Pubblichiamo la presentazione della giornata “Antisemitismo strumentalizzato” svoltasi il 2 marzo 2024 presso l’Université libre de Bruxelles (ULB), tenuta da Mateo Alaluf, sociologo belga di origine turca, dottore in scienze sociali, specializzato in questioni relative all’occupazione, alla qualificazione del lavoro e al rapporto tra formazione e occupazione, membro del comitato editoriale della rivista belga Politique, revue de débats.
Nel darvi il benvenuto a questa giornata, vorrei chiarire ogni equivoco. La persistenza e l’aumento dell’antisemitismo sono una piaga che corrode la società.
Proprio perché è necessario combattere l’antisemitismo, abbiamo deciso di organizzare un simposio sulla sua strumentalizzazione da parte dello stato di Israele e delle principali organizzazioni della comunità ebraica. Districare la sua strumentalizzazione dalla realtà dell’antisemitismo è una condizione necessaria per combattere l’antisemitismo e tutte le forme di razzismo.
Nel farlo, ci scontriamo con due ostacoli. In primo luogo, l’associazione tra Israele ed ebreo, che rende ogni ebreo potenzialmente responsabile della tragedia palestinese, è formidabile.
In secondo luogo, il processo particolarmente favorito dalla destra e dall’estrema destra, che mira ad adulare gli ebrei per meglio denunciare arabi e musulmani e indulgere al razzismo, si rivela ogni giorno più deleterio.
La nostra giornata era inizialmente prevista per il 14 ottobre 2023. L’abbiamo rinviata in seguito alle atrocità e al massacro di civili durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Ora dobbiamo renderci conto, da un lato, dell’orrore della tragedia, ma anche, dall’altro, della vittoria politica di Hamas, poiché la questione palestinese, che pensavamo fosse stata seppellita, è tornata in cima all’agenda politica.
Bisognava riconoscere che il 7 ottobre non era un evento isolato, avulso da ogni contesto. Possiamo considerare le atrocità imperdonabili, ma non possiamo dire che non abbiano avuto una causa.
Bisogna anche riconoscere che il 7 ottobre è stato anche il risultato della cecità della maggioranza degli israeliani, favorita dagli Stati Uniti e dai governi arabi, che hanno accettato come definitivo ciò che lo stato di Israele ha fatto per più di 70 anni. “La maggioranza degli israeliani credeva”, scrive il romanziere libanese Dominique Eddé, “di poter vivere, commerciare e ballare normalmente, mentre alle loro porte un popolo da loro negato, schiacciato, privato di tutti i suoi diritti, non avrebbe trovato nulla da dire”.
La successiva guerra genocida di Israele a Gaza ha ulteriormente rafforzato la nostra decisione di rinviare la giornata a una data successiva. Data l’entità del disastro subito dalla popolazione palestinese, potevamo ancora soffermarci sulla questione dell’antisemitismo? La fine della colonizzazione e la prospettiva di uno stato palestinese (uno stato binazionale o due stati?) in cui tutti i cittadini godrebbero di uguali diritti sta diventando sempre più l’unica soluzione possibile.
Per il governo israeliano, invece, si tratta di impedire a tutti i costi questa soluzione, e persino di approfittare della guerra per far scomparire i palestinesi da tutta la Palestina storica, in un modo o nell’altro, e realizzare così il loro sogno di un Grande Israele.
Tuttavia, per affermare la propria politica e ripristinare la propria immagine, Israele sta ancora una volta reagendo con accuse di antisemitismo. Criticare Israele, sostenere i palestinesi e chiedere un cessate il fuoco sono presentati come la sua forma contemporanea.
Evidenziare la strumentalizzazione dell’antisemitismo non solo permette di denunciare la guerra condotta da Israele, ma è oggi essenziale per la lotta all’antisemitismo. Accusare chiunque si opponga a Israele di essere antisemita impedisce il dialogo e alimenta l’odio.
Nel 1967, all’indomani della folgorante vittoria di Israele su Egitto, Giordania e Siria, celebrata all’unanimità come la vittoria di Davide su Golia, Marcel Liebman scrisse un testo firmato da alcuni rari intellettuali ebrei che vedevano la vittoria di Israele come una sconfitta perché portatrice dei semi di un nuovo antisemitismo.
Nel suo libro autobiografico Né Juif, Une famille juive pendant la guerre (1977, Paris-Gembloux, Duculot, ripubblicato nel 2011 da Ed. Aden), Liebman sosteneva che essere ebrei non significa usare la memoria della Shoah come uno scudo per proteggersi, ma attingere alla forza necessaria per combattere ogni forma di razzismo.
Ma, aggiungeva Marcel Liebman, abbiamo un dovere speciale nei confronti di un popolo derubato dagli ebrei.
Essere stati vittime di un genocidio, come stiamo vedendo con le atrocità commesse dal Ruanda nel Congo orientale, non ci protegge dal commetterne uno a nostra volta.
*sociologo, docente all’Université libre de Bruxelles (Istituto Marcel Liebman). Questo articolo è apparso in francese su sito www.alencontre.org.