L’assedio e il massacro in corso contro i palestinesi di Gaza, portati avanti dallo stato israeliano con l’aperto sostegno degli Stati Uniti e il silenzio complice delle altre potenze imperialiste occidentali, si combinano con la guerra di Putin contro l’Ucraina per dimostrare l’instabilità e la brutale violenza che caratterizzano il nuovo scenario geopolitico globale. Il moltiplicarsi delle guerre e l’aggravarsi delle tensioni tra gli stati e all’interno degli stessi sono solo uno dei segni del nuovo periodo storico di convergenza delle crisi, iniziato con la crisi del 2008.
Il testo che segue non è un lavoro personale, ma il risultato delle discussioni che abbiamo avuto negli ultimi mesi tra i membri del Comitato Internazionale della Quarta Internazionale. Stiamo assistendo a un’internazionalizzazione senza precedenti delle grandi questioni che l’umanità deve affrontare. La crisi del capitalismo ha assunto nuove dimensioni dopo il crollo del 2008 e la recessione che ne è seguita, ma soprattutto con la pandemia di Covid. La crisi del capitalismo è diventata chiaramente multidimensionale. (Red)
C’è una convergenza, un’articolazione, tra la crisi ambientale – che da alcuni anni produce fenomeni climatici sempre più estremi, tra cui le recenti ondate di calore eccessivo – e la fase di stagnazione economica duratura, con l’intensificarsi della lotta per l’egemonia nel sistema interstatale tra Stati Uniti e Cina, con l’avanzata dell’autoritarismo e del neofascismo, con la resistenza dei popoli e dei lavoratori e il moltiplicarsi delle guerre nel mondo (Palestina, Ucraina, Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Myanmar).
Questi sviluppi dimostrano che siamo entrati in un nuovo momento della storia del capitalismo. Si tratta di un periodo qualitativamente diverso da quello che abbiamo vissuto dall’introduzione della globalizzazione neoliberista alla fine degli anni ’80, e molto più conflittuale dal punto di vista della lotta di classe rispetto a quello iniziato con il crollo dell’Unione Sovietica e dei regimi burocratici dell’Europa orientale. Come dicevamo nel marzo 2021, “la pandemia aggrava la crisi multidimensionale del sistema capitalistico e inaugura un momento di intreccio di vecchi fenomeni che si erano sviluppati in modo relativamente autonomo e che, con la pandemia, convergono in modo esplosivo […]: […] si tratta di processi che si manifestano e interagiscono tra loro, modificando l’ordine mondiale ereditato dagli anni ’90 con la fine del blocco dell’Europa orientale, l’implosione dell’URSS e la restaurazione del capitalismo sia in quella parte del mondo che in Cina”.
Lo sfondo e il punto di incontro di tutte le sfaccettature di questa crisi multidimensionale è la crisi ecologica, causata da due secoli di accumulazione capitalistica predatoria. L’escalation della crisi climatica e ambientale sta colpendo duramente l’umanità e la vita sul pianeta: il clima sta andando fuori controllo, la biodiversità sta scomparendo e stiamo affrontando inquinamento, contaminazione e pandemie. L’economia globalizzata, basata sull’uso di combustibili fossili e sul crescente consumo di carne e di alimenti ultra-lavorati, sta rapidamente producendo un clima che ridurrà i limiti entro i quali l’umanità può vivere sul pianeta.
Lo scioglimento dei poli e dei ghiacciai sta accelerando l’innalzamento del livello dei mari e la crisi idrica. L’agroindustria, l’industria mineraria e quella per l’estrazione di idrocarburi stanno avanzando (non senza resistenze) sulle foreste tropicali, essenziali per il mantenimento dei sistemi climatici e della biodiversità del pianeta. Gli effetti della crisi climatica continueranno a manifestarsi violentemente, distruggendo infrastrutture, sistemi agricoli e mezzi di sussistenza e causando massicci spostamenti di popolazione. Tutto questo non avverrà senza un’esacerbazione dei conflitti sociali.
Esistono precedenti di questa situazione? Questo è un dibattito collaterale ma molto vivace tra gli storici. Certamente, la cosa più simile a ciò che stiamo vivendo oggi è la convergenza di crisi che ha avuto luogo all’inizio del XX secolo – quella che ha portato a quella che Hobsbawm ha chiamato “l’età delle catastrofi” (1914-1946) e a due sanguinose guerre mondiali. Ci sono almeno due differenze sostanziali rispetto a quella situazione: in primo luogo, ora ci troviamo di fronte a una crisi ecologica. Il sistema ha creato le condizioni per una trasformazione completa e regressiva della vita umana e di tutte le forme di vita. La seconda, non meno cruciale, è che i cambiamenti sempre più rapidi si combinano con il mantenimento di un elemento del periodo precedente: l’assenza di un’alternativa al capitalismo che sia credibile agli occhi delle masse, l’assenza di una forza o di un gruppo di forze anticapitaliste che guidino le rivoluzioni economiche e sociali.
Non è che non ci siano lotte e resistenze. Al contrario. Questo secolo ha visto almeno due grandi ondate di lotte democratiche e anti-neoliberali, in particolare il rinnovato movimento delle donne e il movimento anti-razzista nato negli Stati Uniti. Tuttavia, da un punto di vista oggettivo, queste grandi lotte si sono confrontate non solo con il capitalismo neoliberale e i suoi governi, ma anche con i dilemmi della riorganizzazione strutturale del mondo del lavoro: la classe operaia industriale ha perso il suo peso sociale in gran parte dell’Occidente; gli oppressi, i giovani e i nuovi settori di lavoratori precari non sono ancora organizzati su base permanente e in genere hanno difficoltà a unirsi al movimento sindacale.
Questa situazione è accompagnata da un declino della coscienza degli oppressi e degli sfruttati, che risente delle riconfigurazioni geografiche, tecnologiche e strutturali e dell’iperindividualismo neoliberista. A ciò si aggiunge l’estrema frammentazione della sinistra socialista, che crea una situazione in cui le lotte sono più difficili e i risultati in termini di consapevolezza politica e organizzazione sono più rari.
La combinazione delle crisi le amplifica
Caratterizzare la crisi capitalista come multidimensionale significa che non si tratta di una semplice somma di crisi, ma di una combinazione dialetticamente articolata, in cui ogni ambito ha un impatto sull’altro ed è influenzato dagli altri. Per quanto riguarda il rapporto tra economico-sociale ed ecologico, i paesi imperialisti centrali dell’Occidente e dell’Oriente (almeno dal punto di vista di una parte non suicida delle borghesie centrali) si trovano di fronte alla difficilissima sfida di attuare una transizione energetica che riduca al minimo gli effetti del cambiamento climatico in un momento in cui la tendenza all’accelerazione della caduta del tasso di profitto si sta accentuando.
Il legame tra la guerra in Ucraina (che ha preceduto lo scoppio del conflitto in Palestina) e la stagnazione economica ha aggravato la critica situazione alimentare delle popolazioni più povere del mondo, con oltre 250 milioni di persone in più che soffriranno la fame in dieci anni (2014-2023). Il flusso di persone sfollate a causa della guerra, dei cambiamenti climatici, della crisi alimentare e della diffusione di regimi repressivi è in aumento, soprattutto nei paesi del Sud, anche se i media danno maggiore risalto agli spostamenti forzati Sud-Nord.
Le disastrose prospettive ambientali ed economiche, almeno dal 2016, hanno indubbiamente giocato un ruolo importante nello spingere una parte delle frazioni borghesi di vari paesi ad allontanarsi dal progetto di democrazie formali come miglior modo per attuare i precetti neoliberali. Settori crescenti della borghesia stanno adottando alternative autoritarie all’interno delle democrazie liberali, il che ha portato al rafforzamento dei movimenti fondamentalisti di destra e dei governi di estrema destra (Trump, Modi, Bolsonaro), nonché alla creazione di legami tra i sostenitori di queste forze su scala internazionale.
La crescita di una sociabilità neoliberale iperindividualistica che, combinata con l’uso dei social network da parte della destra e forse ora dell’IA, promuove ulteriormente la depoliticizzazione, la frammentazione di classe e il conservatorismo. Le tecnologie digitali stanno anche contribuendo ad approfondire la subordinazione-clientalizzazione dei piccoli e medi contadini, e persino la loro massiccia riduzione, nonostante siano i principali produttori di cibo al mondo. D’altra parte, il neoliberismo, continuando ad attaccare violentemente ciò che resta dello stato sociale, imponendo il supersfruttamento dei lavoratori dell’industria e dei servizi, e soprattutto delle badanti, getta le donne, soprattutto quelle che lavorano, nel dilemma se sopravvivere (male) o reagire.
Con i piani di austerità, il sistema sta attaccando brutalmente i servizi sociali che ha creato in passato: li sta tagliando completamente o, dove è possibile realizzare profitti, li sta cedendo al settore privato. In questo modo, il neoliberismo mantiene le donne nella forza lavoro formale (al Nord) o meno formale, più informale (al Sud), riducendo ulteriormente i salari e i redditi di quelle che “lavorano fuori” o forniscono servizi, mentre fa gravare sull’insieme delle donne lavoratrici il compito di occuparsi dei bambini, degli anziani, dei malati, dei diversamente abili – il lavoro che un tempo copriva lo stato sociale, quando esisteva.
Con le reti di riproduzione sociale in crisi, più nei paesi neocoloniali che nelle metropoli, la società neoliberale sta “addomesticando” (riaddomesticando) e razzializzando (affidando alle donne non bianche, nere, indigene o immigrate i compiti di cura), ma non si assume la responsabilità della riproduzione sociale nel suo complesso.
Da un punto di vista geoeconomico, i dispositivi e gli algoritmi digitali consentono all’odierno capitalismo neoliberale e al suo sistema interstatale di sfruttare nuove forze produttive (piattaforme digitali), nuovi tipi di relazioni sociali di produzione (uberizzazione) e la mercificazione di varie relazioni sociali. Allo stesso tempo, nel XXI secolo il centro di gravità dell’accumulazione globale di capitale si è spostato dall’Atlantico settentrionale (Europa e Stati Uniti) al Pacifico (Stati Uniti, in particolare Silicon Valley, e Asia orientale e sudorientale). Non è solo la Cina a essere decisiva, ma l’intera regione, dal Giappone e dalla Corea all’Australia e all’India.
Politica, il grande nemico
La nuova estrema destra, nelle sue varie vesti, si sta facendo strada in Europa – in Francia potrebbe entrare al governo – in America Latina, dove ha appena conquistato la Casa Rosada (Argentina), dopo il colpo di Stato di Dima Boluarte in Perù nel 2022, e negli Stati Uniti, dove Trump potrebbe tornare alla Casa Bianca. Ci sono minacce reali in Asia, con il figlio del dittatore Marcos nelle Filippine e lo xenofobo anti-musulmano Narendra Modi in India. In questa crisi politica di lungo periodo, il malcontento sta colpendo duramente non solo la destra “tradizionale” o più “cosmopolita” (nel senso di “progressista” neoliberale, come dice Nancy Fraser), come negli Stati Uniti, in Italia, in India (Partito del Congresso) e nelle Filippine, ma anche le socialdemocrazie e i “progressisti” che hanno cogestito gli stati neoliberali degli ultimi decenni – si vedano le vittorie di Duterte nelle Filippine nel 2016 contro una coalizione di destra e di Bolsonaro contro il PT in Brasile nel 2018, così come la recente sconfitta del peronismo e l’ascesa di Vox in Spagna.
Dal 2008, e in modo più marcato dalla Brexit e dalla vittoria di Trump nel 2016, i movimenti e i partiti di estrema destra si sono rafforzati e moltiplicati con le vittorie elettorali all’interno dei sistemi politici. Si presentano come anti-sistemici, anche se estremamente neoliberali, conservatori, nazionalisti, xenofobi, razzisti, misogini, antifemministi, contrari ai diritti LGBTQIA+, transfobici, e ispirati o massicciamente sostenuti dal fondamentalismo religioso, di tipo cristiano neopentecostale in America Latina e negli Stati Uniti, e indù in India. A differenza dei fascismi di cento anni fa, stanno diffondendo il negazionismo scientifico, la negazione della scienza nella comprensione del cambiamento climatico – perché hanno bisogno di negare la tragica realtà per presentare una speranza – e nell’orientamento della cura collettiva delle popolazioni di fronte a pandemie ed epidemie.
L’ascesa di questa costellazione di neo o post-fascismi è principalmente il risultato di almeno due decenni di crisi delle democrazie neoliberali e delle loro istituzioni. Questi regimi neoliberali sono stati responsabili – e sono visti come responsabili dalle loro popolazioni – della crescente disuguaglianza, dell’impoverimento, della corruzione, della violenza e della mancanza di prospettive per i giovani. Si sono dimostrati incapaci di rispondere in modo soddisfacente alle aspirazioni dei popoli e dei lavoratori. La radice profonda della nuova estrema destra è quindi la disperazione dei settori sociali impoveriti di fronte all’aggravarsi della crisi, la disintegrazione del tessuto sociale imposta dal neoliberismo – in cui prospera il fondamentalismo religioso – unita al fallimento delle “alternative” rappresentate dal liberalismo sociale e dal “progressismo”.
Di conseguenza, in tutto il mondo sono emerse e si sono sviluppate frazioni della borghesia che sostengono il neofascismo come soluzione politico-ideologica in grado di porre fine a quei regimi, di controllare i movimenti di massa con il pugno di ferro, di imporre aggiustamenti ed espropri brutali per recuperare i tassi di profitto. L’esempio più evidente di questa divisione è la polarizzazione negli Stati Uniti tra il trumpismo (che ha preso d’assalto il Partito Repubblicano) e il Partito Democratico.
Contemporaneamente e in tandem, assistiamo al rafforzamento di una tendenza: teocrazie assassine e veri e propri califfati in Medio Oriente, dittature in Asia centrale, il neofascismo oligarchico-imperiale di Putin in Russia, mentre il Partito Comunista Cinese sotto Xi Jing Ping estende la sua repressione.
Questa combinazione costituisce una minaccia storica alle libertà civili e alle conquiste democratiche in tutto il mondo, tra le quali i rivoluzionari, senza abbassare la critica ai limiti delle democrazie borghesi formali, attribuiscono particolare valore al diritto degli sfruttati e degli oppressi di lottare e di organizzarsi per lottare. In questo contesto sfavorevole per chi viene dal basso, la cosiddetta sinistra, nostalgica dello stalinismo, che difende Putin e il modello cinese o Maduro e Ortega come alternative al sistema imperiale, collabora all’indebolimento e all’usurpazione di queste libertà, creando un ulteriore ostacolo alla lotta per una democrazia reale e socialista.
La crisi economica e sociale
Stiamo ancora vivendo sotto l’impatto della grande crisi finanziaria del 2008, che ha inaugurato una nuova Grande Depressione (nel senso di Michael Roberts), come quella del 1873-90 e soprattutto quella del 1929-1933. Per la maggior parte degli analisti di sinistra, si tratta di una crisi della globalizzazione neoliberista. In primo luogo, perché questa modalità di funzionamento del capitalismo non è più in grado, come in passato, di garantire i tassi di crescita e di profitto di cui ha goduto alla fine degli anni ’80 e ’90. In secondo luogo, perché la polarizzazione geopolitica, aggravata dall’invasione dell’Ucraina, dall’ascesa dei nazionalismi e ora dal massacro di Gaza da parte di Israele, sta mettendo in crisi le catene di valore superinternazionalizzate (come la catena energetica Europa-Russia e la produzione globale di chip, bersaglio dell’accanimento statunitense per impedire la leadership cinese nelle telecomunicazioni e nell’intelligenza artificiale).
Con la pandemia di Covid, poi con l’invasione russa dell’Ucraina e le sue conseguenze, e con l’accresciuta rivalità tra Stati Uniti e Cina, le catene produttive globali, già scosse, vengono rimodellate. Tuttavia, nessuna di queste difficoltà impedisce ai governi imperialisti neoliberisti e ai loro subordinati di continuare i loro feroci aggiustamenti e gli attacchi ai salari e agli stati sociali, nonché la mercificazione dell’agricoltura.
Nonostante la crescita irrisoria registrata dopo il 2008, l’economia neoliberista sta combattendo la propria crisi con una fuga in avanti, attraverso la continua concentrazione del capitale, la finanziarizzazione, il debito pubblico e privato, la digitalizzazione – che sta dando sempre più potere alle grandi imprese transnazionali in generale e alle grandi imprese tecnologiche in particolare. La combinazione tra la stagnazione in Occidente, l’aumento dell’inflazione (esacerbata dalla guerra in Ucraina) e l’attuazione delle stesse politiche neoliberiste non fa che esacerbare le disuguaglianze sociali, regionali, razziali e di genere tra i paesi e al loro interno.
La ripresa degli scambi economici internazionali e la grande disponibilità di credito per sostenere la ripresa delle attività dopo la pandemia di Covid hanno creato un improvviso aumento della domanda, una speculazione sull’energia e sulle materie prime e un livello di inflazione mai visto da decenni, una situazione aggravata sotto ogni aspetto dall’impatto economico delle guerre sulle catene di produzione e distribuzione globalizzate.
Il forte aumento dell’inflazione è aggravato da una spirale di aumento dei margini di profitto e dei prezzi, non da una spirale di aumento dei salari e dei prezzi, contrariamente a quanto sostengono la BCE e la Fed in particolare. La Fed, la BCE e altre banche centrali hanno aumentato i tassi d’interesse, con il rischio di una recessione globale nel 2023 e con ripercussioni sui sistemi finanziari meno regolamentati, come quelli degli Stati Uniti e della Svizzera. La ricerca affannosa di protezione contro la crisi (o per mantenere i profitti) incoraggia la speculazione finanziaria ed è una minaccia costante per il sistema, con l’ondata di fallimenti del 2008 che ha colpito non solo le banche ma anche grandi aziende industriali come General Motors, Ford e General Electrics, e grandi società immobiliari. L’aumento dei tassi d’interesse, oltre a essere recessivo e a minare il tenore di vita delle masse lavoratrici, fa crescere il debito sovrano e privato, creando le condizioni per nuove crisi di default regionali e persino globali.
È in questo nuovo contesto che dobbiamo comprendere l’invasione russa dell’Ucraina, la guerra in corso da quasi due anni e l’offensiva israelo-americana contro Gaza. La guerra in Ucraina potrebbe continuare ancora a lungo, senza che una forza armata prevalga sull’altra, tanto più che gli Stati Uniti, nell’ottobre 2023, avevano molto più interesse a garantire il massacro palestinese con aiuti militari e finanziari a Israele che non la guerra difensiva del governo e del popolo ucraino per l’autodeterminazione. Gli Stati Uniti sono all’offensiva con Israele in Palestina, il loro blocco rimane attivo nel teatro delle operazioni in Europa orientale, mentre si preparano alla possibilità di conflitti in Asia (Taiwan, Mar Cinese) e Oceania. Con la Cina in difficoltà economica, Putin per il momento rafforzato e il regime statunitense in grave crisi – con la possibilità di un ritorno di Trump alla Casa Bianca – lo scenario per il sistema capitalistico interstatale è di crescente conflitto, tensione e incertezza per i lavoratori e i popoli.
Questo nuovo (dis)ordine imperialista non ha portato solo alle guerre in Ucraina e in Palestina. Assistiamo al moltiplicarsi di situazioni di guerra in tutto il mondo, come in Siria, nello Yemen, in Sudan e nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, per non parlare delle guerre civili palesi o mascherate, come la guerra civile in Myanmar, primo esempio di quelle che verranno, e della guerra permanente degli Stati latinoamericani contro le organizzazioni criminali e di queste ultime contro le masse, come in Messico e in Brasile. Questa situazione di conflitto sta avanzando nella geoeconomia e nella geopolitica dell’Africa, dove la Russia compete economicamente e militarmente con Francia e Stati Uniti, in particolare nelle ex colonie francofone dell’Africa occidentale. Da parte sua, la Cina continua a cercare di aumentare la propria influenza economica in tutte le parti del continente africano. Questo nuovo disordine minaccia di moltiplicare i conflitti inter-imperialisti e di riaccendere la corsa al nucleare, rendendo il mondo più instabile, più violento e più pericoloso.
L’emergere di rivali non toglie nulla alla natura degli Stati Uniti come paese più ricco e militarmente potente, la cui borghesia è più convinta della sua “missione storica” di dominare il pianeta a tutti i costi, e quindi di fare la guerra per perseguire la sua egemonia. Il fatto è che se gli Stati Uniti sono imbattibili quando si tratta di coercizione, hanno un problema serio: un’egemonia imperialista (come tutte le egemonie) può essere mantenuta solo se convince anche i suoi alleati e l’opinione pubblica interna. Lo Zio Sam è effettivamente colui che ha l’ultima parola nella “collettività” imperialista ancora egemone, ma ha problemi molto seri che non esistevano nel periodo precedente: la sua élite economica e politica è divisa come mai prima d’ora sul progetto di dominio interno (una società e un regime democratici borghesi in aperta crisi da quando il Tea Party e Trump hanno preso il controllo del Partito Repubblicano dall’interno) ed è costretta ad affrontare il guaio di disfare le catene del valore che hanno legato profondamente l’economia statunitense a quella cinese negli ultimi 40 anni.
Questa visione è diventata più evidente dopo l’ascesa di Trump negli Stati Uniti ed è stata consolidata dalla posizione della Cina nella guerra in Ucraina. Sebbene sia essenziale caratterizzare ciò che sta cambiando nel blocco delle potenze e delle ex potenze, questo riassetto ha profonde implicazioni per la periferia e la semiperiferia.
Il posto della guerra in Ucraina
L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin ha accelerato il rimodellamento del mondo geopolitico. Con l’escalation delle tensioni in Asia orientale per Taiwan e il Mar Cinese Meridionale, è aumentato il rischio di una guerra diretta tra le principali potenze imperiali. C’è il rischio di un’escalation nucleare, anche se questo non è lo scenario più probabile. Il “nuovo ordine” in costruzione, che già include la minaccia di maggiori conflitti inter-imperialisti e la ripresa della corsa al nucleare, sta rendendo il mondo più conflittuale e pericoloso.
L’atroce e ingiustificata invasione russa dell’Ucraina da parte di Putin il 24 febbraio 2022 e la guerra che ha provocato hanno già ucciso più di 250.000 persone (50.000 nell’esercito russo) e quasi 100.000 civili ucraini. La Russia continua a bombardare aree civili e ad attaccare ferrovie, strade, fabbriche e magazzini, distruggendo le infrastrutture dell’Ucraina. Milioni di ucraini sono stati costretti a fuggire dal paese, lasciando famiglie e comunità distrutte. Sono diventati rifugiati, il che, a seconda del paese ospitante, può significare non avere uno status permanente, non avere un alloggio, non avere un lavoro o un reddito, e gravare pesantemente sui paesi vicini, le cui popolazioni si sono mobilitate per fornire sostegno materiale.
Difendiamo il diritto del popolo ucraino di determinare il proprio futuro nel proprio interesse e nel rispetto dei diritti di tutte le minoranze; il diritto di determinare tale futuro indipendentemente dagli interessi dell’oligarchia o dell’attuale regime capitalistico neoliberale, dalle condizioni del FMI o dell’UE, con la totale cancellazione del debito; e il diritto di tutti i rifugiati e gli sfollati di tornare alle proprie case in sicurezza e nel rispetto dei propri diritti.
L’unica soluzione duratura a questa guerra è la fine dei bombardamenti sui civili e sulle infrastrutture energetiche e il ritiro completo delle truppe russe. Qualsiasi negoziato deve svolgersi pubblicamente davanti al popolo ucraino. Ci battiamo per lo smantellamento di tutti i blocchi militari – NATO, CSTO, AUKUS – e continuiamo a lottare per il disarmo globale, in particolare per quanto riguarda le armi nucleari e chimiche.
In Russia e in Bielorussia, chi si oppone alla guerra imperialista di Putin viene criminalizzato. In Russia, i disertori dell’esercito e coloro che osano protestare apertamente sono severamente repressi. Centinaia di migliaia di persone sono state costrette a fuggire dalla Russia, spesso senza lo status di rifugiato e subendo gli effetti di misure volte a punire i sostenitori del regime russo. Anche loro meritano la nostra piena solidarietà e chiediamo che si ponga fine a tutte le repressioni nei confronti degli oppositori russi alla guerra e, se necessario, che vengano accolti nel paese di loro scelta.
Recenti colpi di stato in Africa
I recenti colpi di stato militari nelle ex colonie francesi dell’Africa (Mali, Burkina Faso e Niger) sono indicativi della profonda crisi sociale e politica della regione, indebolita dall’ascesa dei gruppi terroristici islamisti, rafforzata dalla sconfitta di Gheddafi in Libia e dall’intervento delle potenze occidentali. In questi tre paesi, i militari che hanno preso il potere, senza incontrare alcuna resistenza in un contesto di crisi del regime, hanno approfittato del totale discredito delle istituzioni politiche e del diffuso rifiuto della presenza imperialista francese tra la popolazione, in particolare tra i giovani del Sahel. Questo rifiuto della Francia imperialista da parte della popolazione è stato espresso molto chiaramente anche in Senegal durante i movimenti sociali del 2021. Nel caso del colpo di stato militare in Gabon, che fa parte dell’Africa centrale ed è anche un’ex colonia francese, ciò che è decisivo è la crisi del regime, perché in questo paese non c’è il rifiuto della Francia come nei suoi vicini.
In ogni caso, i militari che sono saliti al potere non offrono una vera alternativa alle politiche imperialiste e al modello neoliberista, proprio come gli islamisti che sono saliti al potere attraverso le elezioni in Tunisia e in Egitto dopo la Primavera araba. Nessuno di loro affronta nemmeno la questione dell’antimperialismo – così forte nel continente negli anni ’60 e ’70 – e la necessità di un’unità africana radicalmente diversa dalla cosiddetta unità rappresentata dall’UA e dal suo orientamento di integrazione nella globalizzazione neoliberista.
La Quarta Internazionale rifiuta il discorso dell’imperialismo occidentale che, con il pretesto di ripristinare l’ordine costituzionale in questi paesi, vuole sostenere un intervento militare per preservare i propri interessi. Sosteniamo la richiesta di ritiro delle truppe militari francesi dall’intera regione, a partire dal Niger. Chiediamo la chiusura della base militare statunitense di Agadez in Niger e la partenza delle truppe del Gruppo Wagner. Sosteniamo tutti gli sforzi per recuperare la sovranità politica ed economica dei popoli, nel senso di un nuovo movimento antisistemico per l’unità dei paesi e dei popoli dell’Africa.
Chi sta in basso reagisce mobilitandosi
Dopo la crisi del 2008, sono riprese le mobilitazioni di massa in tutto il mondo. Primavera araba, Occupy Wall Street, Plaza del Sol a Madrid, Taksim a Istanbul, giugno 2013 in Brasile, Nuit Debout e Gilets jaunes in Francia, mobilitazioni a Buenos Aires, Hong Kong, Santiago e Bangkok. Questa prima ondata è stata seguita da una seconda ondata di rivolte ed esplosioni tra il 2018 e il 2019, interrotta dalla pandemia: la ribellione antirazzista negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dopo la morte di George Floyd, le mobilitazioni femminili in molte parti del mondo, tra cui l’eroica lotta delle donne in Iran, le rivolte contro i regimi autocratici come in Bielorussia (2020), una mobilitazione di massa dei contadini indiani che ha trionfato nel 2021. Il 2019 ha visto manifestazioni, scioperi o tentativi di rovesciare i governi in più di cento paesi – in più di un paese su tre, le rivolte hanno portato alla partenza del capo di stato o del governo (Sudan, Algeria, Bolivia, Libano), a un rimpasto di governo (Iraq, Guinea, Cile) o addirittura all’abbandono delle riforme che hanno scatenato le proteste (Francia, Hong Kong, Indonesia, Ecuador, Albania, Honduras) (cfr. L’atlas planétaire des colères populaires sul sito di notizie francese Mediapart).
Di particolare rilievo, all’indomani della pandemia, sono stati i tre mesi di resistenza in Francia contro la riforma delle pensioni di Macron e la rivolta di lavoratori, studenti e popolazione in Cina che ha contribuito a sconfiggere la politica del PCC “Zero Covid”. Negli Stati Uniti, il processo di sindacalizzazione e di lotta continua nei nuovi settori produttivi (Starbuck’s, Amazon, UPS), con l’emergere di nuovi processi anti-burocratici di base, con gli scioperi dei lavoratori dell’istruzione, della sanità e, nel 2022/2023, con i grandi scioperi degli sceneggiatori e degli attori di Hollywood, nonché con lo storico e finora vittorioso sciopero dei lavoratori delle tre principali aziende automobilistiche del paese.
La classe operaia in senso lato, che oggi si sta preparando all’impatto dell’intelligenza artificiale (e resiste, come dimostra lo sciopero di sceneggiatori e attori americani), è ancora viva e numerosa, anche se ristrutturata, repressa, meno consapevole e organizzata rispetto al secolo scorso. I grandi complessi industriali sopravvivono in Cina e si espandono nel Sud-Est asiatico. I contadini in Africa, Asia meridionale (India e Pakistan) e America Latina resistono coraggiosamente all’invasione dell’agroindustria imperialista. I popoli indigeni, che rappresentano il 10% della popolazione mondiale, resistono all’avanzata del capitale nei loro territori e difendono i beni comuni essenziali per tutta l’umanità. La sconfitta della Primavera araba e la tragedia siriana stanno frenando la resilienza dei popoli del Vicino e Medio Oriente; nonostante ciò, abbiamo assistito all’eroica rivolta delle donne e delle ragazze dell’Iran.
In America Latina, le esplosioni sociali e le lotte – che hanno unito richieste democratiche ed economiche – si stanno incanalando nelle elezioni dei cosiddetti governi “progressisti” della seconda ondata, con tutte le differenze che esistono tra i governi di Lula, Amlo, Petro e Boric. La nostra politica generale non deve essere un’opposizione frontale e settaria a questi governi, ma una politica di rivendicazione e mobilitazione (anche verso modalità migliori di lotta all’estrema destra), mantenendo l’indipendenza dei movimenti e dei partiti in cui agiamo con tutte le loro contraddizioni.
I lavoratori continuano a resistere al capitale e a lottare per le loro condizioni di vita, anche se con nuove forme di organizzazione del lavoro e nuovi modi di organizzarsi per lottare, e quindi con maggiori difficoltà rispetto agli anni “gloriosi” dello stato sociale del XX secolo. La sfida è quella di lavorare più duramente che mai, in ogni paese, in ogni periferia urbana, in ogni luogo di lavoro, in ogni occupazione e sciopero, in ogni nuovo sindacato di base, in ogni nuova categoria e in ogni nuovo movimento popolare di resistenza all’ordine, unendosi l’un l’altro per rivendicazioni comuni, creando e rafforzando l’auto-organizzazione e la politicizzazione anticapitalista delle rivendicazioni, al fine di ricostruire la coscienza degli sfruttati e degli oppressi contro il capitalismo e la loro indipendenza di classe.
Nell’Africa subsahariana ci sono, da un lato, i cosiddetti movimenti cittadini (Le Balai citoyen, Y en a marre!, Lucha, ecc.) che sembrano cercare un nuovo impulso e, dall’altro, le manifestazioni popolari, comprese quelle dell’opposizione politica, alle quali i regimi rispondono anche con una feroce repressione (Senegal, Swatini/ex-Swaziland, Zimbabwe, ecc.). In generale, non sono evidenti le radici di sinistra o “progressiste” (anti-neoliberali), né tantomeno una prospettiva anticapitalista (menzionata dai nostri compagni algerini durante l’Hirak).
Rivendicazioni centrali per una nuova era
In questo contesto generale, la situazione delle classi lavoratrici, degli sfruttati e degli oppressi avanza diverse richieste che combinano questioni economiche, femministe e antirazziste con questioni socio-ambientali e democratiche in generale – contro i regimi autoritari, il neofascismo e tutte le forme di imperialismo. La politica unitaria della sinistra (fronti uniti) e anche l’unità transitoria con i settori medi o borghesi contro il fascismo (fronti larghi) sono una parte importante del nostro repertorio in questi tempi, ma mai negoziando o accettando la perdita della nostra indipendenza politica o di quella dei movimenti sociali.
I bisogni primari e i diritti fondamentali devono essere soddisfatti per tutti gli esseri umani, con assistenza sanitaria gratuita, alloggi e lavori dignitosi, salari e pensioni dignitosi e accesso all’acqua. La privatizzazione della terra e dei mezzi di produzione per il profitto capitalistico, le politiche di austerità e le conseguenze catastrofiche del cambiamento climatico fanno sì che gran parte dell’umanità abbia sempre meno di questi benefici.
Dobbiamo lottare contro i governi autoritari e per i diritti democratici, per il diritto generale della società all’assistenza sanitaria, contro la discriminazione delle donne a cui viene impedito il controllo sul proprio corpo e sulla propria vita, per il diritto all’aborto, per la parità di retribuzione e di reddito, contro il razzismo strutturale che discrimina le persone di colore, le popolazioni indigene e altre etnie razzializzate, e contro l’omofobia e la transfobia che attaccano la comunità LGBTQI in tutto il mondo.
Tutte queste lotte devono unirsi per sconfiggere i nuovi fascismi, per rovesciare i regimi di sfruttamento e oppressione e per condurre la lotta contro il capitalismo. Tutti questi compiti, in mezzo a guerre, disastri climatici e minacce di aggiustamento, richiedono un nuovo internazionalismo, un internazionalismo militante dei popoli dal basso. In un momento in cui molti movimenti e mobilitazioni sociali stanno esplodendo, dobbiamo ricostruire legami e iniziative internazionaliste – come quelle dei lavoratori portuali di tutta Europa che boicottano Israele – e campagne che uniscano la sinistra e i movimenti sociali, con scambi che permettano di difendere le rivendicazioni comuni e facilitino vittorie e avanzamenti in grado di ribaltare la situazione a favore delle maggioranze sociali.
* giornalista fondatrice del PSOL, membro dell’Esecutivo della Quarta Internazionale.