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Nelle ultime settimane si è spesso ricordato, almeno tra i palestinesi e i loro sostenitori, che la storia non è iniziata il 7 ottobre. Ma quale storia? Diverse temporalità sono possibili: quella del sionismo come progetto, quella del sostegno delle potenze imperialiste a questo progetto, quella della colonizzazione della Palestina, ecc. Thierry Labica ripercorre i 16 anni del blocco di Gaza, con i suoi terribili effetti sul piano umanitario e sulla strategia attuata da Israele e dai suoi alleati per isolare politicamente Hamas.

Di fronte alla forza delle negazioni che si oppongono alla ricerca di una comprensione contestualizzata della sequenza aperta dagli attacchi del 7 ottobre e dei crimini di guerra che hanno segnato quella giornata, “la storia non è iniziata il 7 ottobre” è più uno slogan che una semplice constatazione. Quanto segue vuole contribuire a rispondere a questa rivendicazione e, allo stesso modo, a liberare l’evento dalla religiosità neoconservatrice che tende a definirne la “normale” percezione: manifestazione dell’essenza malvagia di un nemico assoluto che autorizzerebbe uno sradicamento sistematico, la cui forma non è altro che l’operazione genocida a cui stiamo assistendo da quasi due mesi, mentre scriviamo questo testo.

Va da sé che la storia dell’isolamento di Gaza è più lunga di quella proposta in questo contributo. Abbiamo deciso di concentrarci sul momento in cui il blocco della Striscia di Gaza si è intensificato in seguito alla vittoria elettorale di Hamas alle elezioni legislative del gennaio 2006, vittoria che faceva seguito ai successi elettorali di questa stessa organizzazione nelle elezioni municipali tenutesi tra il dicembre 2004 e il dicembre 2005. Si tratta di ricordare, o presentare, alcune delle principali manifestazioni dell’operazione di neutralizzazione e di soffocamento punitivo dei processi politici e diplomatici che avrebbero potuto permettere alla striscia di Gaza, sotto il governo di Hamas, di emergere come entità territoriale, economica e istituzionale a pieno titolo e, in quanto tale, come prerequisito essenziale per la formazione di uno Stato palestinese.

Nel richiamare l’attenzione su vari aspetti del ruolo della comunità internazionale a sostegno della violenza coloniale israeliana, questo contributo non affronta e non può affrontare punti che la lettrice e il lettore potrebbero considerare cruciali. Pensiamo, ad esempio, alle condizioni del rafforzamento del sostegno ad Hamas sulla base di un processo di “clanizzazione”, concorrenza e violenza funzionale, in seno a Fatah in particolare negli anni post-Oslo.

Pensiamo anche, e soprattutto, ai diversi livelli di analisi che necessita la comprensione della complessa traiettoria di Hamas, tra istituzioni sociali e caritatevoli (ampiamente autonome), flessibilità dottrinale, pratica della violenza e pragmatismo, ricerca di riconoscimento e di partecipazione politiche, in particolare con il tentativo d’integrazione nell’OLP (2005) nell’obiettivo di una condivisione del potere. Quindi, contrariamente all’idea comunemente diffusa che Hamas formerebbe un monolite fondamentalista sempre identico a sé stesso fin dalla sua creazione, daremo come generalmente acquisito il fatto che Hamas non è un unico corpo, né nella sua storia, né nella sua pratica sociale e politica, né nelle sue posizioni ideologiche.

In maniera del tutto prevedibile per un’organizzazione di questa importanza, il primo Hamas non è stato l’Hamas degli anni di Oslo, che a sua volta non è stato l’Hamas della sequenza elettorale 2004-2006, che non è stato l’Hamas della svolta più rigorista del 2009 e dopo nelle condizioni che furono quelle del riconoscimento ricercato e sistematicamente negato, dell’isolamento, delle immense distruzioni belliche degli anni 2008-2009, della distruzione avanzata che ha colpito l’insieme del settore socio-caritatevole al quale era associato e, più generalmente, della rapida disintegrazione delle strutture sociali della società palestinese (tutti temi sui quali i lavori della ricercatrice Sara Roy hanno apportato dei contributi indispensabili, come vedremo in seguito).

Sulla base dell’allineamento globale sulla strategia neo-conservatrice della “guerra al terrore”, non esente da fanatismo religioso[1], nel corso degli anni 2000, quale è stato il processo di distruzione politico che è culminato negli eventi catastrofici delle ultime settimane? Ecco dunque la domanda alla quale quanto segue cercherà di proporre alcuni elementi di risposta.

Le elezioni legislative palestinesi del 2006 e le loro immediate conseguenze

Alla fine di gennaio 2006 si sono tenute nei territori le elezioni legislative, le prime da dieci anni. Per i governi statunitense e britannico, dopo la seconda guerra con l’Iraq e il rovesciamento di Saddam Hussein, queste elezioni sembravano iscriversi in uno slancio democratico più ampio in Medio Oriente (“cambio di regime” in Iraq, elezioni aperte in Egitto, elezioni presidenziali in Palestina). Le condizioni del voto (che avrebbero dovuto favorire Fatah), il sostegno e gli aiuti finanziari americani ai candidati non appartenenti a Hamas avrebbero dovuto consolidare la prevista vittoria di Fatah e di Mahmoud Abbas. Nella strategia americana, si dava per scontato che i processi elettorali sarebbero serviti a favorire la vittoria delle forze filoamericane e filooccidentali.

Contro ogni aspettativa, e al termine di un processo elettorale la cui correttezza è stata riconosciuta da tutti, è stato Hamas a vincere le elezioni. Hamas ha così visto rafforzata la sua base elettorale dopo aver già conquistato numerosi seggi al termine delle votazioni locali nel corso degli anni precedenti. Come scrive lo storico delle relazioni israelo-americane Jerome Slater, questi risultati non rivelavano assolutamente una particolare ostilità religiosa anti-israeliana da parte dell’elettorato di Hamas. Questo voto esprimeva la speranza di un miglioramento socio-economico della condizione degli abitanti di Gaza[2], una speranza in parte ispirata dalla realtà delle dimensioni e dell’anzianità delle reti di assistenza sociale di Hamas[3].

Questo risultato ha tuttavia creato un profondo dilemma, come ha spiegato la specialista regionale Rosemary Hollis: per gli Stati membri dell’UE che avevano sostenuto questo progetto democratico, si poneva la questione di come mantenere gli aiuti finanziari all’Autorità palestinese (AP) quando, secondo la loro stesse legislazioni, questa AP sarebbe stata ormai guidata da un’organizzazione che loro stessi avevano designato come terroristica solo pochi anni prima?[4]

All’epoca, c’erano politici non appartenenti ad Hamas disposti a partecipare a un governo guidato da Hamas e in seno all’elettorato che aveva votato questo partito vi era una maggioranza di persone favorevoli, per pragmatismo, alla soluzione dei due Stati[5]. Hamas, in quanto forza elettorale, ha proposto la costituzione del suo governo nel quadro di un’estesa coalizione.

Inoltre, come riporta Jean-Pierre Filiu, Ismael Haniyeh, dirigente di Hamas, aveva dichiarato al Washington Post che «se Israele si ritira dalle frontiere del 1967, stabiliremo una pace a tappe». J-P. Filiu precisa: «Si dice pronto [Ismael Haniyeh] a riconoscere Israele, a condizione che lo Stato ebraico si impegni pubblicamente a “dare al popolo palestinese uno Stato e a riconoscere i suoi diritti”»[6].

A queste condizioni, Hamas s’impegnava in una tregua di dieci o quindici anni al fine di «scoprire le reali intenzioni di Israele», come riferisce J. Slater. Sempre nel 2006, Haniyeh, ormai Primo ministro, si rivolse «segretamente al Presidente Bush per chiedergli di porre fine al boicottaggio americano di Hamas» e di impegnarsi «in negoziati diretti con il governo eletto». Secondo il quotidiano Haaretz, questa lettera esprimeva timori per la stabilità e la sicurezza della regione, ribadiva il suo sostegno a uno Stato palestinese entro i confini del 1967 e proponeva una tregua a lungo termine e un rinnovo “automatico” del cessate il fuoco.

Non fu l’unico messaggio di questo tipo. Tutti, spiega J. Slater, furono però ignorati e quindi rimasero senza risposta, e la posizione di Washington rimase immutata.

In reazione al nuovo assassinio di un leader di Hamas da parte di Israele, «Hamas non solo non condusse alcuna rappresaglia», ma informava segretamente il governo israeliano che «si sarebbe impegnata a non compiere alcuna azione violenta contro Israele e avrebbe impedito ad altre organizzazioni palestinesi di farlo» a condizione che Israele cessasse i suoi assassinii e i suoi attacchi militari. Anche la Jihad islamica dichiarò «di essere pronta a interrompere i suoi attentati suicidi e i suoi lanci di razzi se Israele avesse cessato i suoi attacchi»[7].

In assenza di una risposta, Hamas rese pubbliche le sue posizioni. A febbraio, Khaled Mechaal, membro dell’ufficio politico di Hamas, dichiarò che Hamas non si sarebbe opposto all’Iniziativa di pace araba; il vertice della Lega Araba tenutosi a Beirut nel marzo 2002 riprese la proposta saudita di una pace duratura, del riconoscimento e della normalizzazione delle relazioni economiche e diplomatiche, in cambio dell’adeguamento di Israele al diritto internazionale (ritiro completo dai territori occupati nel 1967 e soluzione del problema dei rifugiati). In un’intervista a un giornale russo, Mechaal annunciava la fine della resistenza armata in caso di riconoscimento dei diritti del popolo palestinese[8]. Hamas riaffermò queste posizioni nell’aprile e nel maggio 2006.

Ancora una volta, tuttavia, queste proposte, aperture e gli impegni dell’organizzazione che ormai era diventata il principale attore politico del momento furono ignorati, non senza un certo disprezzo: le proposte di Hamas, secondo un portavoce israeliano, non erano altro che «ginnastica verbale» e «furbizie». Alla fine di giugno 2006, Israele condusse l’operazione “Pioggia d’estate”. Questo attacco militare seguiva di poche ore l’annuncio del quadro negoziato tra Haniyeh e Abbas per la creazione di un governo di unità nazionale e di qualche giorno il rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit. Poi sopraggiunse l’operazione “Nuvole d’autunno” nella prima settimana di novembre. 82 palestinesi furono uccisi («tra cui 50 civili, inclusi 2 medici, 10 donne e 16 bambini»)[9].Nel corso di questo stesso anno 2006, Israele uccise 657 palestinesi, metà dei quali civili. I palestinesi uccisero 23 israeliani[10].

Il 29 giugno 2006, l’esercito israeliano arrestò 64 rappresentanti eletti da Hamas in Cisgiordania (ministri, deputati, sindaci e quadri politici) e il 30 giugno, riportava Le Monde lo stesso giorno, «il permesso di residenza a Gerusalemme Est di un ministro e di tre deputati palestinesi del movimento islamista è stato annullato, poche ore dopo un raid aereo sul ministero dell’interno a Gaza». Lo stesso giornale descriveva la situazione nei seguenti termini:

«”Pensavano che ciò potrebbe far cadere il governo, ma noi diciamo loro: non distruggerete la nostra scelta”, ha aggiunto Ismail Haniyeh, riferendosi all’elezione di Hamas nelle elezioni legislative di gennaio. “Cambiano le personalità, cambiano i dirigenti ma una cosa rimane: le elezioni e i loro risultati. Qualsiasi governo che sarà formato nei prossimi quattro anni lo sarà sulla base dei risultati delle elezioni”, ha insistito il primo ministro»[11].

Da qui la “suprema ironia” notata da Sara Roy:

«Hamas aveva indicato molto chiaramente di voler governare normalmente, senza sanzioni e senza la minaccia permanente di attacchi israeliani […] Già prima della sua vittoria elettorale, Hamas aveva efficacemente sospeso gli attacchi suicidi e osservato unilateralmente il cessate il fuoco proposto con Israele (di circa diciotto mesi), facendo così prova della sua capacità di attuare un cessate il fuoco quando Israele lo avesse debitamente ricambiato. […] [Hamas] fece anche chiaramente sapere che “si sarebbe conformato a qualsiasi accordo ratificato da un referendum popolare”»[12].

Pochi mesi dopo, nel febbraio 2007 alla Mecca, fu raggiunto un accordo tra Fatah e Hamas grazie alla mediazione del re Abdullah dell’Arabia Saudita: Hamas s’impegnava, ancora una volta, a riconoscere e ad accettare gli accordi precedenti e a formare un governo di unità nazionale[13].

È pure degno di nota il fatto che durante questa breve e cruciale sequenza politica, numerosi dirigenti politici hanno ritenuto necessario cercare di superare i pregiudizi e gli atteggiamenti esistenti nei confronti di Hamas, al fine di riconoscere e includere questa organizzazione come un attore politico ormai imprescindibile.

Fu il caso di Chris Patten, figura di spicco della politica estera britannica al momento del passaggio di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese[14]; dei membri del governo Blair dell’epoca, tra cui Jack Straw, allora ministro degli affari esteri e del Commonwealth, ritenevano che il mantenimento di scambi diretti con gli eletti locali di Hamas fosse un loro dovere diplomatico.

Lo stesso Tony Blair riteneva che il Quartetto (Nazioni Unite, UE, Stati Uniti, Russia) avrebbe dovuto accettare, a determinate condizioni, il principio del negoziato con un governo di coalizione che includesse Hamas e che tale unità politica palestinese fosse auspicabile e possibile, almeno con le componenti più moderate di Hamas[15]. Per Roy, nel 2009, «se Hamas in nessun modo parla tutti i palestinesi, è inetto supporre che Hamas possa essere ignorato politicamente e diplomaticamente»[16].

Riassumiamo alcune delle principali caratteristiche di questa congiuntura politica del 2006.

Hamas, un’organizzazione spesso indicata come terroristica fin dai primi anni 2000[17], ha partecipato alle scadenze elettorali, ha ottenuto importanti vittorie elettorali, ha proposto di formare un governo di unità nazionale e ha rispettato il cessate il fuoco di diciotto mesi (marzo 2005-giugno 2006) negoziato con Israele, riconoscendo gli accordi precedenti, i confini del 1967 e quindi lo Stato di Israele (astenendosi da qualsiasi retorica antiebraica e da qualsiasi progetto di “distruzione di Israele”) e ha emesso una serie di proposte di impegni e di aperture in cambio dell’impegno a riconoscere i diritti del popolo palestinese, la fine all’occupazione e l’edificazione di uno Stato.

In secondo luogo, molti dirigenti politici hanno finito per riconoscere in Hamas un attore chiave della situazione, che doveva essere incluso nel quadro politico dei negoziati; i suoi dirigenti sono invitati a parlare dalla stampa britannica e americana.

In terzo luogo, tra il silenzio e il disprezzo, il tandem israelo-americano ha rifiutato di accettare qualsiasi proposta avanzata da Hamas e, in questo modo, ha neutralizzato qualsiasi possibilità di costruire un processo politico concertato che all’epoca era ancora viabile e auspicato, nonostante la terribile avversità regnante. Tuttavia, questo atteggiamento è stato solo il preludio a una strategia d’isolamento e di strangolamento del governo della banda di Gaza (e della sua popolazione), pur senza riuscire a rovesciarlo.

Boicottaggio, disimpegno e sanzioni da parte della comunità internazionale contro l’occupato: prime misure (gennaio 2006 – giugno 2007)

Un boicottaggio ha iniziato a essere messo in opera a partire da metà febbraio 2006: per la prima riunione (a Ramallah) del Parlamento appena eletto, ai parlamentari di Hamas è stato impedito di recarsi in Cisgiordania, obbligandoli a seguire la sessione in videoconferenza.

La nomina di Ismael Haniyeh al posto di Primo ministro con il compito di formare un governo è stata immediatamente seguita da sanzioni finanziarie: Israele ha sospeso il trasferimento all’Autorità palestinese delle tasse riscosse da Israele sul commercio con Gaza e la Cisgiordania, una misura denunciata dall’ONU. Inoltre, come abbiamo visto, Israele ha proceduto alla cattura di 64 eletti.

Gli Stati Uniti, insieme a Israele e alla comunità internazionale, hanno ben presto tagliato Gaza fuori dal resto del mondo, lasciando questo territorio senza lavoro, senza cibo e senza vie di fuga. Privato degli abituali finanziamenti internazionali, il governo non disponeva più delle risorse per pagare i suoi 162’000 dipendenti. Così, in un momento in cui Hamas «ha fatto chiaramente sapere che intendeva governare normalmente», il boicottaggio iniziato nel giugno 2006 dopo la formazione della piattaforma governativa palestinese «è stato una forma di punizione collettiva contro l’intera popolazione palestinese e, a mia conoscenza», dice Sara Roy, «fatto inedito nella storia di questo conflitto: la comunità internazionale ha imposto sanzioni all’occupata anziché all’occupante».

Poco dopo, nel 2008, è emerso che il governo Bush aveva preparato in segreto un piano per rovesciare il governo di Hamas e per permettere ad Abbas di riprendere il potere nelle condizioni di uno stato di emergenza. Il ministro di George Bush junior, Condoleeza Rice, si impegnò a fondo per convincere Egitto, Giordania, Arabia Saudita ed Emirati a offrire addestramento e finanziamenti ai combattenti di Fatah. Per questa iniziativa è stato stanziato un budget di 1,27 miliardi di dollari sull’arco di cinque anni, impresa di cui Mohammed Dahlan, ex contatto della CIA, ne è stato il principale intermediario.

Da parte sua, l’UE, temendo una crisi umanitaria a Gaza e il collasso dell’AP, ha consolidato il suo contributo al sabotaggio post-elettorale partecipando a una procedura burocratica che mirava a fornire un aiuto diretto alla popolazione aggirando il governo di Hamas: il Temporary Interim Mechanism (TIM) ha avuto lo strano merito di cumulare l’aumento della spesa umanitaria e la continua degradazione della situazione delle popolazioni che avrebbero dovuto riceverla[18].

Nella seconda settimana del mese di giugno 2007 ebbero luogo scontri molto violenti a Gaza tra Hamas e Fatah, in quella che stava assumendo le caratteristiche di una guerra civile palestinese. Respingendo i combattenti di Fatah, Hamas installò il suo potere a Gaza il 13 giugno. Lo stesso giorno, Abbas procedeva alla dissoluzione immediata del governo di unità e destituiva Haniyeh dal posto di Primo ministro. Inoltre, Abbas annullò tutte le decisioni prese dal governo di Hamas e quattro giorni più tardi, il 17 giugno, procedette alla nomina di un nuovo gabinetto governativo. Il boicottaggio internazionale imposto all’Autorità Palestinese dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea prese dunque fine e, da parte sua, Israele sbloccò i 562 milioni di dollari di prelievi fiscali dovuti all’autorità nazionale palestinese, bloccati fino a quel momento. Allo stesso tempo, il blocco della striscia di Gaza controllata da Hamas continuava e s’intensificava, secondo una logica di persecuzione, d’isolamento e di spietata distruzione.

La versione secondo cui Hamas avrebbe “preso” il potere con la violenza nel 2007 per stabilire il proprio dominio non è degna di alcun credito dal momento che passa sotto silenzio le diverse modalità di neutralizzazione e di annullamento del processo elettorale del gennaio 2006. David Wurmser, ex consigliere neoconservatore per il Medio Oriente del vicepresidente neoconservatore Dick Cheney, si dimetteva poche settimane dopo la battaglia fratricida del 7-14 giugno 2007, spiegando che «mi sembrava che quello che era appena accaduto non fosse tanto un colpo di mano di Hamas quanto piuttosto un tentativo di colpo di Stato da parte di Fatah, bloccato prima che diventasse realtà»[19].

Per Sara Roy, come scriveva dopo gli attentati del 2008-2009, «non può esistere un processo di pace credibile con un governo palestinese che escluda il partito eletto dai palestinesi per governarli. […] Hamas non solo resta aperto alla condivisione del potere, ma ha anche una storia di accomodamenti non violenti e di adattamento politico, di riflessività e di trasformazione ideologiche, di pragmatismo politico che l’Occidente dovrebbe accogliere in modo positivo. L’altra via possibile si annuncia portatrice di disastri, dal momento che plana la minaccia di un rafforzamento degli elementi più aggressivi all’interno di Hamas, e di una radicalizzazione dei palestinesi più in generale, nella destabilizzazione di una situazione già carica di tensioni insopportabili»[20].

5 novembre 2008: Gaza, un laboratorio di annientamento sociale ed economico

Dopo la presa del potere da parte di Hamas nel giugno 2007, diversi Paesi e organismi internazionali, da Israele fino all’Autorità palestinese sotto la presidenza di Abbas, passando dell’UE, gli Stati Uniti, il Canada e l’Egitto, si sono impegnati ad amministrare, con sofisticati mezzi burocratici, il processo di confinamento della popolazione di Gaza in condizioni di abbietta povertà.

Quanto segue intende fornire alcuni esempi salienti della strategia che avrebbe dovuto portare la popolazione di Gaza, attraverso i suoi diffusi maltrattamenti, a rivoltarsi contro il suo governo, come se l’enormità della catastrofe umanitaria irachena, legata alle sanzioni applicate dopo la prima guerra del Golfo, non avesse assolutamente insegnato nulla a nessuno. L’unica ipotesi credibile per far luce su questo mistero è l’assoluta indifferenza per le morti di massa delle popolazioni arabe del Medio Oriente, supposizione suffraga da una celebre dichiarazione di Madeleine Albright, responsabile statunitense degli affari esteri dal 1997 al 2001: un mezzo milione di bambini sono morti, ma «the price is worth it» [il prezzo da pagare ne vale la pena].

Israele

Il 5 novembre 2008, Israele ha messo in atto le sue misure di confinamento sistematico della Striscia di Gaza. L’ingresso di merci di qualsiasi tipo (cibo, medicinali, carburante, carta, colla, tazze di tè, ecc.) è stato consentito solo in quantità molto limitate, se non addirittura bloccato del tutto. In media, nei giorni di novembre, 4,6 camion di prodotti alimentari hanno attraversato il confine ogni giorno. Secondo Oxfam, il mese precedente si contavano 123, contro i 564 del mese di dicembre 2005. Conseguenza quasi immediata del blocco: cinque settimane dopo, il 18 dicembre, l’UNWRA ha dovuto sospendere tutte le distribuzioni di cibo, sia nell’ambito dei programmi di emergenza che della distribuzione regolare[21]. Nel dello stesso 2008, a Gaza si contavano già 1,1 milioni di beneficiari di aiuti alimentari, su una popolazione di 1,4 milioni.

Un elenco di esempi delle privazioni inflitte alla popolazione di Gaza – e di tutto ciò che comporta in termini di estremismo e brutalità disumanizzante – sarebbe troppo lunga in questa sede. Nel tentativo di attenersi all’essenziale, sempre troppo astratto, dobbiamo accontentarci di insistere sull’obiettivo perseguito dalla politica del governo israeliano e dei suoi numerosi alleati e sostenitori: Gaza deve essere svuotata di ogni dimensione politica, deve essere radicalmente isolata e dissociata dalla Cisgiordania sul piano territoriale, culturale, amministrativo, sociale ed economico, per essere ridotta a un puro stato di sussistenza che permetta di relegare questo territorio alla dimensione di esclusiva questione umanitaria, lontano da qualsiasi considerazione politica sui diritti umani. In questo senso, Gaza può anche essere considerata come un laboratorio di ciò che Sara Roy ha analizzato sotto il concetto di “de-sviluppo”[22].

Questa priorità, e l’enormità dell’aggressione che comporta, si comprende meglio se si tiene conto del fatto che Gaza è il cuore politico e strategico della Palestina e del nazionalismo palestinese, il centro della resistenza passata e presente. Come tale, Gaza rappresenta una minaccia politica che va ben oltre – e precede di molto – Hamas. Israele ha ben capito ciò ed è per questa ragione che Gaza viene messa da parte, emarginata, demonizzata e punita con un assedio giunto al sesto anno [nel 2012]. Ed è anche il motivo per cui Gaza continua ad essere attaccata[23].

Come sottolinea Sara Roy, il New York Times del 15 giugno 2007 riportava che il primo ministro israeliano dell’epoca, Ehud Olmert, si stava preparando a informare il presidente Bush della volontà di Israele di «sigillare la Cisgiordania occupata da Israele al fine di proteggerla dall’infezione di Gaza». Anche il successo elettorale di Hamas, “organizzazione terroristica”, è stato quindi una manna dal cielo per Israele, il cui piano di ghettizzazione di Gaza stava per dotarsi di un solido pretesto securitario. Netanyahu, tornato al potere nel 2009 (e che già da tempo aveva fatto della “lotta al terrorismo” la pietra angolare della sua visione politica[24]), ha potuto a sua volta approfondire questa divisione dettando l’alternativa lasciata ad Abbas e all’Autorità Palestinese: pace con Hamas o pace con Israele.

Nel 2012, dopo la campagna di bombardamenti israeliani appena conclusa, si assiste dunque senza sorpresa a una nuova serie di minacce israeliane contro qualsiasi riconciliazione o avvicinamento politico tra Hamas e Fatah: l’acqua e l’elettricità, già scarse, sarebbero state tagliate a Gaza in caso della formazione di un governo di unità.

Più in generale, da parte israeliana, la successione di episodi di bombardamento può essere vista come acceleratrice dell’operazione di schiacciamento sociale, economico e psicologico di Gaza già condotto nel quadro “normale” dell’organizzazione strategica della penuria. Ricordiamo:

  • In 23 giorni, nel 2008-2009, 1’400 palestinesi e 13 israeliani sono stati uccisi;
  • In 8 giorni, nel 2012, più di 160 palestinesi e 6 israeliani uccisi;
  • In 50 giorni, nel 2014, 2’1000 palestinesi e 73 israeliani (di 67 soldati) sono stati uccisi;
  • In 11 giorni, nel 2021, 260 palestinesi e 13 israeliani uccisi;
  • In 3 giorni, nell’agosto 2022, 30 palestinesi uccisi.

Tra il 2008 (“Operazione Piombo Fuso”) e il 7 ottobre 2023, l’ONU ha recensito 6’621 palestinesi uccisi contro 308 israeliani (ossia un rapporto di 1/21). Inoltre, nel 2008-2009, i bombardamenti hanno distrutto 1’500 officine o fabbriche; quasi la metà dei 122 servizi sanitari, tra cui 15 ospedali, sono stati danneggiati o distrutti; 280 scuole e asili e 6’300 abitazioni sono stati totalmente o parzialmente distrutte.

Nel 2014, l’operazione “Margine di protezione”, combinata con gli effetti del blocco, ha portato a una contrazione del 60% del settore manifatturiero; l’attacco dell’estate 2014 ha causato il deterioramento o la distruzione di 170’000 abitazioni e ha lasciato 100’000 persone senza domicilio. A ciò vanno aggiunte le 5’000 abitazioni distrutte nel corso degli episodi precedenti e non ancora ricostruite. Circa il 60% della popolazione ha visto la propria casa danneggiata o distrutta tra il 2008 e il 2014. Le Nazioni Unite hanno stimato che 1’000 unità di produzione e officine e più di 4’100 punti vendita all’ingrosso e al dettaglio, ristoranti e alberghi sono stati distrutti o danneggiati. Un colpo particolarmente duro è stato così inferto al settore alimentare, all’industria farmaceutica e a quella della ricostruzione.

Gli Stati Uniti

Le politiche sistematiche e multiformi di sostegno (economico, militare, diplomatico, ecc.) degli Stati Uniti a Israele sono generalmente note e prevedibili. Tuttavia, ciò non deve indurci a sottovalutare i nuovi orientamenti nel processo storico di identificazione e fusione degli interessi israeliani e americani, in particolare nel contesto della svolta neoconservatrice degli anni Duemila e dell’ascesa al potere del sionismo cristiano evangelico, di cui il mandato di Donald Trump ne è stato il culmine. Da più di una generazione, i due Paesi non hanno smesso di formare un singolare tandem di aperta ostilità nei confronti degli organi rappresentativi della “comunità internazionale”.

Tuttavia, per attenersi alla sequenza e al processo di isolamento e abbandono di cui stiamo parlando, possiamo almeno ricordare alcuni sviluppi successivi. Dal 2007, all’indomani dell’insediamento definitivo di Hamas al potere a Gaza, i procuratori dello Stato federale hanno attaccato quella che era stata la prima associazione caritatevole musulmana negli Stati Uniti, la Holy Land Foundation, accusata di finanziare le attività di Hamas contribuendo alle sue numerose opere sociali e umanitarie.

Abolendo ogni distinzione tra le attività del settore sociale di Hamas in una società di Gaza ridotta alla miseria, da una parte e, dall’altra, le sue attività militari di fronte a forze determinate a privare Hamas del suo mandato elettivo, nel 2009 due dei dirigenti di questa organizzazione sono stati condannati a sessantacinque anni di carcere ciascuno e altri due a venti e quindici anni. Nel 2008, altre tre organizzazioni caritatevoli musulmane sono state accusate dello stesso reato. Il tribunale, pur riconoscendo le attività umanitarie delle tre organizzazioni, le ha ritenute colpevoli di sostegno al terrorismo e ha loro imposto una multa di 156 milioni di dollari. La sentenza è stata annullata da una corte d’appello con la motivazione che il legame incriminato doveva essere comprovato. Un’altra corte, tuttavia, ha confermato la prima decisione, ritenendo che la prova del legame non fosse necessaria[25].

L’assalto a tutte le risorse finanziarie necessarie per mantenere i servizi sociali, educativi e di altro tipo a Gaza è stato condotto da tutte le parti, compresa l’UE, ovviamente. Tuttavia, ha assunto una dimensione particolarmente drammatica sotto Trump. Alla fine del 2018, gli Stati Uniti hanno interrotto il finanziamento dell’UNWRA, dalla quale dipende il mantenimento dei servizi educativi, sanitari e sociali per i rifugiati palestinesi in tutto il Medio Oriente. Fino ad allora, gli Stati Uniti erano stati il maggior contributore dell’agenzia, fornendo tra i 300 e i 350 milioni di dollari all’anno (un terzo del budget annuale dell’agenzia, pari a 1,1 miliardi di dollari). Questi tagli budgetari sono stati particolarmente catastrofici per Gaza, dove l’UNWRA spende circa il 40% del suo budget per gli aiuti apportati a quasi un milione di rifugiati.

Nel settembre dello stesso anno, gli Stati Uniti hanno anche annunciato il ritiro di un finanziamento tra i 200 e i 230 milioni di dollari per progetti di sviluppo a Gaza e in Cisgiordania, amministrati dall’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID). Anche la partecipazione palestinese ai programmi finanziati dall’USAID e dall’Ambasciata americana in Israele è stata ridotta.

Il Canada, l’Egitto

Nel 2007 e nel 2008, il Canada ha contribuito alle risorse dell’UNWRA con 28 milioni di dollari all’anno, che sono stati ridotti di quasi 10 milioni di dollari nel 2009, poi di 4 milioni di dollari nel 2010 per arrivare a 15 milioni di dollari. Tre anni dopo, nel 2013, il Canada ha deciso di porre fine a qualsiasi contributo finanziario all’UNWRA. Ciò ha rappresentato la più grande perdita di risorse conosciuta dall’agenzia fino a quel momento.

Questo ritiro canadese è stato a sua volta un riflesso di un orientamento sempre più filoisraeliano a partire dal 2003[26]. Sebbene il Canada abbia ripreso le sue donazioni dopo il 2013, le posizioni dell’ambasciatore canadese alle Nazioni Unite, Bob Rae, nel corso del mese di ottobre del 2023, continuano senza ambiguità questo orientamento. Il boicottaggio da parte dell’ambasciatore canadese della commemorazione della Nakba organizzata dall’ONU nel maggio 2023 ne è stata un’inequivocabile dimostrazione.

L’Egitto ha una lunga storia, che risale alla fine degli anni ’70, di cooperazione con Israele nella carcerazione di Gaza. L’Egitto (e la Giordania) hanno partecipato attivamente al tentativo di rovesciare il governo armato di Hamas nel 2007. Un breve momento di tregua è stato concesso alla Striscia di Gaza durante l’effimera transizione al potere di Mohamed Morsi e dei Fratelli Musulmani in Egitto, tra il 2011 (quando ottenne la maggioranza parlamentare) e il colpo di Stato di Sissi nel giugno 2013.

Il confronto proposto sul sito Middle East Eye nel 2016 da Ahmet Al-Burai tra la posizione di Morsi sulla questione di Gaza e quella di Sissi merita di essere citato in modo un poco più articolato.

L’Egitto di Abdel Fattah al-Sissi non fa altro che cedere alle pressioni israeliane e americane per isolare la Striscia di Gaza, ma raccomanda pure l’estensione delle sanzioni e dei mezzi di asservimento. Morsi, invece, ha lavorato instancabilmente per alleviare le condizioni soffocanti e il blocco disumano imposto alla popolazione dell’enclave costiera da oltre dieci anni. Nel suo unico anno al potere, ha alleggerito le restrizioni per i palestinesi che attraversavano il valico di frontiera di Rafah, nel sud di Gaza. Morsi è rimasto fermamente riluttante a scendere a compromessi con le atrocità commesse da Israele.

Da quando Sissi è salito al potere con un brutale colpo di stato militare, l’Egitto ha invece sostenuto inequivocabilmente la posizione del governo estremista di Israele contro la vicina Striscia di Gaza. Bizzarramente, durante l’ultima guerra contro Gaza, Azza Sami, caporedattore aggiunto di Al-Ahram, il quotidiano più letto in Egitto di proprietà del governo, ha apertamente applaudito il Primo ministro israeliano: «Grazie Netanyahu, e possa Dio darci altri leader come lei affinché noi si possa distruggere Hamas»[27].

Come lo ricordava recentemente il sito di al-Jazeera, oppure anche Tareq Baconi, Il Cairo è noto per il suo ruolo di mediatore chiave tra Israele e Hamas negli ultimi anni, e anche il contributo dell’Egitto alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte a Gaza dopo i bombardamenti del 2021 è stato significativo (500 milioni di dollari). Ma l’Egitto ha anche partecipato al blocco della Striscia di Gaza e alla distruzione di tunnel di vitale importanza per alleviare gli effetti del blocco sulla circolazione delle merci (e non per la sola questione delle armi).

L’Autorità Palestinese

Anche l’Autorità Palestinese (AP) di Mahmoud Abbas ha avuto un ruolo considerevole nel peggioramento della situazione a Gaza, al di là degli eventi del 2006-2007. Nel luglio 2017, per fare pressione sul governo di Hamas affinché quest’ultimo rinunciasse al controllo del territorio, il presidente Abbas ha deciso di licenziare 6’145 dipendenti che lavorano nell’istruzione, nella sanità e in altri servizi pubblici di Gaza.

Inoltre, l’Autorità palestinese ha sempre rifiutato di pagare gli stipendi dei 50’000 impiegati amministrativi di Gaza al servizio del governo di Hamas, mentre continuava a pagare gli stipendi dei propri 70’000 agenti pubblici a Gaza, i quali non lavorano più dal 2007, quando Hamas ha cacciato Fatah da questo territorio. Il costo della manovra è compreso tra i 45 e i 60 milioni di dollari al mese, finanziati dall’Arabia Saudita, l’Unione Europea e gli Stati Uniti.

Poco prima, nell’aprile 2017, l’AP aveva già adottato misure punitive: riduzioni sostanziali agli stipendi degli agenti pubblici, alcuni dei quali hanno ricevuto solo il 30% del loro stipendio abituale, nonché tagli all’elettricità o restrizioni ai servizi medici e ai finanziamenti alla sanità.

Infine, dovremmo almeno menzionare il modo in cui la divisione tra la Cisgiordania (sotto il controllo di Fatah) e Gaza (governata da Hamas) e l’ostracizzazione generale di Gaza sono stati ulteriormente rafforzati dalla conseguente canalizzazione dei fondi dei donatori verso la Cisgiordania.

Conseguenze: alcuni punti di riferimento

Prima che Hamas prendesse il potere a Gaza nel giugno 2007, circa il 54% dei posti di lavoro a Gaza si collocava, secondo la Banca Mondiale, nel settore privato. Tra il giugno 2005 e il settembre 2008, il numero di siti produttivi in funzione a Gaza è sceso da 3’900 a 23 (ventitré). Sempre secondo la Banca Mondiale: circa 100’000 persone, tra cui 40’000 lavoratori agricoli e 34’000 lavoratori dell’industria, praticamente l’intero settore privato, hanno perso il lavoro. Secondo la Banca Mondiale, il blocco ha causato da solo un calo del 50% del prodotto interno lordo di Gaza tra il 2007 e il 2015. La Striscia di Gaza è stata così bloccata[28].

Tra il 1999 e il 2008, il numero di famiglie che hanno ricevuto aiuti alimentari dall’UNWRA è passato da 16’174 a 182’400 (ossia 860’000 persone). Allo stesso tempo, il Programma alimentare mondiale nutriva 302’000 abitanti di Gaza. In totale, 1,1 milioni di abitanti della striscia su 1,4 milioni ricevevano aiuti alimentari già nel 2008. In queste condizioni, si è assistito a un chiaro indebolimento delle strutture e della solidarietà familiari e a un’esplosione dei problemi di sofferenza mentale, depressione e traumatismi psicologici, in particolare tra i bambini: delle 221 scuole dell’UNWRA, 161 offrivano programmi di sostegno psicologico, ancora molto al di sotto dei bisogni repertoriati.

Alla fine del 2010, il livello di insicurezza alimentare aveva colpito il 61% della popolazione di Gaza. Nel 2003 ne era toccato il 40%. 900’000 persone su una popolazione totale di 1,5 milioni non potevano permettersi il minimo indispensabile per garantirsi una dieta considerata adeguata per sé e per le proprie famiglie. Altre 200’000 persone erano considerate esposte al rischio di insicurezza alimentare. Il 75% delle famiglie di Gaza dipendeva già allora da qualche forma di assistenza umanitaria.

Queste condizioni di impoverimento estremo, d’intensa pressione su tutta la società di Gaza, e di assenza totale di prospettive hanno visto, soprattutto dal 2014, un aumento dei problemi di violenza domestica, di divorzio, di fenomeni di prostituzione e di uso di droghe, diventati molto meno eccezionali, e di suicidi, compresi quelli di bambini. A ciò si è aggiunto il rafforzamento dell’influenza e dell’attrazione esercitate dalle fazioni armate come lo Stato Islamico del Levante (fortemente combattute da Hamas) che sono diventate sempre più popolari e attraenti, non tanto per convinzione ma per le entrate finanziarie che possono garantire[29].

Nel 2017, molti esperti prevedevano che la Striscia di Gaza non avrebbe più potuto essere vivibile entro il 2020. Un’espressione della disperazione indotta da questa oppressione multiforme sono state le Grandi marce del ritorno, iniziate nel marzo 2018, protesta simbolica e pacifica. Queste furono represse con una brutalità estrema: 210 persone uccise, di cui 46 bambini, e sei morti israeliani, tra il 30 marzo 2018 e il mese di settembre 2019, più di 350’000 ferite e mutilate che soffriranno di menomazioni permanenti aggravate dall’insufficienza o l’assenza di cure mediche adeguate.

I bombardamenti del 2021, poi del 2022, hanno preparato un tragico trentesimo anniversario di Oslo, con, il 6 ottobre 2023, il più alto numero di palestinesi uccisi (oltre 200 e una trentina di israeliani) dal 2005. «La storia non è iniziata il 7 ottobre»: quanto precede è un tentativo di spiegazione di cosa richieda questa affermazione in termini di contestualizzazione. Sedici anni di blocco totale di Gaza hanno creato le condizioni per l’eliminazione sociale, economica, simbolica e fisica della Striscia di Gaza e di tutto ciò che essa rappresenta.

Le sei settimane appena trascorse valgono dunque come l’apice dello sterminio previsto dal progetto colonialista israeliano ormai portato avanti da un governo fascista conclamato. Da parte sua, la comunità internazionale, attraverso le sue donazioni e i suoi programmi umanitari, si applicherà nel prendere a carico i giganteschi costi finanziari della “normalità” di un’occupazione che sembra aver completamente rinunciato a contestare, anche solo formalmente, fino al punto di accettare di piangere con l’aggressore coloniale travestito da vittima.

Per concludere

Hamas, nella sua storia, può essere criticato, accusato di corruzione e abusi, o di un condannabile ricorso alla coercizione e alla violenza. Questo partito può essere giustamente criticato alla luce degli ultimi anni e molti abitanti di Gaza, condannati alla più grande disperazione, non sembrano aver esitato a farlo[30].

Ciò non può cancellare le condizioni di isolamento e di ostracizzazione, di profonda disgregazione sociale, economica e familiare, e di emersione di autentici fondamentalismi concorrenti, rispetto ai quali il partito “al potere” a Gaza si è trovato a dover affrontare. Resta dunque possibile e indispensabile un’altra narrazione, che inizi riconoscendo ad Hamas il ruolo storico di organizzazione sociale e di interlocutore pragmatico e politico legittimo che gli è stato in maniera assoluta e catastroficamente negato.

Il 7 ottobre è anche il prodotto di questa negazione, e la pretesa di aver chiuso con Hamas una volta per tutte è, nel migliore dei casi, il risultato della persistenza in una logica cieca di negazione del fallimento; nel peggiore, l’eliminazione di Hamas è solo il pretesto per la pulizia etnica in corso nel pieno di un’involuzione genocida, come molti lo constatano da settimane.

Il 7 ottobre – con il passare delle settimane sembra che resti ancora da chiarire rispetto ai fatti stessi, come lo lasciano intendere concessioni ufficiali e testimonianze dei sopravvissuti – ha emozionato e commosso, per ragioni evidenti, considerati il numero e la natura delle vittime, dell’effetto sorpresa e soprattutto dell’orrore suscitato dalle testimonianze iniziali rispetto alle quali una certa prudenza sarebbe stata necessaria: nessuna acquiescenza possibile a questo nuovo imperativo di “sacra unione”.

Bisogna considerare che per altri, inoltre, la “mostruosità” del 7 – che, ovviamente, non è mai stata tale per quelle di Abu Ghraib, di Guatanamo, di Bagram o, più vicino al nostro tema, delle centinaia di morti e mutilati sui Grandi Marce del ritorno del 2018-19 e dell’anno 2023 fino al 6 ottobre – è dovuta all’innaturale divario con l’aspettativa intuitiva di una distruzione umana che si presume risponda alle sole prerogative normali delle amministrazioni imperiali. A questo proposito, supponiamo che un certo clamore che circonda il 7 ottobre risponda ad altre aspettative e svolga un’altra funzione: “eccezionalizzare” il 7 ottobre, ingigantire l’orrore davanti all’avvenimento “fuori norma”, significa anche strapparlo dalla trama degli eventi e dalla sua dimensione causale della quale è tuttavia inscindibilmente parte integrante.

E ciò significa anche, in tal modo, compiere ancora una volta il gesto di cancellazione che autorizzerà la preservazione dell’essenziale, cioè il regime normale di brutalizzazione dei colonizzati. In questo senso, un certo registro di emozione “eccezionalista” – con tutta la sua ingiunzione al consenso preventivo – partecipa all’incessante lavoro di de-contestualizzazione già assicurato dalle analogie perentorie così comuni con gli attacchi terroristici di Parigi del 2015, analogie tra eventi comunque inconciliabili gli uni con gli altri. A meno che non si voglia ergere Benyamin Netanyahu a teorico ultimo del principio terroristico come motore fondamentale dell’ordine globale.

«La storia non è iniziata il 7 ottobre» è un’affermazione e un’esigenza giusta, indispensabile, e portatrice di una forza polemica della quale non si smette di misurare la forza.

* Articolo pubblicato sul sito https://www.contretemps.eu, tradotto in italiano dal segretariato dell’MPS Ticino.


[1] Cfr. su questo aspetto l’appassionante lavoro etnografico e storico di Victoria Clark : Allies forArmageddon, The Rise of Christian Zionism, Yale University Press, 2007 ; e anche Clifford A., Kiracofe,Dark Crusade: Christian Zionism and US Foreign Policy, I.B.Tauris, 2009.

[2] La ricercatrice Sara Roy ne ha fatta un’analisi particolarmente dettagliata in un studio più vaste e ampiamente riconosciuto: Hamas and Civil Society in Gaza. Engaging the Islamist Social Sector [2011],Princeton University Press, 2014.

[3] Jerome Slater, Mythologies Without End : the US, Israel, and the Arab-Israeli Conflict 1917-2020, OxfordUP, 2021, p.284.

[4] R. Hollis, Britain and the Middle East in the 9/11 Era, Wiley-Blackwell, 2010, p.150.

[5] Sara Roy, Unsilencing Gaza. Reflections on Resistance, Pluto Press, 2021, p.4.

[6] J-P Filiu, Histoire de Gaza, [2012], Pluriel, 2015, p.402-403.

[7] J. Slater, ibid., p.284-285.

[8] Cité dans Slater, ibid., p.285 ; cf. également, Roy, Hamas …, op. cit., p.210.

[9] Filiu, op.cit., p.412.

[10] Sara Roy, Hamas and Civil Society in Gaza, op.cit., p.41.

[11] « Malgré l’offensive militaire, le Hamas tient tête à Israël », Le Monde, avec AFP et Reuters, 30 juin 2006.

[12] S. Roy, Hamas…, p. 41.

[13] R. Hollis, op. cit., 155.

[14] R. Hollis, op. cit., p.156.

[15] Ibid., p.148, 154, 155, e Sara Roy, Hamas… op. cit., p.49 e p. 280 e nota 114.

[16] Sara Roy, Unsilencing…, p. 36.

[17] Il Consiglio d’Europa mise l’ala militare di Hamas, le brigate Izz al-Din Qassam sulla lista delle organizzazioni terroriste. L’organizzazione politica fu aggiunta nel 2003. Questa decisione fu annullata nel 2014 mal il congelamento degli aiuti finanziari fu mantenuto.

[18] Filiu, op. cit. p. 409. Vedere anche gli effetti del Gaza Reconstruction Mechanism (GRM) e del Material Monitoring Units Projets, concernenti il controllo dell’entrata di materiali edili dopo il 2014, in S. Roy, Unsilencing Gaza,… op. cit., p.71 (cf. anche il suo contributo The Gaza Strip : the Political Economy of De-development, Institute for Palestine Studies, 2016).

[19] Citato in « US plotted to overthrow Hamas after election victory », The Guardian, 4 mars 2008, https://www.theguardian.com

[20] S. Roy, Hamas…, op. cit., p.48-49.

[21] S. Roy, Unsilencing Gaza…, op. cit., pp.29-30.

[22] In The Gaza Strip : the Political Economy of De-development, op. cit.

[23] S. Roy, Unsilencing…, op. cit, p.44.

[24] Cf. B Netanyahu, Fighting Terrorism: How Democracies Can Defeat Domestic and International Terrorists, Allisons & Busby, 1995. Questo breve libro ha un interesse retrospettivo grazie alla longevità politica rimarchevole del suo autore. Fighting Terrorism procedeva alla riduzione generale degli affari del mondo al solo enigma terrorista e così facendo, apriva alla fusione neo-conservatrice degli interessi israeliani e statunitensi, progetto che giustificava già allora gli attacchi futuri contro le libertà civili e contribuiva a costruire la nuova era del razzismo orientalista giunto al potere a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001, sotto le spoglie dello “choc delle civilizzazioni”, manifestamente caro all’autore.

[25] S. Roy, Hamas…, op. cit., pp. 97-100.

[26] https://www.cbc.ca/news/world/canada-united-nations-israel-gaza-war-1.7032739

[27]https://www.middleeasteye.net/fr/opinion-fr/morsi-vs-sissi-qui-vraiment-soutenu-les-palestiniens-dans-leur-detresse; in merito all’attitudine dei media egiziani pro-governativi davanti ai cinquanta giorni di bombardamenti nel 2014, https://www.france24.com/en/20140720-egyptian-media-applauds-israel-gaza-offensive

[28] S. Roy, Unsilencing…, op. cit., p.54 e p. 66.

[29] S. Roy, ibid. …, p.98.

[30] In manifestazioni non sempre sprovviste, anche, di poste in gioco funzionali: Motasem Ad Dalloul, «What’s behind Gaza’s anti-Hamas protests», 24 mars 2019, https://www.middleeasteye.net