Una settimana dopo l’operazione Diluvio di Al-Aqsa e l’aggressione sionista che ne è seguita, è emersa una spaccatura tra il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Il 15 ottobre, durante una lunga intervista a 60 Minutes della CBS, il giornalista Scott Pelley ha avuto il seguente scambio con il Presidente degli Stati Uniti: “Scott Pelley: Crede che Hamas debba essere completamente eliminato? Presidente Biden: Sì, lo credo. Ma deve esserci un’Autorità palestinese. Ci deve essere un percorso verso uno Stato palestinese. Questo percorso, chiamato soluzione dei due Stati, fa parte della politica americana da decenni. Creerebbe una patria indipendente adiacente a Israele per i cinque milioni di palestinesi che vivono a Gaza e in Cisgiordania. Scott Pelley: E lei pensa che Israele seguirà questa strada dopo quello che è successo? Presidente Biden: Non ora. Non ora. Non ora, ma… ma credo che Israele riconosca che una parte significativa del popolo palestinese non condivide le opinioni di Hamas e Hezbollah”.
La ricerca di “soluzioni” che garantiscano gli interessi imperialisti
Dall’inizio dell’attuale guerra genocida nella Striscia di Gaza, è riemersa anche una vecchia divergenza di opinioni tra la destra sionista, guidata da Netanyahu, che non ha mai abbandonato l’obiettivo di un Grande Israele su tutta la terra di Palestina tra il fiume e il mare, e le forze del centro sionista, allineate con Washington perché convinte che Israele non possa permettersi di alienarsi gli Stati Uniti, da cui dipende la sua sicurezza, e che debba quindi accettare una “soluzione” al conflitto regionale che soddisfi questi ultimi. Dalla guerra del 1967, il centro sionista guidato dal “Partito laburista” ha formulato un piano, noto con il nome del suo ideatore Yigal Allon, allora ministro, per rafforzare la sicurezza e il controllo strategico israeliano sui territori occupati nel 1967 a ovest del fiume Giordano e per pianificare il ritorno delle aree di concentrazione della popolazione palestinese in quei territori sotto il controllo del Regno Hashemita.
Dopo che Washington aveva a lungo sostenuto il ritorno della maggior parte della Cisgiordania sotto la sovranità giordana, l’amministrazione di Ronald Reagan annunciò il suo sostegno alla creazione di una “entità palestinese” legata al regno nel 1982, durante l’aggressione israeliana contro il Libano guidata da Menachem Begin, allora leader del partito Likud che era salito al potere nel 1977, dieci anni dopo la Guerra dei Sei Giorni. In seguito, grazie alla grande Intifada esplosa nei territori del 1967, vent’anni dopo la loro occupazione, il Regno hashemita annunciò nel 1988 di rinunciare alla sovranità sulla Cisgiordania. Questo fu il preludio al riorientamento di Washington e del centro sionista verso l’idea di un’entità palestinese “indipendente” in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Così, quando il centro sionista tornò al potere sotto Yitzhak Rabin nel 1992, iniziò i negoziati segreti a Oslo con Yasser Arafat e Mahmoud Abbas, che portarono al famoso accordo firmato sul prato della Casa Bianca nel 1993.
La “soluzione dei due Stati”
Questo accordo non menzionava la parola “Stato”, ma solo “autonomia” palestinese. Il nome “Autorità Palestinese” seguì nell’accordo Gaza-Gerico firmato l’anno successivo, e la stessa “Autorità” fu poi descritta in arabo come “nazionale”. I passi successivi furono l’accettazione da parte del centro sionista dell’orizzonte di uno “Stato palestinese” nel quadro stabilito dagli accordi di Oslo, prima che esplodesse l’”Intifada di Al-Aqsa” nel 2000, a seguito della provocazione guidata dal nuovo leader del Likud, Ariel Sharon. Il progetto dello “Stato” è stato poi rafforzato dall’”Iniziativa di pace araba”, adottata dalla Lega Araba su iniziativa del Regno dell’Arabia Saudita nel 2002, e dall’accettazione del progetto da parte dell’amministrazione americana di George W. Bush, che ha spianato la strada all’adozione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nello stesso anno, della sua prima risoluzione a favore della “soluzione dei due Stati”.
Da allora, questa “soluzione” è diventata la politica ufficiale di Washington sulla questione palestinese. Lo stesso Donald Trump non si è discostato da questo approccio e ha persino fatto redigere al genero Jared Kushner un “piano di pace” che il presidente americano ha annunciato ufficialmente con Netanyahu al suo fianco all’inizio del 2020. L’approvazione del primo ministro israeliano e leader della destra sionista è stata solo una posizione tattica, poiché sapeva benissimo che il piano di Kushner era così ingiusto nei confronti delle richieste minime dei palestinesi che nemmeno Mahmoud Abbas avrebbe potuto accettarlo. Netanyahu si è inoltre vantato in diverse occasioni, in particolare dopo l’operazione “Diluvio di Al-Aqsa”, di aver impedito la creazione di uno Stato palestinese, spiegando che la sua accettazione del dominio di Hamas su Gaza aveva il solo scopo di consolidare la divisione palestinese e impedire uno sforzo internazionale per creare lo Stato promesso.
La realtà del progetto sionista è l’apartheid
Tutto ciò, nonostante il fatto che il concetto stesso di “Stato palestinese” – che Washington approva e che gode di un quasi consenso a livello internazionale – sia un concetto liquidazionista, volto a stabilire uno Stato smilitarizzato (con l’eccezione di armi leggere per la repressione poliziesca) a fianco dello Stato sionista, su una parte dei territori occupati nel 1967, non su tutti, con tale Stato che rimarrà dipendente dal suo vicino proprio come l’attuale “Autorità palestinese” è dipendente da esso e soggetta al suo stretto controllo di sicurezza. Ciò significa che la spada dell’intervento militare israeliano rimarrebbe sospesa sullo Stato palestinese che chiedono, che godrà di fatto di un grado di sovranità inferiore a quello di cui godono le zone di autogoverno istituite nel secolo scorso dallo Stato dell’Apartheid in Sudafrica con il nome di “Bantustan”, condannate dal movimento di liberazione e che tutto il mondo si è rifiutato di riconoscere.
Ciò significa che, in sostanza, la differenza di opinione tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu sul tema dello “Stato palestinese” (che Netanyahu si è guardato bene dal respingere ufficialmente, anche nel piano annunciato per Gaza qualche giorno fa) non è tra un uomo che si preoccupa degli interessi del popolo palestinese e un altro che gli è ostile, ma piuttosto tra due punti di vista che rientrano nello stesso quadro sionista. In effetti, non è sbagliato descrivere la prospettiva del Presidente americano come sionista, dal momento che egli stesso ha sottolineato in diverse occasioni che si considera un “sionista”, spiegando che “non è necessario essere ebrei per essere sionisti”. Questo è evidente, dato che il “sionismo cristiano” costituisce la maggior parte della lobby pro-Israele negli Stati Uniti.
*Traduzione dall’articolo originale in arabo pubblicato dal quotidiano Al-Quds al-Arabi il 27 febbraio. I titoli sono del mensile Inprecor. La traduzione italiana è stata curata dal sito https://rproject.it/