Lo scorso 20 dicembre i ministri delle finanze dell’Unione europea hanno finalmente trovato un accordo sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), a sua volta fondato sul compromesso raggiunto il giorno prima tra il ministro delle finanze tedesco, il falco liberale Christian Lindner, e l’omologo francese, il liberale macroniano Bruno Le Maire. Come noto, la riforma consiste nella revisione dei due Regolamenti del Consiglio, il primo, Reg. (CE) n. 1466/97, che rappresenta il cosiddetto braccio preventivo, ovvero la procedura di sorveglianza e coordinamento delle politiche di bilancio, e il secondo, Reg. (CE) n. 1467/97, che rappresenta il cosiddetto braccio correttivo, ovvero la Procedura per i disavanzi eccessivi (PDE), introdotti nel 1997 ma, a loro volta, già revisionati due volte, nel 2005 e nel 2011, e la Direttiva 2011/85/EU, introdotta nel 2011, sui requisiti per i quadri di bilancio dell’Unione. Il braccio preventivo è fondato sull’articolo 121 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), per il quale è prevista la procedura legislativa ordinaria, ovvero l’approvazione sia del Consiglio con maggioranza qualificata sia del Parlamento europeo con maggioranza semplice. Viceversa, il braccio correttivo e la Direttiva si fondano sull’articolo 126 del Trattato, per il quale è prevista la procedura legislativa speciale, ovvero la delibera all’unanimità del Consiglio, nel caso del braccio correttivo, e a maggioranza qualificata, nel caso della Direttiva, previa consultazione del Parlamento europeo e della Banca centrale europea. A questo punto la palla passa al Parlamento europeo che dovrà approvare la revisione del Regolamento 1466/97 per chiudere definitivamente la partita della riforma del PSC. La storia della riforma del Patto è piuttosto lunga, ma vale la pena ripercorrerla sia perché ci aiuta a capire meglio il punto di approdo sia perché ci restituisce la complessità della vicenda e delle contrapposte posizioni tra gli Stati membri.
Il Patto era stato sospeso a seguito dello shock pandemico attraverso l’attivazione della cosiddetta clausola di salvaguardia generale (general escape clause), prevista in entrambi i Regolamenti, in vigore sino al 31 dicembre 2023. Pertanto, qualora non fosse stata approvata alcuna riforma, nel 2024 si sarebbero dovute applicare nuovamente le regole del previgente Patto. La riforma era, dunque, necessaria al fine di evitare il ritorno delle vecchie regole, ma soprattutto era auspicata per scongiurarne i principali difetti, meritevoli di revisione da parte della burocrazia europea, anche alla luce degli insegnamenti della crisi pandemica e climatica, nonché degli strumenti innovativi introdotti come il Recovery and Resilience Facility (RRF). Il 9 novembre 2022 la Commissione europea ha pubblicato la Comunicazione sugli orientamenti per una riforma del quadro di governance dell’UE con le linee generali della riforma del PSC. A seguito dell’ampio dibattito che si è svolto nei mesi successivi, gli Stati membri hanno raggiunto un accordo su alcuni elementi degli orientamenti di riforma, adottati nelle conclusioni Ecofin del 14 marzo 2023 e dell’Eurogruppo del 23 marzo. Anche alla luce di questi orientamenti, la Commissione europea ha quindi presentato il 26 aprile scorso le proposte legislative di riforma dei due Regolamenti e della Direttiva. Tali proposte sono state successivamente riviste nei nuovi documenti licenziati dal Consiglio prima l’8 dicembre e poi, definitivamente, lo scorso 20 dicembre. Nella nostra analisi ci soffermeremo, quindi, sui testi della proposta originaria della Commissione del 26 aprile scorso e delle prime revisioni del Consiglio dell’8 dicembre, nonché sulla ulteriore revisione testuale raggiunta lo scorso 20 dicembre.
In principio fu la proposta della Commissione europea: meno e certo è meglio di tanto e incerto
I principi ispiratori della riforma della Commissione erano cinque e, sin dall’inizio, dalle conseguenze piuttosto rilevanti: una programmazione pluriennale e a medio termine e non secondo l’orizzonte annuale; il rafforzamento delle procedure per deficit eccessivo basate sul debito, con regole e sanzioni meno ambiziose ma più stringenti e credibili; un’adeguata differenziazione degli sforzi di consolidamento di bilancio in base alle condizioni macroeconomiche e di finanza pubblica di ciascun paese; una semplificazione generale delle regole, meno pro-cicliche e soprattutto fondate su un indicatore unico, chiaro e facilmente valutabile; la garanzia di maggiori incentivi agli investimenti pubblici, per la transizione gemella digitale ed ecologica e per la difesa. Sulla base dell’insegnamento duplice, sia dell’impatto della crisi pandemica sulle finanze pubbliche sia della crescente difficoltà nell’applicazione dell’austerità secondo le vecchie regole, lo scopo era, in ultima analisi, altrettanto duplice. Da un lato, si mostrava preferibile un’austerità meno severa ma maggiormente credibile e concretamente realizzabile, soprattutto monitorabile e vestita su misura per ciascuno Stato membro; dall’altro lato, si subordinava definitivamente la flessibilità in materia di investimenti pubblici alle riforme strutturali, secondo le raccomandazioni della Commissione europea specifiche per ciascun paese membro, ovvero la logica sottostante al PNRR degli investimenti in cambio delle riforme, che permea la maggiore condizionalità di tutta l’impalcatura del RRF.
Le proposte legislative della Commissione confermano i valori di riferimento del 3 per cento del PIL per l’indebitamento netto e del 60 per cento per il debito pubblico, così come previsto negli allegati al Trattato. Si tratta di parametri idioti in quanto palesemente irrealistici. Con una semplice condizione di equilibrio si ricava, infatti, che tali parametri sarebbero coerenti tra loro soltanto con una crescita nominale del PIL pari al 5,26 per cento, ovvero una crescita reale del PIL oltre il 3 per cento nel caso di un’inflazione del 2 per cento. Ciò nonostante, soltanto una modifica dei Protocolli allegati al Trattato può consentire l’eliminazione di questi parametri, per i quali non sarebbe sufficiente la revisione dei due Regolamenti del PSC. Tuttavia, già con le revisioni precedenti del PSC, tali parametri rappresentano ormai soltanto una soglia, mentre gli obiettivi veri e propri sono costituiti dall’Obiettivo di medio termine (OMT) per ciascuno Stato membro, espresso in termini di saldo strutturale di bilancio, ovvero del saldo di bilancio al netto delle componenti del ciclo economico e delle misure una tantum e temporanee. Secondo il Codice di condotta, il calcolo dell’OMT per ciascun paese si basa sul più stringente di tre valori alternativi, di cui solitamente quello più ambizioso è dato dal valore minimo del saldo di bilancio strutturale che assicura la sostenibilità del debito, tenendo conto del livello del debito, nonché delle passività implicite legate soprattutto all’invecchiamento della popolazione. Per l’Italia l’OMT è stato sempre pari al pareggio di bilancio strutturale, ma recentemente, in virtù del peggioramento dei costi di invecchiamento, è stato aggiornato prima all’avanzo strutturale dello 0,5 per cento e poi, a partire dal 2023, all’avanzo strutturale dello 0,25 per cento. L’OMT è, pertanto, attraverso la legge costituzionale 1/2012 e la legge attuativa 243/2012, l’obiettivo concreto cui si fa riferimento per l’equilibrio tra le entrate e le spese definito nell’articolo 81 della Costituzione e consiste in un avanzo strutturale, quindi anche oltre il pareggio di bilancio strutturale.
La proposta della Commissione interviene a modificare questi obiettivi sia nel braccio preventivo sia nel braccio correttivo. Dal punto di vista del braccio preventivo, viene eliminato il criterio di convergenza all’OMT, il quale si basava su una matrice bidimensionale, che variava a seconda sia delle condizioni macroeconomiche definite dall’output gap, ovvero dalla differenza tra il PIL effettivo e il PIL potenziale nel caso di pieno utilizzo dei fattori produttivi, sia dalle condizioni del debito pubblico sopra o sotto la soglia del 60 per cento rispetto al PIL. Tale matrice prevedeva un aggiustamento del saldo strutturale di bilancio che variava, per ciascuna cella, in un range da zero, nel caso di condizioni macroeconomiche molto negative, a oltre l’1 per cento annuo, nel caso di condizioni macroeconomiche positive e debito superiore al 60 per cento del PIL. Dal punto di vista del braccio correttivo, viene eliminato il criterio di riduzione del debito pubblico per la quota eccedente il limite del 60 per cento nella misura media annua di un ventesimo, secondo tre formule alternative ma opzionabili tra loro. Per l’Italia, quest’ultimo criterio sarebbe stato pari a circa il 4 per cento di riduzione annua del debito pubblico, ovvero a un ventesimo della differenza tra il 140 per cento e il 60 per cento, circa 80 miliardi all’anno.
Nel braccio preventivo al posto della convergenza all’OMT si prevede una traiettoria tecnica della durata minima di quattro anni, ulteriormente estendibile a sette anni, in grado di consentire un aggiustamento minimo di bilancio che permetta di portare il debito pubblico su un percorso plausibilmente discendente o di mantenerlo a un livello prudente nei dieci anni successivi alla fine del periodo di aggiustamento, nell’ipotesi di politiche invariate. La valutazione della plausibilità del percorso di riduzione del debito utilizza una serie di stress test in linea con la metodologia già utilizzata nel Debt Sustainability Analysis (DSA) e pubblicata nel Debt Sustainability Monitor (DSM) della Commissione europea. Obiettivo dei test è quello di valutare la robustezza dei risultato utilizzando ipotesi alternative sui tassi d’interesse, sulla crescita del PIL reale, sul saldo primario di bilancio più sfavorevole rispetto alle proiezioni di base, nonché su un’analisi stocastica che tenga conto dell’incertezza sulle previsioni delle medesime variabili. La classificazione degli Stati membri in tre fasce a seconda della gravità del debito pubblico, presente nella DSA e nella versione originaria, è stata poi eliminata in zona cesarini.
Sulla base degli orientamenti espressi dagli Stati membri, già nella proposta di aprile erano contenute delle ulteriori salvaguardie comuni per garantire e rinforzare la sostenibilità del debito. In primo luogo, il rapporto tra debito pubblico e PIL risultante alla fine del periodo di aggiustamento deve essere inferiore al livello dell’anno precedente all’inizio della traiettoria; inoltre, fintanto che il disavanzo rimane al di sopra del 3 per cento del PIL, le traiettorie dovranno prevedere un aggiustamento minimo di bilancio annuo dello 0,5 per cento del PIL, in linea con quanto già previsto nel braccio correttivo; infine, nel caso di un aggiustamento in sette anni, la traiettoria deve realizzare la maggior parte dell’aggiustamento nei primi quattro anni. Occorre ricordare che l’estensione a sette anni, con un percorso più graduale di aggiustamento di bilancio, viene concesso a condizione che gli Stati membri si impegnino a conseguire un programma di riforme strutturali e investimenti, coerenti con le Raccomandazioni-paese della Commissione europea, secondo la logica già sperimentata con il PNRR. Nel caso dell’Italia, le Raccomandazioni-paese prevedono riforme strutturali in grado di rimuovere i due squilibri macroeconomici eccessivi, ovvero l’alto debito pubblico e la bassa competitività. Tra le riforme strutturali di impronta fortemente liberista, la premessa all’articolato dei nuovi Regolamenti si sofferma sul fisco, secondo il principio dello spostamento del carico fiscale dalle imposte dirette alle imposte indirette, sul mercato del lavoro, sulle pensioni, sulla concorrenza dei servizi pubblici locali e sulla pubblica amministrazione.
Anche l’indicatore di riferimento della traiettoria viene modificato rispetto allo scenario previgente e, al posto del saldo di bilancio strutturale, si focalizza l’attenzione unicamente sulla spesa primaria, al netto delle spese cicliche per la disoccupazione, delle spese di cofinanziamento di programmi dell’Unione e delle entrate discrezionali. In questo caso, la volontà del legislatore europeo è quella di rimuovere la pro-ciclicità dei vecchi indicatori. Il saldo strutturale di bilancio avrebbe, infatti, dovuto tener conto della componente ciclica di bilancio. Tuttavia, il calcolo della componente ciclica si basa sulla stima dell’elasticità delle entrate e della spesa pubblica all’output gap; a sua volta, l’output gap dipende sensitivamente dalla stima del PIL potenziale. È stato, quindi, più volte rimarcato che la stima errata del PIL potenziale da parte della Commissione europea conduceva a politiche di bilancio pro-cicliche. L’aumento della disoccupazione riduceva erroneamente la stima del PIL potenziale; la riduzione del PIL potenziale non consentiva un adeguato peggioramento dell’output gap; la componente ciclica del saldo di bilancio risultava continuamente sottostimata rispetto alla realtà. Al tempo stesso, occorre osservare che il nuovo indicatore, sebbene in grado di tener conto delle spese cicliche dovute alla disoccupazione, esplicitamente non considera le entrate cicliche o le altre spese cicliche di tipo residuale. Il miglioramento è, quindi, soltanto apparente e circoscritto. Per esempio, il peggioramento delle entrate fiscali derivanti dal peggioramento del ciclo economico contribuisce a peggiorare gli obiettivi nell’indicatore di riferimento, a differenza di quanto avveniva in precedenza. In definitiva, il percorso di aggiustamento della traiettoria tecnica si concretizza nella riduzione annua della spesa primaria netta. Quest’ultima riduzione è possibile soltanto in due modi: o attraverso una riduzione della spesa pubblica al netto di quella per la disoccupazione; ovvero attraverso un aumento delle entrate discrezionali, per esempio per mezzo di un incremento delle aliquote legali. A ciò vale la pena di aggiungere che, tra le salvaguardie comuni già introdotte ad aprile, v’è la condizione che la spesa primaria netta non possa crescere più del tasso di crescita del PIL potenziale, facendo rientrare dalla finestra ciò che si era cacciato via dalla porta. Purtroppo, non sembra affatto, in ultima analisi, che vi sia stata una grande riforma in grado di contrastare quella perversa austerità discrezionalmente pro-ciclica. Per quanto concerne poi la presunta semplificazione e trasparenza delle regole, lo spostamento del focus dall’output gap alla DSA non sembra proprio andare in quella direzione.
Un confronto con le regole precedenti del PSC
Prima di addentrarci sulle ulteriori revisioni, è utile, a questo proposito, tentare un confronto tra il percorso di aggiustamento previsto dalle regole del PSC previgente e quello coerente con le proposte legislative della Commissione basate sulla DSA. Nell’ipotesi di politiche invariate a partire dal 2025 il debito pubblico italiano raggiungerebbe nel 2041 il 171 per cento nello scenario base e il 181 per cento nello scenario sfavorevole, con riduzione del PIL potenziale. L’aggiustamento in quattro anni coerente con la DSA consente di ridurre il debito pubblico al 113,5 per cento nello scenario base e al 115,2 per cento nello scenario sfavorevole; viceversa, l’aggiustamento in sette anni consente una riduzione del debito pubblico rispettivamente al 116 per cento e al 120 per cento. Rispetto al 2024 si avrebbe una riduzione di poco più di 26 punti percentuali nel primo caso e di circa 24 punti percentuali nel secondo caso, con una riduzione media annua pari a 1,5 e 1,4 punti percentuali. L’indebitamento netto dovrebbe raggiungere l’1,7 o il 2 per cento alla fine del periodo di aggiustamento nello scenario base. Per il triennio 2024-26, il quadro programmatico della NADEF sarebbe compatibile con le proposte della Commissione europea solo nel caso di un aggiustamento di bilancio in sette anni.
Il confronto con le regole previgenti va svolto considerando la sola regola della convergenza all’OMT. Non è corretto, altresì, il confronto con la regola di riduzione del debito in eccesso di un ventesimo all’anno, in quanto il rispetto del criterio di convergenza all’OMT è stato considerato dalla Commissione europea un fattore mitigante che può giustificare la mancata apertura della Procedura per disavanzo eccessivo (PDE). Nello scenario di convergenza all’OMT sia il saldo di bilancio sia il saldo primario rimangono in una posizione intermedia tra le due traiettorie tecniche, in quattro e sette anni, all’inizio dell’orizzonte di previsione per poi collocarsi su valori più elevati. Anche la riduzione del debito pubblico si collocherebbe in una posizione intermedia sino al 2034 per poi scendere maggiormente sino al 100 per cento nello scenario base. In conclusione, la proposta legislativa basata sulla DSA consente una riduzione dell’austerità nel breve e medio periodo soltanto rispetto alla traiettoria tecnica programmata in sette anni, ma non rispetto alla programmazione in quattro anni; nel medio periodo la differenza nel saldo primario sarebbe di un’austerità inferiore a poco meno di 0,5 punti percentuali rispetto alle regole previgenti nel caso di sette anni e superiore a poco più di 0,5 punti percentuali nel caso di quattro anni; nel lungo periodo, invece, l’avanzo primario converge nelle regole previgenti al 3,7 per cento, mentre nelle traiettorie tecniche a quattro e sette anni convergerebbe rispettivamente a poco più e a poco meno del 2 per cento, con una significativa riduzione dell’austerità di bilancio. In conclusione, la riduzione in termini di austerità è circoscritta al lungo periodo e, nel breve e medio periodo, è estremamente ridotta e perdipiù subordinata alla programmazione in sette anni, nonché condizionata al perseguimento delle riforme strutturali imposte dalla Commissione europea.
Le revisioni del Consiglio: regole vs discrezionalità
La proposta della Commissione europea è stata criticata su due fronti contrapposti. I paesi frugali, con in testa la Germania, hanno intravisto una eccessiva discrezionalità a favore della Commissione attraverso la stima delle traiettorie tecniche e hanno spinto per la riproposizione di regole fisse e quantitative minime in grado di garantire il perseguimento della riduzione del debito pubblico. Al contrario, i paesi mediterranei, Italia e Francia in testa, hanno intravisto nella eccessiva discrezionalità affidata alla Commissione europea il pericolo di una perdita della cosiddetta titolarità nazionale delle politiche di bilancio. Alla fine si è approdati, quindi, alla reintroduzione di requisiti quantitativi da affiancare alle traiettorie tecniche della Commissione, sebbene in cambio di alcune parziali concessioni alle richieste dell’Italia e della Francia.
Tra le modifiche introdotte nei testi dell’8 dicembre scorso, occorre, quindi, soffermarsi sull’aggiunta dell’articolo 6bis e 6ter alla revisione del Regolamento 1466/97. L’articolo 6 viene parzialmente modificato ma conserva il requisito della DSA e delle traiettorie tecniche. Tuttavia, accanto a questo requisito, si aggiunge la salvaguardia sulla sostenibilità del debito nell’articolo 6bis e la salvaguardia sulla resilienza del deficit nell’articolo 6ter. La prima salvaguardia sul debito prevede, per i paesi con debito pubblico superiore al 90 per cento, la riduzione media annua di almeno un punto percentuale, e, per i paesi con debito pubblico tra il 60 e il 90 per cento, di almeno 0,5 punti percentuali. La seconda salvaguardia sul deficit prevede il raggiungimento, al di sotto della soglia del 3 per cento, di un deficit strutturale pari all’1,5 per cento del PIL nel caso di paesi con debito pubblico che eccede il 90 per cento del PIL. Inoltre, si prevede che l’aggiustamento nel saldo primario strutturale sia pari ad almeno lo 0,3 per cento del PIL all’anno, nel caso di un periodo di quattro anni, e dello 0,2 per cento, nel caso di un periodo di sette anni. Infine, nell’articolo 2 della revisione del Regolamento 1467/97, si prevede l’apertura di una PDE nel caso di uno scostamento rispetto ai requisiti pari a 0,5 punti percentuali annui o 0,75 punti percentuali cumulati.
La salvaguardia sul debito sostituisce definitivamente la regola di riduzione del debito in eccesso pari a un ventesimo l’anno. Si tratta di una riduzione notevole, per l’Italia dal 4 per cento annuo all’1 per cento, ma soltanto formale, in quanto, come già sottolineato in precedenza, il rispetto del criterio di convergenza all’OMT aveva già consentito agli Stati membri di scongiurare la procedura per debito eccessivo. Inoltre, come evidenziato sopra, le traiettorie tecniche già prevedevano una riduzione media annua del debito pubblico superiore all’1 per cento. Per quanto concerne le salvaguardie sul deficit, nei fatti queste sostituiscono il target dell’OMT. Per l’Italia si tratta di una riduzione notevole, dall’avanzo strutturale dello 0,25 per cento al disavanzo strutturale dell’1,5 per cento, con una riduzione dell’austerità di 1,75 punti percentuali in termini strutturali. Tale revisione è, coerentemente, integrata nel Fiscal Compact e, per mezzo della legge attuativa rinforzata 243/2012, previa opportune e probabili revisioni, interpretata nell’articolo 81 della Costituzione. Tuttavia, come mostrato in precedenza, tale riduzione si ripercuote soprattutto nel lungo periodo, mentre nel breve e medio periodo il percorso di aggiustamento risulta ancora profondamente contrassegnato da una consistente dose di austerità fiscale. Al tempo stesso, il ripristino di salvaguardie fondate sul saldo primario strutturale affossa di nuovo tutti i presunti buoni propositi sbandierati contro la pro-ciclicità delle politiche di bilancio. Alla faccia della coerenza, tutte le stime fasulle del PIL potenziale e della componente ciclica del saldo di bilancio faranno di nuovo capolino nel coordinamento delle finanze pubbliche.
Veniamo allora all’ultimo accordo raggiunto lo scorso 20 dicembre, sotto la pressione delle posizioni tedesche. Nel braccio preventivo si rafforza ulteriormente il percorso di aggiustamento basato sulle salvaguardie sul deficit, che passano ad un minimo dello 0,4 per cento nel caso di un orizzonte di quattro anni e dello 0,25 per cento nel caso di un orizzonte di sette anni. Nel braccio correttivo, inoltre, si riduce anche lo scostamento di tipo significativo a 0,3 punti percentuali annui e 0,6 punti percentuali cumulati per l’avvio, se non automatico certamente meno lassista di quanto avvenuto in passato, della PDE. Resta, inoltre, il combinato testuale degli articoli 6, 6bis e 6ter, per quanto concerne il braccio preventivo, ovvero il prevalere del più stringente degli aggiustamenti tra la discrezionalità tecnica della DSA, la regola di salvaguardia sul debito e le regole di salvaguardia sul deficit.
L’Italia e la Francia, per le quali persisterà un disavanzo superiore alla soglia del 3 per cento, entreranno nella prossima primavera in PDE e quindi saranno soggette al braccio correttivo. La loro richiesta si è, quindi, focalizzata sulla riduzione del percorso di correzione previsto nel braccio correttivo, che era inizialmente rimasto fermo alla riduzione annua di 0,5 punti percentuali del saldo strutturale di bilancio. Alla fine si è ottenuto di tener conto dell’aumento della spesa per interessi nella riduzione annua prevista nel braccio correttivo per il solo primo triennio di applicazione delle nuove regole, anche se non risulta ancora chiara la modalità concreta con la quale avverrà tale scorporo. Occorre anche menzionare che, già nel testo dell’8 dicembre, tra i fattori rilevanti elencati nell’articolo 2 del braccio correttivo di cui tener conto nel percorso di correzione del disavanzo, erano stati introdotti non solo i progressi nell’implementazione delle riforme e degli investimenti sostenuti dal RRF, ma soprattutto l’aumento degli investimenti pubblici nella difesa. In quest’ultimo caso, la richiesta esplicita era quella di introdurre una golden rule sulle spese militari, ovvero di non considerare tali spese nel disavanzo pubblico. Se ne dovrà tener conto in qualche modo, ma sembra esclusa l’introduzione di una vera e propria golden rule sulla difesa, come era invece auspicato da Francia e Italia. Per il governo italiano è stata probabilmente scongiurata la necessità di una manovra correttiva, anche se restano in ogni caso da trovare oltre 15 miliardi di riduzione Irpef e del cuneo contributivo che, al momento, risultano coperti, in disavanzo, solo per il 2024. Resta ferma una concezione miope del governo italiano, concentrata esclusivamente sull’applicazione delle nuove regole durante la propria durata di vita, lasciando ai posteri i dolori dell’austerità più severa.
Il principio generale della riforma è comunque quello che un’austerità minore ma maggiormente raggiungibile è preferibile a un’austerità maggiore ma concretamente irraggiungibile. Meno e certo è meglio di tanto ma incerto. Inoltre, il ritorno dell’austerità coincide anche col ritorno della questione apparentemente insormontabile dell’accumulazione del debito pubblico. Secondo gli insegnamenti basilari della critica dell’economia politica, il sistema del debito è strutturalmente funzionale al modo di produzione capitalista in crisi da eccesso di sovrapproduzione. Da un lato, debito privato e debito pubblico corrispondono all’accumulazione dei prestiti della classe borghese alla classe lavoratrice per fronteggiare la violenta interruzione del processo di circolazione del capitale, senza rischiare coll’aumento del costo del lavoro e del sistema di tassazione di ottundere troppo il processo di accumulazione del capitale; dall’altro lato, il sistema del credito diviene dominante rispetto all’autofinanziamento nel processo di circolazione del capitale monetario nell’era del capitalismo stagnante contrassegnato dalla crisi della profittabilità reale e dall’eccesso di sovrapproduzione.
La mistificazione borghese del debito
Al tempo stesso, l’aumento del debito è soltanto un lato della medaglia. Come la salita è una discesa da un altro punto di vista, così allo stesso modo il debito è un credito da un altro punto di vista. All’accumulazione di un debito da un lato corrisponde sempre l’accumulazione di un credito da un altro lato. L’aumento del deficit pubblico può essere finanziato o per mezzo di un incremento del risparmio privato, ovvero per mezzo di un incremento del deficit estero. Nel primo caso all’accumulazione del debito pubblico da parte della classe lavoratrice corrisponde un aumento del credito privato della classe borghese; nel secondo caso all’accumulazione del debito pubblico della classe lavoratrice e, in misura minore, della classe borghese domestica, debitrice e dominata, corrisponde l’accumulazione del credito privato della classe borghese non residente, creditrice e imperialista. Non è possibile, quindi, analizzare la dialettica e la dinamica del debito prescindendo dalla dialettica e dalla dinamica delle classi sociali e dalla duplice contraddizione tra il capitale e il lavoro e, contemporaneamente, nell’ambito della molteplicità dei capitali in competizione tra loro.
Sotto questa prospettiva, il rapporto del debito con il PIL, sebbene indicativo dello stress finanziario, è comunque foriero di errori e mistificazioni. Si tratta di un indicatore viziato da un numeratore di stock e un denominatore di flusso. Pertanto, da un lato, ogni oscillazione delle grandezze di flusso implica variazioni grossolane e insignificanti dell’indicatore di riferimento, come per esempio avvenuto durante lo shock pandemico, quando l’incremento del debito pubblico fu certamente consistente ma non nelle dimensioni mistificate nel rapporto con il PIL. Dall’altro lato, si perde sempre completamente la traccia delle corrispondenti grandezze di stock, ovvero del patrimonio accumulato in termini di attività finanziarie e reali. In quest’ultimo caso, le mistificazioni possono essere sia di sopravvalutazione dei problemi finanziari, ma anche di sottovalutazione degli stessi. Per esempio, con lo shock pandemico dal 2019 al 2020, le passività finanziarie delle famiglie italiane crebbero improvvisamente dal 53,6 per cento al 58,2 per cento del PIL; in realtà, in rapporto alla ricchezza lorda, queste scesero dall’8,81 per cento all’8,72 per cento. All’accumulazione delle passività finanziarie da un lato corrispose comunque un incremento dall’altro lato della ricchezza finanziaria netta. Allo stesso modo, le passività finanziarie delle famiglie in rapporto al PIL dal 2005 al 2021 sono cresciute soltanto dal 51,7 per cento al 55 per cento; viceversa, in rapporto alla ricchezza lorda, queste sono cresciute in misura più preoccupante dal 7,42 per cento all’8,77 per cento, in virtù di una riduzione della ricchezza netta in rapporto al PIL da 6,45 volte a 5,72 volte. Medesime valutazioni analitiche dovrebbero essere condotte nello studiare la dinamica della ricchezza degli altri settori istituzionali, ovvero non solo delle società non finanziarie e delle società finanziarie, ma anche delle stesse amministrazioni pubbliche.
Per questa ragione, i tedeschi obiettano ripetutamente agli italiani la necessità di una imposta di tipo patrimoniale per la riduzione della consistenza del debito pubblico, non avendo, per loro parte, gli stessi rilevanti moltiplicatori della ricchezza netta in rapporto al PIL che, sebbene in notevole riduzione, si registrano ancora in Italia. Per quanto imputata dalla Germania per meri interessi imperialistici, la questione dell’imposta patrimoniale è scientemente posta fuori dal dibattito dalla borghesia domestica. Il risultato è che ormai quasi 100 miliardi di spesa per interessi finisce ogni anno per essere pagata con le tasche della classe lavoratrice, per mezzo dell’austerità, fatta di tagli alla spesa sociale e di privatizzazioni di quel che resta del patrimonio pubblico, a partire dalla rete in fibra ottica per arrivare persino alle Poste italiane. Questa è la fine triste e ingloriosa del sovranismo de noantri alla caccia di circa 20 miliardi di introiti dalle privatizzazioni, a favore di fondi americani e australiani, per conseguire una comunque blanda riduzione della consistenza del debito pubblico.
Dalla prospettiva della classe borghese, la riduzione del debito pubblico in rapporto al PIL può essere ottenuta in due modi: per mezzo della riduzione dell’effetto valanga o palla di neve, ovvero la differenza tra il tasso di crescita del costo del debito e il tasso di crescita del PIL nominale; per mezzo dell’accumulo di avanzi primari cospicui, ovvero della differenza tra le entrate e le uscite al netto della spesa per interessi. Il proposito della riforma è quello di agire su ambedue i lati, alla stessa stregua di quanto avvenne in Italia e in Belgio durante la stagione della seconda metà degli anni Novanta. Tutta la logica dell’austerità e delle riforme strutturali è quindi orientata in tal senso: al ripristino della reputazione sul costo del debito, al recupero della competitività per la crescita del PIL potenziale, alla riduzione della spesa pubblica e delle aspettative di tassazione per l’accumulo di avanzi primari positivi. Viceversa, dal punto di vista della classe lavoratrice, la riduzione del debito pubblico deve essere ottenuta scaricando i costi sul patrimonio della classe borghese in un modo altrettanto duplice: innanzitutto, attraverso l’aumento della tassazione sul reddito e sul patrimonio della classe borghese; in secondo luogo, attraverso la cancellazione selettiva del debito pubblico in grado di salvaguardare il risparmio della classe lavoratrice e dei ceti popolari e meno abbienti. Quest’ultimo scenario non può, a sua volta, prescindere dalla necessità della ristrutturazione del debito pubblico per mezzo della socializzazione e ricapitalizzazione pubblica delle banche e degli istituti finanziari e monetari detentori dei titoli pubblici.
L’alternativa ecosocialista della classe lavoratrice
La famigerata narrazione sulla riforma parallela del MES è stata davvero emblematica. Senza addentrarci troppo, rimandando qui e qui per un’analisi approfondita della questione, le due posizioni liberali, a favore della riforma, e nazionaliste, contrarie, si sono fronteggiate sul funzionamento duplice del fondo salvastati e salvabanche. La posizione liberale rappresenta la consueta tutela degli interessi della borghesia creditrice e imperialista, fondata sulla severa condizionalità e sulla disciplina di mercato nei confronti dei salvataggi delle finanze pubbliche o degli istituti finanziari. La posizione nazionalista rappresenta, aldilà di tutto il campionario di mistificazioni varie propagandate dalla destra, la consueta tutela degli interessi della borghesia nazionale, debitrice e dominata, di fronte alle pretese dei propri creditori.
Ciò nonostante, la ristrutturazione dei debiti, compresa la vituperata storiella del crudele bail-in a svantaggio di azionisti e obbligazionisti borghesi, non è sbagliata di per sé; questa è sbagliata nella misura in cui è posta, come nella riforma del MES, a vantaggio della borghesia imperialista e creditrice, ma non nella misura in cui è presupposta a vantaggio della classe lavoratrice e della socializzazione e ricapitalizzazione pubblica delle banche. In altri termini, un bail in comunista serve per imporre la perdita secca per azionisti e obbligazionisti borghesi e, al contempo, per consentire la conversione delle obbligazioni private in azioni pubbliche; a sua volta, un backstop comunista dovrebbe servire unicamente alla ricapitalizzazione pubblica delle banche. Per questa ragione, liberali e nazionalisti rappresentano due facce contraddittorie delle comuni posizioni borghesi, mentre l’alternativa ecosocialista deve rappresentare la posizione opposta della classe lavoratrice, fondata sulla proprietà pubblica e sulla pianificazione democratica.
L’elogio della follia dell’austerità e della propaganda ideologica ordoliberale corrisponde coerentemente alla razionalità degli interessi inter-imperialistici degli Stati membri dell’Unione europea. Sia la politica di bilancio sia la politica monetaria ordoliberale non sono minimamente messe in discussione. Dal punto di vista della politica di bilancio, nessuna concessione agli investimenti pubblici è stata fatta, nonostante l’agguerrita minaccia proveniente dai cospicui investimenti statunitensi e cinesi sulla transizione gemella, digitale e ecologica. Dal punto di vista della politica monetaria, non si vede traccia di una revisione degli obiettivi statutari della banca centrale, in grado di affiancare alla stabilità dei prezzi anche la riduzione del tasso di disoccupazione e l’armonizzazione dei tassi di interessi compresa la chiusura degli spread sul costo dei titoli pubblici. In generale, la prospettiva di un bilancio europeo e di un debito europeo continua ad essere osteggiata dalle rivalità imperialiste. Al contrario di quanto si continua a discettare in modo incredibilmente improprio, l’emissione di debito comune europeo per il finanziamento del RRF lungi dal costituire l’embrione mutualistico degli eurobond; questi rimangono infatti in pancia al bilancio dei singoli paesi membri, ai quali spetta singolarmente l’onere del costo del debito, con l’unico risparmio dato dalla riduzione della spesa per interessi.
Viceversa, l’alternativa ecosocialista della classe lavoratrice imporrebbe la costituzione degli Stati uniti ecosocialisti d’Europa, in grado di garantire l’emissione di euro red-green bond per il finanziamento in disavanzo degli investimenti finalizzati alla transizione gemella, digitale e ecologica. Al tempo stesso, dovrebbe ormai ritenersi oggettivamente imprescindibile la socializzazione pubblica delle banche e delle imprese interessate dalla transizione gemella, a cominciare dal settore dell’energia. Credito bene comune e energia bene comune. Fuori i profitti, gli utili trattenuti e i dividendi, dalle banche e dalle bollette!!!
*Sinistra Anticapitalista