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Negli ultimi giorni sembra aprirsi una possibilità di trattativa sindacale in una delle vertenze più importanti del mondo del lavoro statunitense. Quella della catena di caffetterie Starbucks.  

Il 27 febbraio la dirigenza aziendale ha improvvisamente comunicato di aver raggiunto col Sindacato un accordo di disponibilità ai negoziati e di risoluzione delle pendenze giudiziarie in corso. Qualunque cosa significhi (i colloqui sono ancora in corso), e cosa possa scaturirne, si tratta comunque di un fatto del tutto nuovo.

Il Sindacato sarà riconosciuto come controparte e stipulerà un contratto collettivo di lavoro, ove è presente, in un’azienda che lo ha sempre avversato? Oppure continuerà la politica di terra bruciata attorno ad esso, appaltata con grandi risorse ad un’azienda specializzata? O ancora, le trattative inizieranno, ma al prezzo di un accentramento che esautorerà la voce della base?

“Persone e non macchine da profitto”, così una barista della Louisiana, Lizzie Harlow, ha auspicato possano essere i lavoratori di Starbucks. 

Alcuni di loro avevano fondato nel 2021 il sindacato Starbucks Workers United (SWU), costituito per la maggior parte da giovani e nato contestando le basse retribuzioni (di non molto superiori al salario minimo) e gli alti carichi di lavoro. Non contentandosi di regalìe aziendali, come il pagamento di una parte delle spese sanitarie e delle tasse per l’università, loro avevano aperto una delle campagne sindacali più rilevanti e coraggiose tra quelle che caratterizzano negli ultimi anni il mondo del lavoro negli USA. 

In questi giorni, quella che è stata definita una “guerra di logoramento” è in una fase di forte movimento e lo è certamente in conseguenza del movimento iniziato con una prima vittoria nel dicembre 2021, a Buffalo (Stato di New York). 

Da allora, SWU ha vinto in 400 negozi, sindacalizzando 10.000 lavoratori. Nella sola giornata del 20 febbraio sono state presentate istanze di sindacalizzazione in 21 caffetterie di tutta la Nazione, da cui è stata inviata una lettera congiunta all’Amministratore Delegato dell’azienda che rivendica “salari più alti, orari equi e coerenti, benefici migliori e un posto di lavoro sicuro e dignitoso”. 

Ricordando che negli USA la contrattazione è quasi sempre di “stabilimento”, quasi mai di categoria, raramente di tutte le sedi di un’azienda, anche in Starbucks il tentativo in corso è di contrattare in ogni singola sede in cui i lavoratori hanno votato a maggioranza per aderire al Sindacato. 

Alle istanze dei lavoratori, l’azienda aveva finora contrapposto una sistematica campagna dilatoria e denigratoria, che si stima sia costata 240 milioni di dollari nel solo 2023, rifiutandosi di aprire delle vere trattative per la stipula di un contratto, che non è stato finora possibile firmare in nessuna delle sedi sindacalizzate. 

Sono ormai 130 in 3 anni le citazioni rivolte dal Sindacato all’agenzia federale per i diritti dei lavoratori, NLRB, riguardanti 420 accuse contro Starbucks, e più di 1.100 le denunce per varie violazioni delle leggi sul lavoro: licenziamenti di organizzatori, chiusure dei negozi sindacalizzati, anche se redditizi (il NLRB ne ha individuate 23 a livello nazionale), retribuzioni e benefici migliorati solamente ai lavoratori non sindacalizzati. 

Purtroppo anche quando alcuni tribunali federali accertano delle violazioni di legge, esse comportano solamente una direttiva a contrattare in “buona fede”. Ovviamente insufficiente, in assenza quantomeno di sanzioni pecuniarie, a convincere l’azienda a cambiare atteggiamento. 

L’azienda stessa poi non può essere estranea alle istanze di “decertificazione”, di abiura del Sindacato, che un’organizzazione di destra, la Work Foundation’s Legal Defense Team, ha avviato, con l’aiuto di dipendenti filopadronali, in una quindicina di negozi che avevano votato per l’ingresso del Sindacato. In due di queste sedi, l’istanza è stata rigettata dell’agenzia federale NLRB che, preso atto che Starbucks ha illegalmente rifiutato finora di contrattare nei tempi previsti dalla normativa, ha concesso un ulteriore anno per stipulare un contratto.

In pochi anni, è totalmente compromessa l’immagine di sedicente progressista costruitasi da Howard Schultz (fondatore e ancor oggi principale azionista di Starbucks), che era il probabile candidato alla nomina di Ministro del Lavoro se Hillary Clinton avesse vinto nel 2016 le elezioni presidenziali contro Trump. 

Di fronte all’arroganza padronale, il Sindacato ha prodotto sempre nuove iniziative che si sono aggiunte alle “marce contro il capo”, “cortei interni” nei singoli negozi, ammessi dalla normativa, per consegnare richieste collettive. Un pullman per i diritti dei lavoratori Starbucks ha girato, nel luglio scorso, per gli USA per pubblicizzarne la lotta. Uno sciopero aziendale, definito Red Cup Rebellion,  proclamato il 16 novembre scorso, nel giorno più stressante per il lavoro nelle caffetterie, quello in cui viene regalata una tazza rossa e sconti a chi ordina una bevanda speciale di tipo vacanziero. Un altro sciopero di 3 giorni a dicembre.

Inoltre SEIU, il Sindacato dei servizi di cui SWU è affiliato, aveva richiesto al Dipartimento del Lavoro di costringere Starbucks a pubblicizzare il costo della campagna che contrasta il Sindacato, affidata allo studio legale Littler Mendelson, specializzato in union busting (repressione dell’attività sindacale). 

Nel contempo, iniziative di boicottaggio del marchio sono partite già in 25 campus universitari, con petizioni di studenti e lavoratori che richiedono alle amministrazioni scolastiche di rescindere i legami con Starbucks fino a quando continuerà la repressione del Sindacato. Presso la Cornell University di Ithaca, nello Stato di New York, la cancellazione del contratto con Starbucks, che aveva chiuso tutti i negozi sindacalizzati della zona, colpevoli di “sindacalizzazione”, è già avvenuta.

Infine, Strategic Organizing Center (SOC), una delle due grandi confederazioni statunitensi, a cui aderisce SEIU (che, ricordiamo, è il Sindacato a cui SWU fa riferimento, se pur in modo indipendente) aveva presentato una lista di candidati all’elezione, che si terrà il 13 marzo, del Consiglio di Amministrazione (CdA) di Starbucks. Per la prima volta un Sindacato ha usato gli strumenti tradizionalmente impiegati dai fondi speculativi (hedge fund) per entrare nei CdA di una società. L’ha fatto sulla base di una minuscola quota di azioni detenuta dal suo fondo pensioni sindacale. Brew a Better Starbucks (questo è il titolo dell’iniziativa) sosteneva la tesi che l’antisindacalismo aziendale stava danneggiando, oltre i lavoratori, anche l’immagine, gli incassi, i profitti, il valore delle azioni di Starbucks e la sua credibilità sul mercato. L’idea ha preso spunto della farsesca, e assai propagandata, iniziativa di Starbucks, proposta dall’ormai ex amministratore delegato Howard Schultz, di lasciare una sedia vuota nelle riunioni del proprio CdA per rappresentare gli interessi dei dipendenti.  

 L’azienda si è trovata di fronte ad una progressione di iniziative (alcune indette da SWU e gestite in modo articolato dal basso; altre, più formali, “dall’alto”, attivate da SEIU e SOC) ma soprattutto ha patito una perdita d’immagine (e anche di vendite). 

Si potrebbe dunque pensare che abbia deciso di voltare pagina, o di far finta di farlo: trattare nei singoli negozi sindacalizzati, cosa peraltro mai effettivamente praticata, magari con le strutture sindacali “superiori”, considerate più malleabili (si ricordi che la dirigenza di Starbucks ha per mesi pesantemente attaccato SWU come organizzazione estremista, anche per un post sul suo sito di sostegno alla lotta dei palestinesi). 

Un tentativo, quello aziendale, per cercare di ristabilire, per lo meno fino alla vicina assemblea degli azionisti, su cui sono puntati i riflettori dei media, un’immagine meno truculenta. Un svolta, sempre che lo sia davvero, per uscire da una situazione tale da far chiedere sulle pagine del New York Times del 23 febbraio se Starbucks, sorpassando Amazon, fosse ormai negli USA alla testa dei Villain of Big Labor, le canaglie contro il lavoro organizzato. 

Alcuni risultati per i lavoratori sono comunque già avvenuti a seguito della “svolta”. In primo luogo essa può diminuire la paura che aveva bloccato molti baristi dall’aderire al Sindacato, per non essere associati alla sua conflittualità e perdere il posto di lavoro, come a non pochi aderenti è avvenuto. Inoltre Starbucks ha esteso ai lavoratori dei negozi sindacalizzati la possibilità di aggiungere, come finora concesso solo ai lavoratori dei negozi non sindacalizzati, una mancia ai pagamenti ricevuti con carta di credito (un’importante integrazione dei bassi salari di chi negli USA lavora nei negozi, anche se svilente ai nostri occhi). Saranno probabilmente pagati anche agli iscritti al Sindacato gli aumenti di paga finora loro negati. 

Di converso, la Confederazione SOC ha ritirato il 5 marzo la lista delle proprie candidature al CdA come evidente contropartita della disponibilità aziendale ad aprire le trattative. La possibilità che rappresentanti del Sindacato, se fossero stati eletti nel CdA aziendale, avrebbero potuto portare risultati concreti per i lavoratori, era abbastanza remota. Ma comunque l’iniziativa ha provocato parecchia irritazione nel management

Il ritiro delle candidature al CdA, seppur motivabile fors’anche con la scarsa presa che le candidature hanno fatto sugli azionisti (anche magari di quelli che avrebbero dovuto essere vicini all’iniziativa, come altri Sindacati, tenutari di grandi fondi pensione degli iscritti investiti anche in azioni Starbucks, o amministrazioni progressiste, comunali o di singoli Stati) potrebbe, a questo punto, rappresentare un primo passaggio di centralizzazione delle trattative. 

Sarà da vedere quanto essa si concilierà con l’organizzazione delle bariste e dei baristi di Starbucks e con la loro genuina radicalità e democrazia di base, diventata un simbolo di come ci si possa mobilitare dal basso per i propri diritti. Inventandosi continue forme di attivismo che coinvolgono anche i clienti delle caffetterie. 

L’ovvia speranza dei lavoratori è che finisca la repressione antisindacale e migliorino le condizioni di lavoro. E che la contrattazione per singolo negozio, se e come verrà praticata, sia un primo passo verso un contratto sindacale dell’intera azienda, assai futuribile allo stato attuale. Ma per il quale comunque il Sindacato è già attrezzato, avendo nel cassetto una piattaforma generale. 

Comunque, un’altra nube si addensa sull’azienda: Shaya Group, un gruppo che gestisce in franchising i negozi Starbucks in Medio Oriente e del Nord Africa, ha annunciato che licenzierà oltre 2.000 dipendenti a causa, afferma, della riduzione delle vendite a causa del boicottaggio dei consumatori legato al massacro di ormai 30.000 palestinesi a Gaza. Boicottaggio che ha tratto spunto, senza una vera organizzazione a livello internazionale a proclamarlo, dalla citazione in giudizio di SWU da parte dell’azienda per violazione del marchio, che compare anche nel logo del Sindacato. Denuncia avvenuta dopo che SWU aveva pubblicato nell’ottobre scorso un post sui social di solidarietà con la Palestina. 

Fonti principali:

M.Gruenberg, SEIU demands that Starbucks disclose union-busting spendin, People’s World, 29.1

K.Smith, California college students petition to remove Starbucks from campuses, East Bay Times, 30.1

D.Jamieson, 21 Starbucks Stores Plan To Form Unions In 1-Day Blitz, Huffpost, 20.2

S.Sarkar, A First Contract Is Finally in Sight for Unionized Starbucks Workers, In This Times, 29.2

A.N.Press, The Starbucks Workers’ Union Has Finally Broken Through, Jacobin, 29.2

S.Nagpaul, Starbucks franchise lays off 2,000 employees in the Middle East due to “challenging conditions” from consumer boycotts, Fortune, 7.3

https://sbworkersunited.org/