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In occasione del vertice congiunto della Lega Araba e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC), tenutosi nella capitale saudita l’11 novembre 2023, i leader dei paesi arabi e musulmani hanno condannato le azioni “barbare” delle forze di occupazione israeliane nella Striscia di Gaza, ma si sono astenuti dall’adottare misure economiche e politiche punitive contro Israele.

Il comunicato finale chiedeva al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di adottare una risoluzione “vincolante” per porre fine alla “aggressione” israeliana. 

Questa carenza nell’azione dimostra le differenze tra i vari stati, ma soprattutto i tentativi anche degli altri di rimanere inattivi di fronte alla guerra di Israele contro Gaza o di strumentalizzare la causa palestinese per servire gli interessi di ciascuno stato, lontano da qualsiasi sincera considerazione per le classi lavoratrici palestinesi. Questa situazione si inserisce in un contesto storico regionale.

Dopo la Nakba, il panarabismo e la causa palestinese

Dopo la Nakba del 1948, alcuni palestinesi sono stati coinvolti in organizzazioni politiche panarabe. Per molti aspetti, i nazionalisti panarabi, insieme ad altri movimenti del Terzo Mondo, erano impegnati nella progressiva trasformazione sociale delle strutture socio-economiche di oppressione e dominazione. La politica economica dei movimenti nazionalisti arabi di Nasser e del Ba’th negli anni Sessanta era caratterizzata da un capitalismo di stato che promuoveva, da un lato, una strategia ostile al capitale straniero e ad alcuni settori privati nazionali e, dall’altro, una politica volta a una vasta ridistribuzione della ricchezza all’interno delle loro società. 

Ciò si tradusse anche nel sostegno alla nascente resistenza palestinese contro il nemico israeliano. Tuttavia, questi regimi hanno perpetuato l’assenza di un punto di riferimento democratico comune. Allo stesso modo, ogni autonomia del movimento operaio e ogni forma di opposizione di sinistra e progressista furono violentemente represse e le minoranze nazionali sonostate spesso bersaglio di politiche oppressive, come i curdi in Siria.

In tutti i paesi della regione, dopo la sconfitta della Guerra dei Sei Giorni nel 1967, si è verificata un’ondata di radicalizzazione che ha colpito soprattutto i giovani e che si è inserita nell’ondata mondiale di radicalizzazione che sarebbe culminata nel 1968. 

L’espressione più visibile di questa radicalizzazione in Medio Oriente fu la rapidissima espansione delle organizzazioni di lotta armata tra i rifugiati palestinesi, in primo luogo in Giordania, e la loro conquista dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), inizialmente creata dalla Lega degli stati arabi, sotto la tutela dell’Egitto

Dopo la sconfitta della Guerra dei Sei Giorni (1967), l’OLP si è rapidamente radicalizzata, adottando una nuova carta nazionale (nel luglio 1968) e integrando le varie organizzazioni armate palestinesi. Nel 1969, le organizzazioni palestinesi ottennero l’autonomia dai paesi arabi. Fatah controllava l’OLP e Yasser Arafat ne diventò il leader.

Tuttavia, la crisi dei regimi nazionalisti arabi era profonda. La sconfitta dei regimi radicali in Egitto e Siria nella Guerra dei Sei Giorni rappresentò una svolta importante a livello regionale, anche per la questione palestinese.

Egitto, Siria e altri stati abbandonarono gradualmente le loro precedenti politiche sociali radicali e antimperialiste. I loro metodi di sviluppo capitalistico statale iniziarono a ristagnare. Di conseguenza, optarono per un riavvicinamento ai paesi occidentali e ai loro alleati delle monarchie del Golfo e adottarono il neoliberismo, ponendo fine a molte delle riforme sociali che li avevano resi popolari tra i settori dei lavoratori e dei contadini. I regimi si rivolsero anche contro il movimento nazionale palestinese, cercando compromessi con Israele.

I regimi regionali tradiscono la lotta di liberazione

A partire dagli anni ’70, la repressione del movimento nazionale palestinese e il riavvicinamento, la normalizzazione o una forma di tacito compromesso con lo stato di Israele segneranno i decenni successivi. Il primo scontro avvenne in Giordania: la monarchia schiacciò il movimento nazionale palestinese nel 1970, negli eventi noti come Settembre nero, uccidendo migliaia di palestinesi ed espellendo l’OLP.

In Egitto, dopo la morte del leader Nasser nel settembre 1970, il nuovo regime, guidato da Anwar al-Sadat, impose una nuova direzione alla politica egiziana, rompendo con il nasserismo. Da un lato, stabilì una tacita alleanza con il movimento dei Fratelli Musulmani contro le forze nazionaliste e progressiste del paese, dall’altro mise in atto la politica dell’infitah, che comportò essenzialmente una serie di misure di promozione della liberalizzazione e della privatizzazione economica del paese. 

Allo stesso modo, ci fu un graduale avvicinamento tra Washington e Il Cairo, che continua ancora oggi, dopo la conclusione degli accordi di Camp David e la firma ufficiale degli accordi di pace tra Egitto e Israele nel 1979. 

Il regime egiziano è diventato il secondo beneficiario degli aiuti americani (soprattutto militari) dopo Israele, per un ammontare di oltre un miliardo di dollari all’anno. Dal 2007, inoltre, l’Egitto collabora al blocco di Gaza imposto da Israele.

L’arrivo al potere di Hafez al-Assad in Siria ha segnato anche una rottura con la politica del suo predecessore Salah al-Jadid, che sosteneva le azioni armate palestinesi dal territorio siriano. Hafez al-Assad proveniva dalla cosiddetta sezione “pragmatica” del partito Ba’th, che non era favorevole a politiche sociali radicali e al confronto con i paesi conservatori della regione, come le monarchie del Golfo. L’obiettivo di Assad era quello di garantire la stabilità del suo regime e l’accumulo di capitali, compiacendo i settori più potenti della comunità imprenditoriale siriana. 

Allo stesso tempo, ciò significava porre fine all’azione armata palestinese e, più in generale, a qualsiasi forma di resistenza della Siria contro Israele, compresa la liberazione del Golan siriano occupato da Israele fin dal 1967. Tra il 1974 e il 2011, dal territorio siriano non è stato sparato un solo proiettile contro Israele. Peggio ancora, il regime siriano non ha esitato a reprimere e attaccare i palestinesi e il movimento nazionale palestinese.

Nel 1976, il regime siriano di Hafez al-Assad è intervenuto in Libano contro le organizzazioni di sinistra palestinesi e libanesi a sostegno dei partiti libanesi di estrema destra. Ha inoltre condotto operazioni militari contro i campi palestinesi a Beirut nel 1985 e nel 1986. Nel 1990, circa 2.500 prigionieri politici palestinesi erano detenuti nelle carceri siriane

Mentre il regime siriano ha accolto e sostenuto Hamas per un certo periodo, ha ridotto radicalmente il suo sostegno quando Hamas ha rifiutato di appoggiare la controrivoluzione del regime contro la rivolta democratica del 2011 e l’ha estromesso nel 2012. I due hanno ristabilito le relazioni politiche nel 2022 con la mediazione degli Hezbollah libanesi. Questo sviluppo risponde agli interessi di Teheran di consolidare la propria influenza nella regione e di ripristinare le relazioni tra i suoi due alleati.

Più recentemente, il processo di normalizzazione degli Accordi di Abraham nel 2020, iniziato dal presidente americano Trump e proseguito da Biden, mira a consolidare l’influenza degli Stati Uniti nella regione rafforzando l’integrazione politica con gli stati della regione e a dare spazio all’integrazione economica dello stato di Israele in Medio Oriente. 

Questo era anche uno degli obiettivi degli accordi di Oslo (nati male) conclusi tra l’OLP e Israele nel 1993. I processi di normalizzazione ufficiale tra Israele e i suoi alleati nella regione, in particolare le monarchie del Golfo, la maggior parte delle quali aveva precedenti relazioni con Israele, mirano a isolare ulteriormente la questione palestinese, rafforzando al contempo un’alleanza regionale che sostiene gli Stati Uniti, si oppone all’Iran e garantisce la stabilità autoritaria neoliberale della regione.

Altri regimi regionali, come l’Iran e la Turchia, cercano di sostenere alcuni gruppi palestinesi per promuovere i propri obiettivi politici. Pur mantenendo legami politici con Hamas, l’Iran ha tuttavia ridotto gli aiuti all’organizzazione dopo la partenza dell’organizzazione palestinese dalla Siria nel 2012 e il conseguente disaccordo sulla questione. 

Solo dopo la sostituzione di Khaled Meshaal con Ismael Haniya alla guida di Hamas, nel 2017, si è aperta la porta a relazioni più strette tra Hamas, Hezbollah e Iran. Inoltre, la nomina dello sceicco Saleh al-Arouri – uno dei fondatori del braccio armato di Hamas, le Brigate al-Qassam – a vice capo dell’ufficio politico del gruppo, ha facilitato questo sviluppo. Così come l’elezione di Yahya Sinwar, altro membro fondatore delle Brigate al-Qassam, a capo del movimento a Gaza.

In realtà, il ramo militare ha sempre mantenuto stretti legami con l’Iran, a differenza dell’ufficio politico del movimento guidato da Meshaal. In effetti, i leader delle Brigate al-Qassam si sono opposti ai tentativi di Meshaal, durante il suo mandato, di allontanare Hamas dall’Iran e da Hezbollah, a favore di un miglioramento delle relazioni con la Turchia, il Qatar e persino l’Arabia Saudita, a un certo punto. 

Le rinnovate e approfondite relazioni con l’Iran, tuttavia, non sono state esenti da critiche nella Striscia di Gaza e persino tra le basi popolari di Hamas. Una foto del defunto comandante della Forza Quds iraniana, il generale Qassem Soleimani, esposta su un cartellone pubblicitario a Gaza City, è stata vandalizzata e demolita pochi giorni prima del primo anniversario della sua morte. 

L’assassinio di Soleimani da parte di un attacco americano a Baghdad nel 2020 è stato fortemente condannato da Hamas e Haniyeh si è persino recato a Teheran per partecipare al suo funerale. L’istigatore dell’azione, Majdi al-Maghribi, ha accusato Soleimani di essere un criminale. 

Anche diversi altri striscioni di Soleimani sono stati tolti e vandalizzati, mentre un video mostra un individuo che lo descrive come “assassino di siriani e iracheni”. Per non parlare della collaborazione di Teheran con l’imperialismo statunitense in Afghanistan e in Iraq. 

Per questo motivo, durante la rivolta irachena del 2019, i manifestanti hanno marciato con lo slogan “Né gli Stati Uniti né l’Iran”. Questi esempi da soli decostruiscono l’idea che l’Iran sia un alleato affidabile della causa palestinese o che sia uno stato anti-imperialista.

Allo stesso modo, nonostante le critiche di Recep Tayyip Erdogan a Israele, la Turchia mantiene stretti legami economici con questo paese. Erdogan ha aumentato il volume degli scambi commerciali con Tel Aviv da 1,4 miliardi di dollari quando è salito al potere a 6,5 miliardi di dollari nel 2020. I regimi limitano quindi il loro sostegno alla causa alle aree in cui questa favorisce i loro interessi regionali e la tradiscono quando non lo fa. 

Di recente, Turchia e Israele hanno sostenuto l’aggressione e l’occupazione militare da parte dell’Azerbaigian del Nagorno-Karabakh, originariamente controllato dagli armeni e principalmente popolato da questi ultimi. I droni israeliani e turchi e il supporto dell’intelligence di entrambi i paesi sono stati essenziali per la vittoria dell’Azerbaigian sulle forze armate armene. Questa occupazione ha portato all’esodo di oltre 100.000 persone su una popolazione totale di 120.000.

Strategia e limiti dei movimenti politici palestinesi

Dopo il fallimento della strategia di affidarsi al sostegno politico dei regimi regionali e di allearsi con essi, l’OLP passò all’approccio ancora più rovinoso di cercare un accordo di pace negoziato dagli Stati Uniti e da altre grandi potenze. La speranza era di ottenere una soluzione con due stati attraverso gli accordi di Oslo del 1993. Questo è stato un fallimento abissale a tutti i livelli per i palestinesi.

Più in generale, nessuno di questi partiti – FatahHamasJihad islamicaFronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) e altri – ha proposto una strategia politica in grado di portare alla liberazione della Palestina.

I partiti politici palestinesi dominanti non vedono nelle masse palestinesi, nelle classi lavoratrici regionali e nei popoli oppressi le forze capaci di conquistare la liberazione della Palestina. Cercano invece alleanze politiche con le classi dominanti della regione e i loro regimi per sostenere la loro lotta politica e militare contro Israele. Collaborano con questi regimi e sostengono il non intervento nei loro affari politici, anche se questi regimi opprimono le loro classi popolari e i palestinesi all’interno dei loro confini.

Uno dei principali esempi di come questo approccio si sia evoluto è stato quello della Giordania nel 1970, culminato negli eventi noti come Settembre Nero. Nonostante la forza, l’organizzazione e la popolarità dell’OLP in Giordania (un paese la cui popolazione è per il 70% palestinese) la leadership di Fatah di Yasser Arafat si rifiutò inizialmente di sostenere una campagna per rovesciare il dittatore del paese, re Hussein. In risposta, e con il sostegno di Stati Uniti e Israele, Hussein dichiarò la legge marziale e, con i governi arabi regionali in gran parte passivi, attaccò i campi dell’OLP, uccise migliaia di combattenti e di civili palestinesi e alla fine cacciò l’OLP dalla Giordania in Siria e Libano.

Nonostante questa storia e le successive esperienze in esilio, l’OLP ha perseguito per decenni questa strategia di collaborazione e di non intervento negli affari interni dei paesi arabi. Il presidente dell’Autorità PalestineseMahmoud Abbas, sostiene in generale l’ordine politico esistente nella regione. In In particolare, Abbas ha inviato un messaggio di congratulazioni al despota siriano Bashar al-Assad per “la sua rielezione”, nonostante la brutale repressione di Assad dei palestinesi coinvolti nella rivolta siriana e la distruzione del campo profughi di Yarmouk.

Hamas sta perseguendo una strategia simile; i suoi leader hanno coltivato alleanze con le monarchie del Golfo, ultimamente il Qatar, e con il regime fondamentalista iraniano. Nel 2012, Ismail Haniyeh, all’epoca primo ministro del governo di Hamas a Gaza, ha elogiato le “riforme” del Bahrein, mentre il regime, con il sostegno dei suoi alleati del Golfo, schiacciava la rivolta democratica del paese. Molti leader di Hamas lo considerarono un “colpo di stato settario” da parte degli sciiti del Bahrein sostenuti dall’Iran.

Nell’aprile 2018, l’ex leader di Hamas Khaled Mashal ha elogiato l’invasione e l’occupazione di Afrin in Siria da parte della Turchia durante una visita ad Ankara. Ha affermato che “il successo della Turchia ad Afrin serve da forte esempio”, auspicando che sia seguito da “vittorie simili per la ummah islamica in molte parti del mondo”. L’occupazione di Afrin da parte delle forze armate turche e dei suoi sostenitori reazionari siriani ha cacciato più di 150.000 persone, soprattutto curdi, e represso quelli che sono rimasti.

Purtroppo, la sinistra palestinese ha attuato per lo più la propria versione della stessa strategia. Anch’essa si è astenuta dal criticare la repressione del suo popolo da parte dei suoi alleati. Il FPLP, ad esempio, non ha sollevato alcuna obiezione riguardo i crimini del regime siriano e ha persino sostenuto il suo esercito contro i “complotti stranieri”, dichiarando che Damasco “rimarrà una spina nel fianco del nemico sionista e dei suoi alleati”. Le relazioni del FPLP con la teocrazia iraniana seguono uno schema simile.

Conclusione

La chiave per sviluppare una migliore strategia di liberazione è collocare la Palestina nel contesto regionale. Esiste una relazione dialettica tra le lotte dei palestinesi e le classi popolari regionali: quando i palestinesi combattono, si innesca un movimento di liberazione regionale, e il movimento regionale a sua volta alimenta il movimento nella Palestina occupata. Le ultime manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese dimostrano che le critiche alle politiche di questi regimi non sono mai slegate dalle critiche ai loro compromessi con Israele e al loro autoritarismo.

Il ministro di estrema destra Avigdor Lieberman ha riconosciuto il pericolo rappresentato per Israele dalle rivolte popolari regionali nel 2011, quando ha dichiarato che la rivoluzione egiziana, che ha rovesciato Hosni Mubarak e ha dato il via a un periodo di apertura democratica nel paese, era una minaccia maggiore per Israele rispetto all’Iran.

La strategia della rivoluzione regionale basata sulla lotta di classe dal basso è l’unico modo per ottenere la liberazione da Israele, da un lato, e dai regimi autoritari regionali, dall’altro, nonché dai loro sostenitori imperialisti, dagli Stati Uniti alla Cina e alla Russia.

* Militante della Quarta Internazionale in Svizzera e professore ospite dell’Istituto Universitario Europeo, autore di Siria, le martyre d’une révolution, 2022, éditions Syllepse, e di Le Hezbollah: Un fondamentalisme religieux à l’épreuve du néolibéralisme, 2019, éditions Syllepse.