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Oggi in Italia si celebra il 25 aprile. Ma quello di oggi non è solo il 79° anniversario della Liberazione. Sono anche esattamente 18 mesi dall’insediamento di un governo sotto il controllo degli eredi della Repubblica di Salò. Uno sguardo critico su quel che avvenne concretamente 79 anni fa.

Infatti, il 25 aprile del 1945, reparti di partigiani antifascisti liberarono i centri industriali settentrionali di Milano e Torino dagli occupanti hitleriani e dagli ultimi seguaci di Mussolini, dopo che gli eserciti “alleati” avevano risalito il paese. Tre giorni dopo, il 28 del mese, i partigiani catturarono e giustiziarono il duce e i suoi più stretti collaboratori.

In realtà, in quella fatidica giornata nella quale furono definitivamente sbaragliate le truppe nazifasciste, l’Italia che i partigiani (in larghissima parte comunisti) avevano liberato dal fascismo veniva riconsegnata  alle vecchie élite, proprio a quelle che nel 1922-25 avevano scelto di consentire e per certi versi di agevolare la presa del potere da parte di Mussolini e della sue “camicie nere”.

Certo, si trattava di élite ferite dalla ventennale avventura fascista, consapevoli di non poter mettere subito nell’angolo la sinistra che aveva offerto il grosso delle forze umane della Resistenza e del sangue versato nella Guerra di liberazione, élite che dovevano ancora nascondersi dietro il CNL e il suo mito della “unità nazionale”, ma che erano comunque pronte a riprendere il loro controllo sull’economia e sullo stato.

Non si può negare che tutto ciò avvenne sotto il vigile controllo delle “forze alleate” che d’altra parte avevano sottoscritto un patto con Stalin che fissava le “sfere di influenza” per le diverse potenze vincitrici, assegnando senza dubbio l’Italia al controllo dell’Occidente capitalista.

6 maggio del 1945: i capi del CLN (Comitato Liberazione Nazionale) Italia sfilano per la Liberazione a Milano. Da sinistra a destra: Mario Argenton (del Partito Liberale Italiano), Giovanni Stucchi (del Partito socialista), Ferruccio Parri (del Partito d’Azione), Raffaele Cadorna (badogliano e poi democristiano), Luigi Longo (del Partito comunista italiano), Enrico Mattei (della Democrazia cristiana) e Augusto Solari (della Democrazia cristiana).

La “lealtà” verso il capitalismo

Il PCI utilizzò a piene mani il prestigio guadagnato nella Resistenza per sostenere la ricostruzione dell’economia capitalista e padronale del paese. Vale la pena di ricordare qualche passo di un articolo del 1946 di  “Ulisse” (Davide Lajolo) su “Rinascita”: “gli operai si lamentano, ma lavorano, soffrono la fame ma lavorano. E’ una guerra anche questa, ma c’è una differenza tra le altre guerre e questa: allora si combatteva per qualcosa di personale, si portava il conto alla Patria. Oggi no. Abbandonato il mitra, lasciata la collina, la lotta ha l’arma della nostra onestà e della nostra dirittura morale”.

Palmiro Togliatti, l’indiscusso leader del PCI, dopo aver espresso sostegno alle misure antisciopero introdotte dal comando “alleato”, si vantò durante i lavori della Costituente affermando che l’Italia “è il paese dove si fanno meno scioperi”. Nel gennaio 1946 venne stipulato l’accordo sullo sblocco dei licenziamenti, con una significativa clausola che all’articolo 2 sanzionava i lavoratori “inosservanti dei doveri di disciplina e di normale produttività”.

E’ particolarmente significativo un documento del PCI milanese che incitava ad un maggior impegno nel lavoro: “Le cellule di fabbrica ed i compagni responsabili si devono … mobilitare, devono con l’esempio incitare al lavoro, alla disciplina. Molti operai non hanno voglia di lavorare, perché dicono che in fondo nulla è cambiato, sono ancora e sempre degli ‘sfruttati’ che lavorano per il padrone”.

Così, dopo aver intascato il disarmo dei partigiani e l’amnistia per i criminali fascisti promulgata dal ministro della Giustizia Palmiro Togliatti, la DC di Alcide De Gasperi e gli altri partiti “democratici antifascisti” cacciarono la sinistra all’opposizione, perfino consegnando numerosi partigiani ai tribunali di nuovo in mano ai giudici e ai poliziotti ex-fascisti.

Nel gennaio 1946, quando un gruppo di operai bastonò alcuni dirigenti della Breda, l’Unità rispolvera di nuovo il “teorema” della provocazione e accusa non meglio precisati “elementi dichiaratamente trotskisti”, dichiarando che il partito è “disposto a fare di tutto perché i fascisti ed i trotskisti responsabili di queste provocazioni siano scoperti e deferiti all’autorità giudiziaria”.

Ma, nonostante tutta questa servile benevolenza e disponibilità filocapitalista, crebbe la controffensiva anticomunista che sfociò nel luglio 1948 nell’attentato a Togliatti, quando la leadership del PCI e della CGIL revocarono lo sciopero spontaneo e richiamarono all’ordine tutti quei militanti che avevano occupato, a volte con le armi, luoghi di lavoro e commissariati.

Il patto costituzionale

Il risultato più significativo di quella “unità nazionale antifascista” fu certamente la Costituzione del 1948, ma si è potuto rapidamente verificare che il “patto costituzionale” era scritto sulla sabbia.

Erano scritte sulla sabbia le affermazioni sulla “Repubblica fondata sul lavoro” (art. 1), che si impegna a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che… impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (articolo 3), sul “diritto al lavoro” (articolo 4), sul “diritto d’asilo” per “lo straniero a cui sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” (articolo 10), sul “diritto di manifestare” (articolo 17), per non parlare della garanzia di “cure gratuite agli indigenti” (articolo 32), della “tutela del lavoro in tutte le sue forme” (articolo 35), sul “diritto ad una retribuzione … sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (articolo 36), sulla “parità di diritti e di retribuzione per la donna lavoratrice” (articolo 37), sulla regola per cui “l’iniziativa economica privata … non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (articolo 41), sulla “funzione sociale della proprietà privata” (articolo 42) o le parole al vento sulla proprietà pubblica di “imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale” (articolo 44), sulla “funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata” (articolo 45).

E poi ci sono state le leggi anticostituzionali, come le leggi elettorali degli ultimi decenni che, con quote di sbarramento e regole maggioritarie, trasgrediscono all’articolo 48 che stabilisce uguale valore a tutte le espressioni di voto, le disposizioni sulla “flat tax” e la drastica riduzione delle aliquote fiscali per i più ricchi e per le rendite finanziarie che trasgrediscono all’articolo 53 sulla progressività della tasse, per non parlare della spudorata violazione (da parte di governi di ogni “colore”, attraverso la continua decretazione d’urgenza con provvedimenti “omnibus” o con la decretazione delegata) di quanto prescritto dall’articolo 76 che recita “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non … per tempo limitato e per oggetti definiti”.

E in arrivo, su iniziativa del governo degli “eredi di Salò”, ci sono l’autonomia differenziata e il premierato.

Per la 79a volta, nelle celebrazioni del 25 aprile si chiederà il mantenimento di quella “promessa costituzionale”, ben sapendo che ancora una volta la risposta sarà la stessa beffarda, quella dei 50 anni di potere democristiano, quella dei 25 anni di potere berlusconiano, renziano o “tecnico”, anche se stavolta verrà dagli epigoni del MSI.

Un antifascismo patriottico

Per 45 anni il PCI si è sforzato di affermare la propria legittimità politica insistendo nel ricordare il suo atteggiamento “patriottico” al momento della “comune causa antifascista e antinazista”.

Anche gli episodi più chiaramente classisti della resistenza, gli scioperi, le occupazioni di terre, le diserzioni dall’esercito, il PCI li presentava in termini “patriottici”, come contributi della classe operaia al perseguimento del “ripristino della democrazia”, piuttosto che momenti di affermazione degli interessi di classe dei lavoratori. E non a caso, dopo la liberazione, Togliatti approvò il congelamento dei salari e un parziale divieto di sciopero, al fine della ricostruzione dell’industria “nazionale”.

Togliatti, prima percependo la drastica svolta a destra che si profila e poi dopo la cacciata del del PCI dal governo, si affannò ancora a sottolineare l’atteggiamento complice nei confronti della ricostruzione capitalistica del paese: all’Assemblea Costituente, nel giugno 1947, ricorda che “gli operai hanno fatto di piú, hanno moderato il loro movimento, l’hanno frenato, hanno accettato la tregua salariale, cioè una sospensione degli aumenti salariali senza che vi fosse la corrispondente sospensione degli aumenti dei prezzi, hanno trattato recentemente la proroga di questa tregua, cioè hanno dimostrato capacità di direzione politica ed economica nella vita del paese. Nulla si può rimproverare agli operai, ai lavoratori, e quei partiti dei lavoratori che meglio li rappresentano non possono essere oggetto della manovra di cui sono fatti oggetto”.

Per un definitivo giudizio sulla strategia patriottica e filocapitalista del PCI, sarebbe consigliabile la lettura per intero di quell’intervento dell’allora segretario generale del PCI del 20 giugno 1947 (reperibile qui nel resoconto stenografato, vedi pagg. 5085-5097), intervento in risposta appunto alla cacciata dal governo dopo la cosiddetta “crisi di maggio”.

Naturalmente nessuno può disconoscere l’abile strategia comunicativa togliattiana, basata su di una radicalità presente solo nelle parole e nei proclami, accompagnata ad una strategia politica che rimarrà sempre basata sulla difesa dell’ordine costituzionale e sul rinnovamento del “patto democratico e antifascista” con gli altri protagonisti della stagione del CLN.

Anche sul piano strategico il PCI aveva deciso di “cambiare pelle”, arrivando a stravolgere il pensiero di Gramsci, presentandolo come un precursore di una “via italiana al socialismo”, gradualista e istituzionale, tanto da far scrivere nel 1965 al socialista luxemburghiano Lelio Basso su “Critica Marxista”:

Nonostante la preponderanza organizzativa del movimento operaio nella resistenza, furono i nostri avversari a riuscire a egemonizzarlo politicamente… L’unità nazionale o antifascista aveva senso in termini di puro obiettivo di vincere la guerra, mentre solo con una più stretta unità della classe operaia sugli obiettivi dell’immediato dopoguerra il movimento operaio avrebbe potuto davvero egemonizzare la lotta di liberazione, imponendo il proprio spirito, la propria impronta e volontà, la propria ideologia e i propri obiettivi.

La cancellazione del carattere di classe della Resistenza

Non è un caso che, in 79 anni da quel 25 aprile, le celebrazioni hanno sempre esaltato il “valore nazionale” della Resistenza, rimuovendone il carattere di classe. E se è stato deliberatamente cancellato e dimenticato il contributo umano, militare e politico delle formazioni antifasciste più schiettamente classiste e appunto schierate contro l’unità nazionale.

Queste peraltro non rappresentavano tanto un atteggiamento ideologico ma una crescente spinta popolare antiborghese e antimonarchica (per le responsabilità della classe dominante e del re nell’avvento del fascismo e nell’entrata in guerra), ben espressa dalla canzone popolare della “Badoglieide” che recitava a rima incrociata: “O Badoglio, Pietro Badoglio / ingrassato dal Fascio Littorio / col tuo degno compare Vittorio / ci hai già rotto abbastanza i coglion”.

II gruppo “Stella Rossa” di Torino, forte in città di oltre 2.000 militanti, che pubblicava l’omonimo giornale clandestino dal 1944, che si autodefinisce “organo del PCI di cui rappresenta la corrente critica dal punto di vista della classe” e che scrive: “Non basta … ricostruire lo stato borghese antifascista, ma occorre invece costituire la repubblica sovietica italiana”. Il PCI, invece, incaricò di scrivere la risposta il “sinistro” Pietro Secchia che, utilizzando un linguaggio recuperato dai processi di Mosca, accusò, nell’articolo “Sinistrismo maschera della Gestapo!”, “Stella Rossa” di essere composta da “bordighisti al servizio della polizia fascista”, salvo poi riaccettare il loro rientro nel partito nel 1945.

La rivolta popolare di Ragusa, dove nel gennaio 1945, sotto il dominio angloamericano, la gente scende in piazza contro il re e il servizio militare obbligatorio al grido di “Nun si parti”. La locale federazione del PCI si mette inopinatamente alla testa di quella mobilitazione che sfocia in 4 giorni di scontri armati in tutta la provincia, con una ventina di morti da entrambe le parti, manifestanti e carabinieri. Il PCI e il suo emissario locale Li Causi sconfessano i comunisti locali in un articolo sull’Unità intitolato “Rigurgiti della reazione fascista. I latifondisti siciliani contro il popolo e contro l’Italia”.

I fatti di Schio, in provincia di Vicenza, dove, dopo la liberazione, lo scioglimento delle brigate partigiane e la restituzione delle armi, gli antifascisti assistono esterrefatti al progressivo rilascio dei pochi fascisti incarcerati, tanto che Ignazio Silone scrive sull’Avanti: “Il bilancio dell’epurazione, non è il caso di dissimularcelo, lascia tutti insoddisfatti”. Così, alcuni partigiani ritengono sia il momento di praticare in prima persona la “giustizia popolare”, penetrano nel carcere, separano i detenuti comuni dai politici e giustiziano a raffiche di mitra quelli ritenuti piú colpevoli. Anche in questo caso, nonostante gli scioperi spontanei e le manifestazioni popolari a favore dei sei partigiani accusati dell’azione, l’Unità stigmatizza il “gesto di pochi irresponsabili, trascinati da un impeto di bestiale furore… opera di alcuni rappresentanti di un sedicente partito internazionalista di tipo trotskista-bordighista”.

E riguardo a non rari episodi nei quali alcuni gruppi di partigiani risalgono sulle montagne e danno vita a nuove formazioni armate, attaccando obiettivi fascisti e padronali, la solita Unità pubblica un articolo intitolato “Provocazione e maschera rossa” nel quale si accusano “gruppi reazionari e conservatori, che provvedono ad adescare qualche giovane esaltato, si preoccupano di stampare volantini piú o meno rossi usurpando il nome glorioso dei GAP, lanciano programmi di nuove formazioni pseudo-partigiane dall’immancabile denominazione di Guardia rossa”. Ed effettivamente le strutture del PCI, su istruzione della direzione nazionale, collaborano attivamente con i carabinieri nella ricerca dei “provocatori”, in particolare per sgominare nel Biellese il “Movimento di Resistenza popolare” (MRP), con l’arresto nell’ottobre 1946 del capo di questo movimento, Carlo Andreoni, e in Emilia le nuove formazioni partigiane, riferendo con orgoglio sull’Unità sui principali episodi di collaborazione tra il partito e le “forze dell’ordine”. E l’Unità usò nei confronti di questi partigiani epiteti spregiativi: “neofascisti”, “provocatori”, “banditi da strada”, “agenti della monarchia”, “spie”.

Fu solo il socialista Sandro Pertini a stigmatizzare questo comportamento del partito di Togliatti, respingendo “sia dal punto di vista politico, come dal punto di vista morale” la definizione di “squadrismo” rivolta a “uomini che furono al nostro fianco”, confutando che Andreoni fosse stato un agente della polizia fascista e rivendicando il rilascio degli arrestati.

L’atteggiamento severo e zelante nel condannare e nel denunciare i partigiani che non volevano deporre le armi, contrasta con la famigerata amnistia che Togliatti nel 1946 promulga per svuotare le galere dai criminali fascisti. Forse per fare spazio per gli ex partigiani arrestati dalla polizia “democratica”.

La “Volante Rossa” di Sesto San Giovanni. Nel febbraio 1949 sale alla ribalta della cronaca la Volante Rossa – Brigate Garibaldi – Martiri Partigiani, una formazione che già da due anni operava nel milanese, ed in particolare a Sesto San Giovanni, riprendendo il nome usato durante la Resistenza da due formazioni partigiane attive nell’Ossola e nell’Oltrepò pavese. Le sue azioni sono essenzialmente di “giustizia popolare” (con pestaggi, esposizioni alla gogna, e in qualche caso con l’uccisione) contro fascisti e dirigenti d’azienda. Si ricorda in particolare la “sentenza di morte” eseguita a Milano contro il fascista Felice Ghisalberti, responsabile dell’uccisione di Eugenio Curiel ma assolto da un tribunale “antifascista”.

Il suo inno incominciava così: Qui vi presento la Volante Rossa / Siam partigiani di vecchie formazioni / Di nuovo uniti per fare nuove azioni / Contro il nemico che ancor ci spezza il cuor.

Con la totale acquiescenza, anzi, con la collaborazione del PCI, pur relegato ormai da tempo all’opposizione, la reazione democristiana fa incarcerare centinaia e centinaia di partigiani. Viceversa, vengono rimessi in libertà, nel febbraio 1949, il “principe” Valerio Borghese, capo di Stato maggiore repubblichino, riconosciuto responsabile di innumerevoli fucilazioni di partigiani, e, a metà del 1950, il maresciallo Rodolfo Graziani, capo dell’esercito repubblichino e, già prima, massacratore di migliaia di civili libici.

In extremis, Palmiro Togliatti, umiliato all’opposizione e consapevole del disorientamento della base del partito, cerca di porre rimedio con un articolo del febbraio 1949, nel quale difende il movimento partigiano dalle accuse democristiane: “Erano dunque dei malfattori attuali o potenziali gli uomini, i giovani che per due anni combatterono come volontari della libertà? Condanniamo e respingiamo nel modo piú energico gli atti di terrore, veicolo, tra l’altro, di delinquenza comune e di provocazione, ma in pari tempo vogliamo capire su quale terreno questi atti maturano perché essi sono sintomo, sempre o quasi sempre, di situazioni gravi, di squilibri politici e sociali su cui a lungo non ci si regge”.

Ma ormai era troppo poco e troppo tardi, ci vorranno più di 15 anni prima che il movimento operaio si risollevasse e tornasse all’offensiva.