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La portata dell’attacco di Israele a Gaza è senza precedenti. Lo vede soprattutto come un atto di vendetta o vi è una dimensione strategica?

Certamente, una dimensione di questo attacco assomiglia a un atto di vendetta. Ma è anche un’opportunità che è stata colta dall’estrema destra israeliana, rappresentata da Netanyahu e dal suo governo, per realizzare un vecchio sogno, un loro vecchio progetto, chiamato Grande Israele. Erano profondamente scontenti del fatto che lo Stato israeliano nel 1948 avesse lasciato fuori la Palestina del mandato britannico, circa il 22%, rappresentato dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania. Come sappiamo, queste sono state occupate da Israele nel 1967. Tuttavia, Israele non ha potuto inghiottirle, nel senso dell’annessione, perché, a differenza di quanto accaduto nel 1948, la popolazione non è fuggita. La stragrande maggioranza di loro è rimasta sulla propria terra e nelle proprie case. Hanno visto cosa è successo nel 1948, quando l’80% della popolazione palestinese del territorio che il nuovo Stato israeliano occupava è fuggita a causa della guerra, credendo che sarebbe tornata una volta terminati i combattimenti. In realtà non fu mai permesso loro di tornare. La popolazione della Cisgiordania non voleva diventare a sua volta una popolazione di profughi nelle tende, quindi è rimasta. Lo stesso vale per Gaza, con l’aggiunta che oltre Gaza c’è il deserto del Sinai. Non è esattamente un luogo in cui naturalmente si pensa di fuggire, a meno che non ci si trovi in circostanze molto, molto difficili, come è attualmente il caso.

Questo è il punto. Quindi, a Gaza, pensano di aver trovato un modo per realizzare quel sogno. Inoltre, alcuni esponenti dell’estrema destra israeliana ritengono che sia giunto il momento di farlo anche in Cisgiordania. Stanno iniziando, e questo è meno risaputo, ovviamente, rispetto al massacro che stanno conducendo a Gaza. Ma c’è già un gran numero di persone uccise in Cisgiordania. In alcune zone della Cisgiordania i soprusi da parte dei coloni nei confronti dei palestinesi sono quotidiani, cercando di spingerli apertamente a lasciare le loro case e ad andarsene in Giordania.

Il parallelo con l’11 settembre è evidente. Ciò che l’amministrazione di George W. Bush ha fatto dopo l’11 settembre, in particolare l’invasione dell’Iraq, è stato ovviamente di sfruttare un’opportunità per raggiungere un obiettivo che in realtà era ancora meno legato all’evento di quanto stia accadendo ora a Gaza.

Il termine che lei usa è assai appropriato. È un’operazione a fasi. Da nord a sud di Gaza, e l’intenzione è poi quella di passare da Gaza sud all’Egitto. E sappiamo che il governo israeliano ha compiuto molti sforzi per cercare di convincere i Paesi occidentali a fare pressioni sul governo egiziano perché apra il confine e faccia entrare i palestinesi nel Sinai. Ma l’Egitto è stato molto duro al riguardo. Il governo egiziano non vuole vedere l’espulsione di quelli che sarebbero quasi due milioni di palestinesi verso il proprio territorio, trasformandoli in rifugiati permanenti.

Alla fine di ottobre è stato reso pubblico un documento dell’Intelligence israeliana nel quale venivano descritti in dettaglio tre scenari per Gaza. Quello ritenuto migliore nel documento era proprio l’evacuazione dei palestinesi da Gaza verso il Sinai e il loro insediamento permanente lì, con la costruzione di una città per loro. Tutto questo dipenderà dalla capacità dell’esercito israeliano di raggiungere quello che considerano l’obiettivo concordato e minimo di questa operazione, ovvero lo sradicamento di Hamas. E questo non può essere dato per scontato, anche con il livello di terrore, distruzione e morte. Al momento, su una popolazione di 2,3 milioni di abitanti, sono state uccise quasi 10.000 persone [l’intervista è stata rilasciata a fine novembre. Oggi le vittime sono più di 20’000 NdT] , di cui forse il 40% bambini. Prendete la stessa proporzione in Sudafrica e otterrete cifre ancora più spaventose. Ecco perché il termine genocidio che sta iniziando a essere usato, almeno come monito dalle agenzie delle Nazioni Unite, è assolutamente appropriato. Quello che sta accadendo è sicuramente un massacro genocida.

Sarebbe l’equivalente della morte di più di un quarto di milione di persone in Sudafrica. Nel frattempo, Anthony Blinken se ne va in giro, comportandosi come una sorta di Henry Kissinger in Medio Oriente, cercando di parlare con tutti. Quanto è serio il rischio che questo conflitto si trasformi in una più ampia attività militare in Medio Oriente, coinvolgendo altri Paesi?

I Paesi che potrebbero essere coinvolti sono quelli alleati di Hamas, in primo luogo l’Iran, rappresentato dagli Hezbollah libanesi. Ci sono state alcune azioni, che sono gesti simbolici, come il lancio di missili dallo Yemen o di alcuni razzi al confine dal Libano. Ma l’Iran e Hezbollah rimangono cauti. Sembra che il regime iraniano non abbia la volontà di farsi coinvolgere in questa guerra e di pagarne un prezzo molto alto, visto l’invio di navi militari degli Stati Uniti nell’area, un’azione di deterrenza proprio nei confronti di Teheran. Sembra che i governanti iraniani, e i loro alleati in Libano e in Iraq, abbiano detto ad Hamas che avrebbe dovuto consultarli prima di lanciare la sua operazione. È un modo per dire: “Poiché non siamo stati consultati, non abbiamo alcuna responsabilità”.

Negli ultimi due anni abbiamo visto le potenze mediorientali sfidare l’appello del BDS [il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni nei confronti di Israele] e costruire legami diplomatici ed economici con Israele. Questo processo ha ora subito una battuta d’arresto, un processo di inversione o è definitivamente morto?

Se non è stato radicalmente invertito, ha perlomeno ricevuto un duro colpo. Finora abbiamo avuto, ancora una volta, gesti simbolici come il richiamo degli ambasciatori. Anche la Giordania lo ha fatto. Sono modi per questi governi di dimostrare che stanno facendo qualcosa, perché sono sottoposti a forti pressioni. L’Egitto e la Giordania, in quanto Paesi confinanti con Israele, sono molto cauti nei confronti di ciò che sta accadendo, perché le loro popolazioni sono profondamente solidali con i palestinesi. Come il resto della popolazione araba e ben oltre – si parla di mondo musulmano, ma anche in America Latina, che non ha nulla a che fare con l’Islam, si può vedere questa solidarietà. Questo conflitto a Gaza incarna davvero la spaccatura globale tra il Sud e il Nord del mondo. Così, i regimi arabi che si erano impegnati in un processo di normalizzazione nei confronti di Israele, cioè l’instaurazione di relazioni diplomatiche e di altro tipo, si trovano in una situazione molto imbarazzante. L’Iran sta superando tutti i regimi arabi sulla questione di Israele; ha usato la causa palestinese come una frusta con cui colpire i regimi arabi, ovviamente senza fare molto. Alla fine, il futuro delle relazioni arabe con Israele dipenderà da ciò che accadrà al termine di questa tragedia in corso. Ma la portata del massacro è già tale che credo sarebbe molto difficile che possa riprendere il processo di “normalizzazione”.

Se guardiamo alla politica di Israele, che effetto avrà tutto questo processo? A breve termine, sembra aver reso ancora più duro, quasi inevitabilmente, una sorta di atteggiamento vendicativo. Ma questo coesiste con la sensazione che si sia trattato di un enorme fallimento da parte del governo, e che quindi il governo debba pagare. Convince qualcuno, che già non lo fosse, che non c’è una soluzione militare a questo problema? Dove va la politica israeliana?

Solo un’esigua minoranza sta traendo la giusta conclusione, quella alla quale lei ha appena accennato: non esiste una soluzione militare a questo conflitto. Bisogna scendere a patti sulla base di una soluzione politica, che significa inevitabilmente tenere conto dei diritti dei palestinesi. Questo Israele lo ha completamente rifiutato fino ad ora. Ma la stragrande maggioranza degli israeliani è, per ora, purtroppo, di opinione molto diversa, anche se è difficile dire se è riferito ai palestinesi in generale o ad Hamas in particolare. Una grossa fetta della società israeliana si è spostata verso l’estrema destra e il risultato di questo spostamento è l’attuale governo di estrema destra che comprende anche ministri neonazisti. Queste persone certamente non fanno molta distinzione tra Hamas e i palestinesi. Per loro i palestinesi sono il male. Sono apertamente razzisti.

C’è un altro segmento di Israeliani che crede ancora di poter raggiungere un qualche tipo di accordo con i palestinesi. Ma direi che la maggior parte degli Israeliani è convinta di non poter ottenere un accordo con i palestinesi. La soluzione più gettonata è senza dubbio l’evacuazione dei palestinesi da Gaza verso il Sinai e il loro insediamento permanente lì, con la costruzione di una città per loro.

Costoro credono in una sorta di accordo simile a quello di Oslo, una vera e propria messinscena. Equivarrebbe alla creazione di un bantustan (1) sotto il controllo di Israele. La linea di fondo di questa posizione non è meno razzista, in definitiva, dell’altra. Solo un’esigua minoranza crede che Israele debba concludere una vera pace con i palestinesi. E questo significherebbe concedere la piena uguaglianza ai palestinesi, così come il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi che oggi si trovano in Giordania, Libano, Siria e altri Paesi. Si tratta di una posizione molto, molto radicale per l’attuale società israeliana.

Alcuni affermano che il Sudafrica ha risolto i suoi problemi. Quindi, nulla è impossibile. Ma la classe dirigente sudafricana non ha rinunciato a nulla dal punto di vista economico. Non c’è soluzione concepibile in Palestina senza una grande cessione di risorse materiali effettive. Allora, qual è la strada da seguire per la lotta palestinese? È molto difficile essere ottimisti, a volte, quando si pensa alla situazione attuale.

Lei ha assolutamente ragione sulla fine dell’apartheid in Sudafrica. Ma c’è un’altra dimensione, ancora più cruciale, nel caso della Palestina. La differenza tra il caso del colonialismo israeliano di insediamento e i casi sudafricano o algerino è che, in questi ultimi due casi, non c’è stata l’espulsione della popolazione originaria come parte essenziale del progetto. E questa è una differenza molto importante. Il sionismo, come progetto coloniale, aveva nel suo programma l’espulsione di massa della popolazione del Paese per costruire uno Stato ebraico o, perlomeno, uno Stato a maggioranza ebraica. Questo obiettivo è stato raggiunto non permettendo ai palestinesi di tornare alle loro case, villaggi e terre dopo essere fuggiti dalla guerra del 1948. Gli israeliani hanno raso al suolo centinaia di villaggi. Sono stati completamente cancellati dalla mappa dopo la guerra, utilizzando queste pratiche per appropriarsi della loro terra. Questo ha creato, ovviamente, relazioni ancora più aspre che in altri casi. In secondo luogo, la coesistenza in un unico Stato di palestinesi e israeliani non è possibile se non si rinuncia al progetto di uno Stato ebraico. Occorrerebbe la fine dello Stato sionista come Stato ebraico, basato su una definizione etnica e razziale, e questo è molto più difficile da realizzare rispetto alla transizione da un regime di apartheid. In Algeria, gli europei sono fuggiti in massa in Francia, perché il movimento di liberazione algerino era più radicale nella sua riconquista del territorio. Quindi, la transizione senza problemi che avete avuto in Sudafrica è piuttosto l’eccezione che la regola.

Allora, qual è la strada da seguire per la lotta palestinese?

Come ha detto lei, oggi non ci sono ragioni per essere ottimisti di fronte a questo conflitto. Il futuro appare estremamente cupo. Ed è divenuto sempre più cupo da molti anni a questa parte. In questo momento è come se in Sudafrica ci fossero gli afrikaner bianchi al potere. È quello che succede in Israele. Penso che ci vorrebbero, innanzitutto, grandi cambiamenti politici in tutti gli elementi presenti nell’attuale configurazione, a cominciare dalla stessa società israeliana. In secondo luogo, profondi cambiamenti dovrebbero avvenire anche nella società palestinese e nel mondo arabo. Sarebbe necessaria l’emergenza di nuove forze in grado di conquistare un gran numero di persone a una prospettiva radicale e internazionalista. E infine, ma non per questo meno importante, negli Stati Uniti e in Occidente, sarebbe necessario un approccio radicalmente diverso al problema. Ora, di queste tre realtà, l’unico luogo in cui si è registrato un vero sviluppo positivo sono gli Stati Uniti. È paradossale dirlo, ma è negli Stati Uniti che abbiamo assistito a un reale progresso nella comprensione della causa palestinese, anche tra gli ebrei americani. E questo è molto incoraggiante. Ci sono persino sondaggi sorprendenti che mostrano, ad esempio, come la maggioranza dei Democratici sia contraria all’aumento degli aiuti militari a Israele. Questo non sarebbe stato immaginabile solo pochi anni fa. Assistiamo quindi a un vero e proprio cambiamento. E forse, alla fine, questo avrà ripercussioni sulla società israeliana, che è molto, molto sensibile, ovviamente, a ciò che accade negli Stati Uniti. Il legame degli ebrei americanicon Israele, in particolare,  è tale da influenzare molto la società israeliana. Quindi, se volessimo individuare un raggio di speranza in questa enorme oscurità, per il momento sarebbe questo.

*Gilbert Achcar è professore di Studi sullo sviluppo e Relazioni internazionali alla SOAS, Università di Londra. L’intervista è apparsa sul numero di dicembre della rivista sudafricana Amandla.

1. Un bantustan era un territorio del Sudafrica o della Namibia assegnato alle etnie nere dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid. (NdT)