall’inazione dei governi di fronte ad essa, è oggi ancor più drammaticamente e più immediatamente in pericolo, di fronte alla prospettiva di un dilagamento incontrollato della guerra.
Il mondo sembra marciare sempre più a capofitto verso un cupio dissolvi.
La vera salvezza non può che venire da una ripresa massiccia di un movimento internazionalista attivo, non campista, non “geopolitico”, che si mobiliti per l’immediato cessate il fuoco a Gaza e per i diritti del popolo palestinese, per la vittoria ucraina contro l’aggressione russa, perché si affronti seriamente la crisi climatica che ci minaccia, contro l’incubo della “crescita” capitalistica, che in fondo, oltre che del disastro ambientale, è causa ultima anche della corsa verso la guerra mondiale.
Ma sembra che siano pochissimi a preoccuparsi e ad occuparsi della costruzione di un movimento di questo tipo.
*articolo apparso su https://refrattario.blogspot.com/ il 29 ottobre 2023