Tempo di lettura: 4 minuti

“Teheran si è trovata con le spalle al muro a causa dell’attacco al suo consolato”. Lo studioso franco-libanese ripercorre l’attacco israeliano contro il consolato di Damasco e analizza la risposta di Theran e gli effetti sui negoziati in corso per porre fine alla guerra a Gaza.

Cosa voleva Israele colpendo il consolato iraniano a Damasco?

L’attacco israeliano ha proseguito la lunga serie di attacchi contro obiettivi iraniani in Siria iniziata circa dieci anni fa, quando l’Iran ha iniziato a insediarsi nel paese cogliendo l’opportunità creata dalla guerra civile seguita alla rivolta popolare del 2011.

Tuttavia, le autorità israeliane non potevano ignorare che la distruzione del consolato, adiacente all’ambasciata iraniana, costituiva un’escalation importante, anche al di là dell’identità delle vittime che comprendevano un alto membro del Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC), il braccio armato ideologico del regime iraniano, e altri sette ufficiali.

Mi sembra quindi che si sia trattato di una provocazione deliberata, volta a provocare una risposta iraniana e a mettere in moto una spirale che potrebbe portare a un’azione su larga scala contro l’Iran.

Ci sono due ragioni principali, una “banale” e l’altra strategica. La ragione banale è che la corsa militare è nell’interesse di Benjamin Netanyahu, il cui mantenimento del potere è condizionato dallo stato di guerra, come tutti sanno. È anche nell’interesse dell’intero governo israeliano, che sta affrontando una crescente antipatia nell’opinione pubblica occidentale. Tuttavia, un confronto con l’Iran, che ha un’immagine molto negativa, è probabile che ripristini la solidarietà occidentale con Israele. Questo vale anche per l’amministrazione Biden, che ha recentemente sofferto del deterioramento dell’immagine del suo alleato israeliano.

Quanto alla ragione strategica, è ovvia: da quando Donald Trump ha ripudiato nel 2018 l’accordo nucleare concluso nel 2015 con l’Iran, quest’ultimo ha accelerato notevolmente la sua attività di arricchimento dell’uranio, al punto che oggi si stima che Teheran impiegherebbe pochi giorni per produrre almeno tre bombe nucleari. Se aggiungiamo la capacità di attacco a distanza dell’Iran, che abbiamo visto dimostrata sabato scorso, è facile comprendere il timore di Israele di perdere il monopolio regionale delle armi nucleari, e quindi la sua capacità di dissuasione.

Certo, Israele possiede un numero considerevole di testate nucleari, ma il suo territorio è molto più piccolo di quello dell’Iran. Si teme quindi che l’attacco al consolato sia stato concepito come la prima salva di un’escalation militare che porti a un attacco israeliano contro il potenziale nucleare dell’Iran.

Cosa possiamo leggere nella risposta iraniana?

Possiamo leggere un grande imbarazzo. Teheran si è trovata con le spalle al muro a causa dell’attacco al suo consolato. La sua “credibilità” di deterrente è stata notevolmente erosa negli anni da ripetute promesse di vendetta mai mantenute, almeno a livello significativo, come dopo l’assassinio in Iraq, ordinato da Trump nel gennaio 2020, del capo della forza Al-Quds dell’IRGC, Qasem Soleimani.

È mancato anche un intervento diretto contro la guerra di Israele a Gaza, contrariamente alle sollecitazioni di Hamas. L’Iran si è accontentato di coinvolgere i suoi alleati libanesi e yemeniti, con una chiara autolimitazione nel caso degli Hezbollah libanesi.

Teheran ha quindi dovuto agire questa volta per non perdere completamente la faccia. Allo stesso tempo, i leader iraniani sono consapevoli dell’obiettivo della provocazione israeliana e temono che un attacco sul loro territorio possa avvenire prima che abbiano raggiunto l’equilibrio del terrore con l’acquisizione di armi nucleari.

Per questo motivo hanno optato per un attacco apparentemente massiccio, che sapevano non avrebbe avuto un grande impatto. Lanciare un attacco contro uno stato dotato della migliore difesa aerea del mondo e aiutato da potenti alleati, in primis gli Stati Uniti, per mezzo di droni e missili da crociera da 1.500 chilometri di distanza, per un viaggio di diverse ore, significa aspettarsi che ben poco arrivi a destinazione. Solo pochi missili balistici sono riusciti a sfuggire alla rete di protezione israeliana.

Fonti iraniane si sono affrettate a dichiarare chiusa la questione per quanto riguarda l’Iran. Questo è davvero molto ingenuo. Se avessero attaccato una rappresentanza diplomatica israeliana negli Emirati Arabi Uniti o in Bahrein, ad esempio, nessuno avrebbe potuto biasimarli seriamente. Ma lanciando centinaia di ordigni direttamente sul territorio israeliano, sono caduti nella trappola, legittimando così un attacco israeliano diretto sul proprio territorio.

Non è molto difficile capire che hanno dimostrato allo stesso tempo la minaccia che rappresentano per Israele, rafforzando così l’argomentazione israeliana per una distruzione preventiva del loro potenziale, e la loro debolezza strategica di fronte a un avversario molto più attrezzato di loro. A mio avviso, si tratta di un errore che potrebbe rivelarsi altrettanto monumentale di quello commesso da Hamas con il lancio dell’operazione del 7 ottobre 2023.

Quali sono le conseguenze per la guerra a Gaza e per i negoziati?

I negoziati erano già bloccati prima di tutto questo. Ora, le prospettive di un accordo sono diventate molto scarse, soprattutto perché la pressione occidentale su Israele molto probabilmente diminuirà d’intensità e perché l’incertezza aleggia sul destino degli ostaggi.

Israele ha già distrutto la maggior parte di Gaza, trasformandola in un poligono di tiro e in un campo di intervento occasionale delle sue forze armate. Resta Rafah, che Israele si prepara a invadere dopo aver sfollato la popolazione civile. Questo richiede uno sforzo molto minore rispetto all’offensiva condotta fino allo scorso gennaio.

Inoltre, il confronto con l’Iran non richiede ulteriori mobilitazioni di terra, se non nel nord per scongiurare una possibile offensiva di Hezbollah. Per quanto riguarda il potenziale israeliano di attacco a distanza, esso rimane intatto poiché l’amministrazione Biden fa in modo di mantenerlo ad alti livelli attraverso continue consegne di armi, oltre al suo contributo diretto alla spinta bellica israeliana.

*l’intervista è apparsa sul giornale l’Humanité a cura di Pierre Barbance. La traduzione in italiano è stata curata da Andrea Martini.

Print Friendly, PDF & Email