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In occasione del centenario della morte di Lenin, iniziamo al pubblicazione di una serie di articoli che cercano di ricostruirne la figura, mettendo in luce aspetti (superati e attuali) del suo pensiero. (Red)

Appena morto Lenin, la sua figura fu immediatamente trasformata in oggetto di culto da Stalin, che lo adoperò strumentalmente per legittimare il culto della sua propria personalità. Ma la caratura del leader bolscevico era dipesa, nell’arco della sua esistenza, anche dal rifiuto netto che mostrava verso la celebrazione di sé stesso. Il calibro del suo pensiero e la sua statura intellettuale gli furono riconosciuti da tutti, anche dai suoi concorrenti, ma non meno pesanti furono i limiti e i gravi errori che commise, alcuni dei quali aprirono la strada alle successive nefandezze staliniane.

Proprio un secolo fa, il 21 gennaio 1924, nella sua casa nei pressi di Mosca, all’età di neanche 54 anni, dopo due anni di tribolazioni a causa dell’ictus che lo aveva colpito, moriva Vladimir Il’ič Ul’janov, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Lenin, il protagonista della Rivoluzione russa del 1917; uno dei più efficaci organizzatori del movimento operaio dell’epoca e tra i principali esponenti del marxismo del ventesimo secolo, sul piano teorico e su quello dell’azione.

Osannato da milioni di lavoratori in tutto il mondo, ma anche diffusamente e universalmente odiato e denigrato da tanti esponenti delle classi dominanti, dell’epoca e di sempre.

Certo, nel corso dei decenni, il suo nome è stato abusivamente associato a quello di Stalin. Anzi, il più delle volte, proprio a lui vennero attribuite le aberrazioni che trasformarono in pochi anni la Russia rivoluzionaria in quella grottesca caricatura che fu l’URSS stalinista e poi brezneviana. Nella storiografia mainstream, Iosif Stalin è sempre stato presentato come il legittimo erede di Lenin, del suo pensiero e della sua azione.

E l’ideologia e la storiografia di regime dell’URSS, ovviamente, costruendo l’immagine del “marxismo-leninismo”, hanno sempre avallato e strumentalizzato questa identificazione, perché la presunta continuità tra Lenin e Stalin forniva a quest’ultimo una potente seppur abusiva autorità, sia tra le masse sovietiche sia nel movimento comunista internazionale.

Da Stalin, e dal regime dittatoriale che costruì attorno a sé, sorse il culto della personalità di Lenin. Subito dopo la sua morte, il corpo di Lenin fu imbalsamato su decisione di Stalin, come se fosse una sorta di santo, cosa che lo avrebbe scandalizzato e che di fatto indignò la vedova Nadežda Krupskaja, che già il 30 gennaio del 1924 (pochi giorni dopo la morte del marito) scrisse sulla Pravda: “Ho una grande preghiera per voi. Non lasciate che il vostro omaggio a Illich prenda la forma di un’adorazione per la sua persona. Non costruitegli monumenti, non intitolategli palazzi, non organizzate cerimonie commemorative. Quando era in vita dava così poca importanza a tutto questo, ai suoi occhi era tutto così inutile. Ricordate quanto è ancora povero il nostro paese. Se volete onorare il nome di Lenin, costruite asili, scuole, scuole materne, biblioteche, centri medici, ospedali, case per disabili… E soprattutto mettete in pratica i suoi insegnamenti”.

Ma anche l’appello della vedova venne ignorato: la città di Pietrogrado fu ribattezzata Leningrado e i leader bolscevichi, e Stalin in particolare, decisero di giocare sempre più la carta del culto della personalità, come strumento ideologico per governare. La “fedeltà” al “bolscevismo/leninismo” divenne uno strumento di governo, per accreditarsi agli occhi della base sovietica e per screditare i “comunisti non ortodossi”. Il culto del leader morto fu usato per legittimare il culto del nuovo leader in carica: così, solo pochi mesi dopo, ad aprile del 1925, Volgograd fu ribattezzata Stalingrado.

E anche noi oggi dobbiamo rifuggire da ogni celebrazione apologetica di Lenin, non omettendo gli errori anche gravi che commise e che ebbero conseguenze gravissime, né ignorando come alcune delle sue scelte facilitarono obiettivamente la conquista del potere da parte di Stalin e dei suoi.

Nel movimento marxista si è molto discusso sulla questione della “dittatura del proletariato”. Occorre puntualizzare che all’epoca, sotto l’influsso dell’illuminismo (basta leggere gli scritti di Jean Jacques Rousseau e di tanti altri nei secoli diciottesimo e diciannovesimo), il termine “dittatura” non era usato come un sinonimo di tirannia o di dispotismo, ma assumeva come paradigma quell’istituto dell’antica repubblica di Roma con cui i consoli nominavano un plenipotenziario per un periodo limitato di tempo al fine di affrontare emergenze eccezionali.

E la situazione della Russia dopo l’ottobre del 1917 era effettivamente gravissima, quando tutti i leader occidentali, Winston Churchill in testa, lanciarono i loro eserciti in una sanguinosissima guerra di aggressione contro la Russia sovietica, mentre i movimenti operai rivoluzionari nel resto d’Europa, in Germania, in Ungheria, in Italia e in altri paesi, che Lenin sperava potessero rompere l’isolamento internazionale della rivoluzione russa, venivano sconfitti uno dopo l’altro.

Ma nel 1921, al Decimo Congresso del Partito comunista bolscevico russo, quando la guerra civile era stata sostanzialmente vinta, furono approvate, su proposta di Lenin, tutte le misure di eccezionalità contro le libertà e la democrazia, e furono perfino vietate (anche se “provvisoriamente”) tutte le correnti interne del partito.

Si può dire che, finita la guerra civile e dunque superate le circostanze “eccezionali” che avevano in qualche modo giustificato l’adozione di fortissime restrizioni alla democrazia, cominciò a pesare la limitatezza della base d’appoggio della rivoluzione, che aveva trionfato nelle grandi città come San Pietroburgo e Mosca, ma che non aveva raggiunto tanta parte della sterminata Russia. Era stata essenzialmente una rivoluzione urbana e proletaria che certamente non era riuscita a trascinare la maggior parte dei contadini che vivevano nei villaggi remoti del paese.

Il primo governo rivoluzionario guidato da Lenin si configurò come una dittatura del proletariato maggioritaria nei soviet ma minoritaria sia nella società nel suo complesso, sia nel movimento operaio nel suo insieme (è nota la lotta antibolscevica condotta ad esempio dal potente sindacato dei ferrovieri).

E il governo era minoritario, in particolare, nell’Assemblea Costituente, eletta poche settimane dopo la rivoluzione e immediatamente sciolta dal potere bolscevico, proprio perché affidava la maggioranza ai “socialisti rivoluzionari”, il partito “populista” contadino erede dei “terroristi” antizaristi del diciannovesimo secolo.

Ricordiamo la dura e profetica critica che Rosa Luxemburg, pur ammirata per il coraggio di Lenin e dei comunisti russi, fece allo scioglimento dell’Assemblea costituente, dicendo: “La libertà è sempre la libertà di coloro che la pensano diversamente… Senza elezioni generali, senza libertà illimitata di stampa e di riunione, senza una libera lotta di opinione, la vita appassisce in tutte le istituzioni pubbliche, vegeta, e la burocrazia rimane l’unico elemento attivo”.

Rosa Luxemburg aveva quindi ragione nella sua critica a Lenin per lo scioglimento dell’Assemblea Costituente, come avevano ragione l’Opposizione operaia di Alexandra Kollontaj quando difendeva l’indipendenza dei sindacati dallo stato e gli anarchici e i marxisti libertari quando criticavano il governo bolscevico per la cruenta repressione dell’insurrezione di Kronstadt, animata dai marinai della flotta, da migliaia di lavoratori anarchici, menscevichi, socialisti rivoluzionari e persino da dissidenti bolscevichi e per il soffocamento degli scioperi e delle manifestazioni che in molte città chiedevano rifornimenti e il ripristino della democrazia e del pluralismo nei soviet.

Tutte le misure autoritarie “eccezionali e provvisorie” adottate dal Decimo congresso furono infatti la base per l’ascesa al potere della fazione stalinista che le aggravò e le rese permanenti.

E tra i vari e gravi errori commessi da Lenin, infine, non dimentichiamo la subalternità sua e di tutto il movimento rivoluzionario dell’epoca al positivismo “sviluppista”, allora in grande auge. Ovviamente, tenendo conto della cultura dominante all’inizio del ventesimo secolo, questo errore è più scusabile, ma fu altrettanto gravido di pesanti deformazioni per lo stato sovietico: oggi, nel contesto della plateale crisi ecologica, la famosa frase di Lenin del 1920 secondo cui “Il socialismo è uguale ai soviet più l’elettrificazione” manifesta grottescamente l’insensibilità del movimento operaio di allora (e, più colpevolmente, anche di epoche molto più recenti) verso i “limiti dello sviluppo” e verso la necessità di ripensare alla radice il rapporto tra il genere umano e la natura.

Così Stalin, asceso al potere già durante la malattia terminale di Lenin, elaborò la teoria del “socialismo in un solo paese”, contraria ad ogni idea internazionalista. La democrazia operaia basata sui soviet si atrofizzò e scomparve, la creatività artistica che era fiorita dopo l’Ottobre del 1917 fu sostituita dal “realismo socialista”, la collettivizzazione forzata delle terre distrusse l’alleanza tra il proletariato urbano e la popolazione contadina, che era stata la forza della rivoluzione, il sostegno alle minoranze nazionali venne soffocato dal ritorno del centralismo “grande russo”. Emerse una nuova classe di burocrati, mentre il partito bolscevico divenne l’organizzazione dell’élite di privilegiati, preoccupata soprattutto di preservare i propri interessi.

Vladimir Il’ič Ul’janov era nato il 10 aprile 1870. Quando aveva 17 anni vide il fratello, attivista “populista”, impiccato per la sua attività antizarista. Si dice che questo episodio abbia determinato la vocazione rivoluzionaria del giovane Vladimir, che scoprì gli scritti di Karl Marx, si rese conto del funzionamento del capitalismo e della centralità strategica della classe lavoratrice nella costruzione di un processo rivoluzionario.

Nonostante la repressione, le deportazioni in Siberia, l’esilio, svolse un tenace lavoro di elaborazione politica (le sue opere complete riempiono 45 corposi volumi) ma anche una paziente attività per organizzare i marxisti russi, altrimenti frammentati in una miriade di comitati e di circoli; fondò una rivista (l’Iskra, la Scintilla), mantenne un’attiva e intensissima corrispondenza politica con tutti i suoi sostenitori.

A partire dal 1902, Lenin, con l’Iskra, conquistò un comitato dopo l’altro: quello di Nižnij Novgorod, poi quello di Saratov, l’Unione operaia del Nord, il comitato di Rostov, l’Unione operaia siberiana, l’Unione dei minatori della Russia meridionale, i comitati di Kazan e Ufa, di Tula, di Odessa, di Irkutsk, di Ekaterinoslav.

La sua capacità, la sua costanza e la sua perseveranza organizzativa lo distinguevano dagli altri intellettuali di spicco del marxismo russo e internazionale (PlechanovTrotskyMartovRosa Luxemburg), ed era indubbiamente sostenuto dall’apporto decisivo – mai sufficientemente riconosciuto – della moglie Krupskaja.

In un capitolo del suo La mia vita (1930), Trotsky racconta così: “Krupskaja era al centro di tutto il lavoro organizzativo, riceveva i compagni venuti da lontano, istruiva e accompagnava quelli che partivano, fissava i mezzi di comunicazione e i luoghi di incontro, scriveva le lettere, le criptava e le decifrava. Nella sua stanza c’era quasi sempre un odore di carta bruciata che proveniva dalle lettere segrete che lei riscaldava sulla stufa per leggerle. E spesso si lamentava, con la sua gentile insistenza, di non aver ricevuto abbastanza lettere, o che qualcuno aveva sbagliato il numero, o che qualcuno aveva scritto con l’inchiostro simpatico in modo tale che una riga scavalcava l’altra…”.

Soprattutto grazie al lavoro e al prestigio di Lenin, il Partito bolscevico passò da 4.000 membri a 250.000 prima della rivoluzione. La sua autorevolezza era riconosciuta anche dai concorrenti politici: il menscevico Aleksandr Nikolaevič Potresov scrisse: “Tutti noi stimavamo Lenin non solo per le sue conoscenze, il suo cervello e la sua capacità di lavoro, ma anche per la sua eccezionale devozione alla causa, la sua incessante disponibilità a darsi completamente, ad assumere i compiti più sgradevoli, e ad assolverli senza fallo con la più totale coscienziosità”. Maksim Gor’kij lo descrisse come “poco esigente, totalmente astemio, non fumatore, impegnato dalla mattina alla sera in lavori complicati e difficili, completamente incapace di prendersi cura di sé”.

Con la rivoluzione, già dai primi giorni dopo la conquista del potere il nuovo governo bolscevico introdusse riforme radicali: il controllo operaio delle fabbriche, l’abolizione della proprietà privata della terra, l’indipendenza per le nazioni oppresse dalla Russia zarista (è noto come Putin attribuisca a Lenin la colpa di aver “creato” l’Ucraina), e un trattato di pace con la Germania, un vero e proprio esempio di pace unilaterale.

Il sistema giudiziario fu completamente riformato con l’istituzione di tribunali elettivi. Furono prese misure per combattere le discriminazioni contro le donne, contro gli omosessuali, per parificare i bambini “illegittimi” a quelli “legittimi”. Fu messa in atto una vasta politica educativa e culturale che trasformò la Russia rivoluzionaria in un focolaio di innovazione e di sperimentazione in ogni campo.

Contrariamente a quello che si pensa, l’autorevolezza di Lenin si basava anche su un profondo rispetto del pluralismo all’interno del partito e a livello politico complessivo. La direzione del partito era spesso divisa sulle opzioni da adottare e persino in correnti consolidate e Lenin instancabilmente sceglieva di discutere e di argomentare per convincere i suoi compagni.

Non considerava nessun compito indegno di lui e passava molto tempo a sistemare dettagli amministrativi che apparivano irrilevanti agli altri dirigenti. Non cercò alcun vantaggio per sé stesso e rifiutò la decisione del governo (il Consiglio dei Commissari del Popolo) che, nel 1918, aveva deciso di aumentargli lo stipendio, che era pari a quello di un operaio qualificato.

Anche il carattere sanguinoso della rivoluzione d’ottobre va nettamente smentito o almeno fortemente ridimensionato. Un giornalista liberale americano, Stuart Chase, nel giugno 1919, pubblicò sulla rivista The New Republic, ancora esistente, un confronto statistico tra il numero delle vittime della rivoluzione nella sterminata Russia tra il novembre 1917 e il novembre 1918 e quello della controrivoluzione nella piccola Finlandia nel 1918: in Russia morirono 3.800 persone (escluse quelle della guerra civile scatenata dagli stati occidentali) e nel caso finlandese quasi 90.000 di cui 16.500 nel giro di tre giorni, uccise nel nome del ripristino della “democrazia”. Il giornalista liberale, con molta obiettività scrisse: “il governo finlandese fu infinitamente più terrorista di quello russo”.

A partire dal 1922, Lenin, stremato dal lavoro, colpito dall’ictus, gravemente impossibilitato a continuare a svolgere la propria attività, trepidava, allarmato dallo sviluppo della burocrazia nel partito e nelle istituzioni del paese. Così ingaggiò la sua ultima battaglia contro la burocrazia in ascesa. Vedeva rimedi solo in una paziente lotta per un’autentica democrazia operaia e per l’introduzione di un maggior numero di lavoratori nella macchina statale.

Lenin si concentrò anche su chi dovesse succedergli come principale leader della giovane Unione Sovietica. Scrisse un piccolo documento, noto come “Testamento”, in cui passava in rassegna i principali leader del partito bolscevico. In quel testo critica i tutti possibili eredi, ma riserva le sue frecciate più taglienti proprio a Stalin. Un mese dopo la sua morte, di quel documento fu data lettura ai delegati del XIII Congresso che si tenne alla fine del maggio 1924. Il congresso decise all’unanimità di non pubblicarlo. Venne reso pubblico solo nel 1956, al momento della destalinizzazione krusceviana in un opuscolo che ebbe una grandissima diffusione.

Della crescita del potere della burocrazia del partito e dello stato si resero rapidamente conto numerosi dirigenti boscevichi. È nota la lettera del 1928 di Christian Georgievič Rakovskij (poi pubblicata con il titolo I pericoli professionali del potere). Ma vale la pena di sottolineare come le diverse analisi di Lenin e di Trotsky sul fenomeno divergevano su un punto fondamentale: mentre Lenin riteneva che la burocratizzazione fosse un residuo dello zarismo e del suo apparato statale che riaffiorava e tornava a rafforzarsi agevolato dalle difficoltà della rivoluzione, Trotsky sosteneva che la burocrazia costituisse un fenomeno “nuovo” nato all’interno dello stesso Partito comunista e che incarnasse la reazione di una parte di esso che rischiava di soffocare definitivamente la rivoluzione. Cosa che puntualmente accadde.

Infine, per descrivere meglio il personaggio Lenin, utilizziamo un testimone illustre, il filosofo inglese Bertrand Russell che visitò la Russia sovietica nel 1920 e che così racconta:

“Poco dopo il mio arrivo a Mosca, ebbi un’ora di conversazione con Lenin in inglese, una lingua che lui parla abbastanza bene. Era presente un interprete, ma non abbiamo quasi mai avuto bisogno dei suoi servizi. Lo studio di Lenin è molto spoglio; contiene una grande scrivania, alcune carte geografiche appese alle pareti, due librerie e due o tre sedie rigide, oltre a una comoda poltrona per chi viene a trovarlo. È chiaro che non gli interessa il lusso e nemmeno il comfort. È molto accogliente e semplice nell’aspetto, senza la minima traccia di formalità. Se lo si vedesse senza sapere chi è, non si sospetterebbe che possiede un potere immenso, e nemmeno che abbia compiti fuori dell’ordinario. Non ho mai visto una persona così poco disposta a darsi un’aria di importanza. Fissa su di voi uno sguardo scrutatore, chiudendo un occhio, che sembra accentuare in modo allarmante il potere penetrante dell’altro. Gli piace ridere; all’inizio la sua risata sembra semplicemente amichevole e allegra, poi, a poco a poco, l’ho trovata un po’ sardonica. Dittatoriale e calmo, non conosce la paura. È un personaggio straordinariamente altruista, una teoria fatta uomo. Si percepisce che ha a cuore la concezione materialista della storia come le pupille dei suoi occhi. Ricorda un professore nel suo desiderio di farvi capire ciò che pensa. Ho avuto l’impressione che disprezzi molte persone e che sia un po’ aristocratico intellettualmente” (The Practice and Theory of Bolshevism, London, George Allen & Unwin).

*articolo apparso su  MicroMega+

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