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Non vi sono dubbi sul fatto che Israele risponderà al lancio di trecentoventi droni, missili da crociera e missili balistici sul suo territorio con un attacco massiccio all’Iran,  e questo per diversi motivi. Il primo è che lo Stato sionista ha deliberatamente intensificato gli attacchi alla “Repubblica islamica” bombardando il consolato iraniano adiacente all’ambasciata iraniana a Damasco. Il mondo intero ha potuto prendere atto di questo attacco, considerandola una pericolosa escalation della guerra a bassa intensità che Israele sta conducendo contro l’Iran da alcuni anni, soprattutto da quando quest’ultimo ha iniziato a estendere la propria rete militare in territorio siriano nel contesto della guerra scoppiata in quel paese più di dieci anni fa. Senza dubbio, Israele si rende conto che non può continuare ad attaccare obiettivi iraniani, e tanto meno intensificare  i propri attacchi, senza che Teheran sia costretta a reagire.

Il fatto è che il leader dell'”asse della resistenza”, come l’Iran ama definirsi, negli ultimi anni, si è trovato in una condizione di grande imbarazzo dovuta alla propria incapacità a tradurre le ripetute minacce in azioni all’altezza delle parole. Il colpo più pericoloso che ha subito prima dell’attacco al suo consolato è stato l’assassinio da parte delle forze statunitensi del comandante della forza Qods del Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche, Qassem Soleimani, proprio all’inizio del 2020 nei pressi dell’aeroporto di Baghdad. La risposta iraniana è stata poco incisiva: si è esaurita nel lancio di dodici missili contro le forze americane dalla base aerea di Ain al-Asad, nel governatorato iracheno di Anbar, dopo aver avvertito dell’attacco in modo che nessun soldato americano rimanesse ferito (tranne alcune vittime di una commozione cerebrale). Donald Trump ha così potuto fare a meno di una rappresaglia, poiché era ovvio che l’assassinio di Soleimani era assai più grave della reazione iraniana, e corrispondeva di fatto a quanto Teheran si aspettava.

Tutto lascia pensare che con il suo recente attacco allo Stato sionista le intenzioni dell’Iran fossero assai simile: salvare la faccia con una rappresaglia, ma limitare l’efficacia della risposta in modo da non suscitare un contrattacco. L’Iran ha lanciato 170 droni e 30 missili da crociera dal proprio territorio, da una distanza di 1.500 chilometri, sapendo che avrebbero impiegato diverse ore per coprire tale distanza, cosicché Israele avrebbe avuto tutto il tempo di prepararsi al loro arrivo, riuscendo così ad abbatterne un grande numero prima ancora che entrassero nel suo spazio aereo, tanto più che aveva l’aiuto dei suoi alleati, guidati dagli Stati Uniti. Teheran sostiene addirittura di aver informato Washington dell’ora dell’attacco, cosa che Washington nega, mentre le sue fonti sostengono di aver saputo in anticipo l’ora dell’attacco grazie all’intelligence (non è chiaro se americana o israeliana).

Comunque sia, il risultato è che nessuno degli ordigni in questione è esploso sul territorio dello Stato sionista. Peggio ancora, dei 120 missili balistici lanciati da Teheran, solo quattro hanno colpito Israele! Lo Stato sionista ha così potuto vantarsi di aver abbattuto “il 99%” di quelli lanciati dall’Iran. Se è vero che l’intenzione dell’Iran era quella di mitigare in qualche misura l’effetto del suo attacco, la portata del fallimento ha certamente superato le aspettative di Teheran, cosicché l’effetto deterrente dell’attacco è stato in ultima analisi molto limitato, e persino controproducente poiché incoraggia Israele a proseguire e a intensificare il confronto. Colpendo il territorio dello Stato sionista, l’Iran è caduto in una trappola tesa da quest’ultimo, che potrebbe permettergli ora di lanciare un contrattacco aperto sul territorio iraniano. Se Teheran si fosse limitata a rispondere in modo proporzionato all’attacco al suo consolato, attaccando, ad esempio, un’ambasciata israeliana nel Bahrein o negli Emirati Arabi Uniti, la sua risposta sarebbe apparsa legittima e non avrebbe dato a Israele una sorta di “diritto all’escalation” di fronte al mondo.

Non è un segreto che Israele si stia preparando da anni a colpire l’Iran, con l’obiettivo di distruggere le strutture nucleari del suo più grande nemico. Questo attacco è diventato molto urgente agli occhi di Israele, poiché Teheran ha notevolmente intensificato l’arricchimento dell’uranio da quando Trump ha ripudiato nel 2018 l’accordo nucleare concluso con l’Iran dal suo predecessore Barack Obama nel 2015. Si stima che Teheran possieda ora abbastanza uranio arricchito, oltre alle capacità tecnologiche, per costruire non meno di tre bombe nucleari in pochi giorni. Questo mette Israele in stato di massima allerta, in quanto la perdita del monopolio regionale sulle armi nucleari sarebbe un grave passo indietro dal punto di vista strategico. Peggio ancora, accrescerebbe i suoi timori di annientamento come piccolo Paese di fronte a nemici che vogliono distruggerlo e la cui ideologia si basa sullo sfruttamento intensivo della memoria del genocidio nazista degli Ebrei europei. Ciò rafforza l’ipotesi che l’attacco al consolato sia stato una provocazione deliberata, parte di un’escalation volta a creare un’opportunità per lo Stato sionista di colpire all’interno del territorio iraniano, in particolare il potenziale nucleare dell’Iran.

È solo la posizione americana a porre un problema, poiché Israele non può rischiare uno scontro totale con il suo nemico iraniano senza la garanzia di protezione fornita dal suo sponsor americano. Israele ha la capacità di colpire l’Iran in profondità, utilizzando i suoi aerei “stealth” F-35, che sfuggono al rilevamento radar. Dispone di quasi 40 di questi aerei, che possono volare per più di 2’200 chilometri a pieno carico, ancora più lontano dopo essersi liberati di metà del proprio carico di armi e carburante. Tuttavia, probabilmente avrebbero bisogno di essere riforniti in volo al ritorno da un attacco in Iran. Ciò richiede l’assistenza degli Stati Uniti o il permesso di utilizzare lo spazio aereo di uno degli alleati arabi dello Stato sionista situato geograficamente tra esso e l’Iran, poiché il processo di rifornimento non potrebbe sfuggire alla sorveglianza radar.

La copertura americana rimane comunque necessaria per Israele e potrebbe sembrare irraggiungibile visto che Washington ha ripetutamente messo in guardia da un’escalation israeliana che potrebbe scatenare una guerra in tutto il Medio Oriente. Il timore degli Stati Uniti non è certo motivato da una preoccupazione pacifista, quanto dal timore che una chiusura dello Stretto di Hormuz e un forte aumento dei prezzi del petrolio possano portare a una nuova crisi dell’economia mondiale. Per lo stesso motivo, Washington non è disposta a intensificare le sanzioni contro l’Iran al punto da imporre un divieto totale sulle sue esportazioni di petrolio. D’altro canto, Washington condivide la preoccupazione di Israele per la possibilità che l’Iran acquisisca armi nucleari e le amministrazioni che si sono succedute alla Casa Bianca hanno ripetuto di considerare questo problema come una linea rossa che richiede il loro intervento.

È quindi possibile dubitare della sincerità degli appelli di Joe Biden alla moderazione, dato che si è spinto più in là del suo predecessore Trump nel sostenere lo Stato sionista fino a partecipare pienamente alla guerra genocida che quest’ultimo ha condotto e sta ancora conducendo contro Gaza. Biden ha invitato alla pazienza e alla de-escalation, confermando che gli Stati Uniti non parteciperanno a un attacco israeliano sul territorio iraniano, ma rimarranno determinati a proteggere il loro alleato regionale, che è esattamente ciò di cui quest’ultimo ha bisogno per lanciare il proprio attacco. Israele è consapevole che l’amministrazione statunitense non può correre il rischio di partecipare a un attacco il cui esito è incerto e il cui fallimento potrebbe avere ripercussioni su di essa e portare alla sconfitta di Joe Biden alle elezioni presidenziali del prossimo autunno. La conclusione che si può trarre da tutto ciò è che la logica strategica impone a Teheran di accelerare l’acquisizione di armi nucleari e di renderlo noto una volta che l’abbia fatto, poiché questo è il mezzo di deterrenza più efficace che l’Iran possa procurarsi.

*professore al SOAS di Londra. L’articolo è apparso  sulla tribuna settimanale che l’autore tiene su quotidiano in lingua araba Al-Quds al-Arabi di Londra, mercoledì 17 aprile 2024.

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