Tempo di lettura: 12 minuti

Un’interpretazione critica della Liberazione che supera i limiti dei miti e della retorica abituale

Quest’anno le abituali celebrazioni del 25 aprile assumono un carattere specifico. La costituzione al governo di una maggioranza che si collega culturalmente al regime mussoliniano, impone una presenza cospicua alle manifestazioni. È necessaria una reazione a questa deriva culturale verso impostazioni che sembravano superate e che rimarcano invece la validità di riflessioni che presentino l’intera esperienza del ventennio fascista come qualcosa da cui si vuole prendere definitivamente le distanze.  Tuttavia sono ancora una volta prevalse impostazioni per così dire legalitarie tese a presentare quegli eventi in maniera superficiale, cioè come una lotta di massa che aveva l’esclusivo obiettivo di garantire la fine della dittatura fascista e l’avvio di una forma di rappresentatività democratica e partecipativa. In effetti, la realtà fu ben altra cosa e impone precisazioni essenziali.

   Tutto prende le mosse nell’inverno 1942-43 quando si manifestano chiari sintomi di ripresa politica, stimolati anche dalle notizie che pervengono in relazione all’andamento del conflitto russo-tedesco, dopo che a Stalingrado il meglio della Wehrmacht hitleriana viene letteralmente stritolato dalle forze sovietiche, con inevitabile coinvolgimento del contingente italiano – ARMIR – sconsideratamente inviato da Mussolini per partecipare al banchetto sovietico quando sembrava che le cose volgessero al meglio per le truppe tedesche. Né le cose sembrano andare meglio sul versante africano dove ad Al-Alamein i contingenti italo-germanici subiscono un’irreversibile sconfitta dalle forze anglo-americane. E quella sconfitta segna una svolta tattica che dà l’avvio ai tremendi bombardamenti anglo-americani sulle città italiane. A ciò vanno aggiunte le crescenti difficoltà economiche che aggravano la condizione di vita dei ceti popolari con rapidità incredibile che, unitamente alla percezione dell’inevitabile sconfitta militare, trasformano l’abituale opposizione del proletariato urbano al fascismo in forme di lotta di settori cospicui di classe operaia. Il PCI è capace di innevarsi efficacemente in queste tendenze innovatrici, allargando efficacemente il proprio raggio di azione clandestino.

   Nel frattempo anche i gruppi dirigenti della borghesia italiana, sinora perfettamente integrati nel regime fascista – di cui sostanzialmente sono i mandanti -, si rendono conto dell’evolversi della situazione. In pratica agli esponenti più autorevoli delle classi dirigenti – imprenditori, finanzieri, agrari, gerarchie militari ed ecclesiastiche – appare ormai chiaro che il fascismo ha perso la guerra e che Mussolini dal suo canto sta perdendo il controllo della situazione. Di qui la necessità di trovare una soluzione politica di ricambio, con l’obiettivo di fondo di avviare contatti con gli anglo-americani – nel frattempo sbarcati in Sicilia e in continuo avanzamento al Sud – per garantire, nonostante la sconfitta militare, la conservazione di un orientamento sociale e politico che non metta in discussione il mantenimento dell’ordine costituito. Insomma la lotta crescente al fascismo non deve assolutamente approfondirsi, per poi divenire lotta al sistema capitalista.

   Si delinea quindi una marcata giustapposizione tra le forze conservatrici, che includono anche la stessa casa reale, che ormai puntano ad un’operazione trasformista tesa a salvaguardare i loro fondamentali interessi di classe, e un’embrionale radicalizzazione classista e popolare che sospinge per soluzioni più accentuate e alimenta la crescita del Partito comunista, a cui fa riscontro l’incremento di altri organismi politici che si richiamano al movimento operaio, come il PSI o il Partito d’Azione. Al tempo stesso gli scioperi si estendono repentinamente in tutta Italia settentrionale, con una connotazione politica sempre più accentuata.

    Nel frattempo gli avvenimenti incalzano a ritmo sempre più sostenuto. Il già descritto sbarco americano in Sicilia e il conseguente avanzamento nell’Italia meridionale, l’esito dei colloqui Hitler-Mussolini a Feltre da cui è emerso che l’appoggio dei reparti tedeschi già presenti in Italia non può superare limiti ben precisi in favore del regime fascista, il primo bombardamento americano su Roma inducono i ceti sociali dirigenti a serrare i tempi. Il progetto di liquidazione di Mussolini, preparato dalla casa reale e dallo stesso stato maggiore, ha a questo punto, un avallo anche da parte  di una frazione abbastanza consistente dello stesso partito fascista che fa leva sul timore della borghesia di una radicalizzazione delle lotte che poi, a livello politico complessivo, potrebbe mettere in discussione l’intero sistema capitalistico. In breve una situazione specifica che porta il re a dimettere Mussolini e a trasferirlo a Campo Imperatore, dove però di lì a breve sarà “liberato” da reparti  nazisti specializzati e trasferito in Germania, dove Hitler gli affiderà il compito di dirigere sotto stretta sorveglianza dei reparti nazisti la fantomatica Repubblica Sociale Italiana.

    A Roma intanto il re ha nominato Primo ministro Badoglio – cioè un fascista – con il compito dichiarato di trattare la resa con gli americani in modo da venir fuori in qualche modo dalla situazione venutasi a determinare e prevenire ulteriori radicalizzazioni popolari dagli esiti imprevedibili. E Badoglio si dà subito un gran da fare se il 3 settembre del 1944 si addiviene a Cassibile all’armistizio tra l’Italia badogliana e gli anglo-americani; il giorno 8, subito dopo l’annuncio ufficiale dell’accordo, il re, Badoglio e tutto il sedicente governo formato da quadri di orientamento fascista fuggono da Roma per sottrarsi alla rappresaglia delle truppe tedesche e si rifugiano a Brindisi sotto la protezione dell’esercito anglo-americano.

   In linea di massima gli anglo-americani condividono le apprensioni in merito alla situazione che si sta delineando in Italia dove la crescente  acutizzazione dei contrasti sociali e politici potrebbe portare a mettere in discussione le stesse strutture capitalistico-borghesi; in tal senso, dopo qualche significativa esitazione, si orientano a sostenere il governo Badoglio ritenuto, nel contesto dato, l’unico in grado di garantire la transizione verso un esito moderato che eviti drastici mutamenti socio-economici . Insomma l’obiettivo dichiarato è scaricare il fascismo, ma fare salve le fondamenta del sistema capitalistico-borghese.

   Dal suo canto l’Unione Sovietica staliniana esprime esigenze estremamente contraddittorie. E questo perché il formarsi di una casta burocratica sul ceppo dello Stato operaio nato dalla rivoluzione del 1917 fa registrare un netto rifiuto della dirigenza sovietica allo sviluppo del processo rivoluzionario nei paesi a capitalismo avanzato, in quanto una tale evenienza creerebbe le premesse  per un socialismo partecipato dal basso e con piena partecipazione del corpo sociale, cioè esattamente l’opposto di quel “socialismo da caserma” consolidatosi in Unione Sovietica, venutosi a determinare dopo che il processo rivoluzionario aveva trionfato in un paese estremamente arretrato, ma non aveva trovato gli auspicati riscontri nei paesi a capitalismo avanzato. In pratica una rivoluzione socialista vittoriosa in un paese capitalista avanzato potrebbe determinare ripercussioni specifiche in Unione Sovietica del tutto sgradite alle eminenze grigie del Cremlino.

   A queste sollecitazioni di fondo la dirigenza staliniana cumula l’esigenza di non irritare le leadership inglesi e americane con le quali ha faticosamente raggiunto un accordo per uno sforzo militare congiunto dopo l’attacco hitleriano all’URSS del 1941. Anzi per far sì che l’accordo andasse in porto con i suoi diffidenti interlocutori che continuavano a ritenere come i sovietici volessero ancora esportare la rivoluzione nei paesi capitalisti, Stalin non  aveva  esitato nel maggio del  1943 a sciogliere l’Internazionale Comunista che a suo tempo Lenin e Trotckji avevano inteso fondare come partito unico mondiale per la generalizzazione del processo rivoluzionario a livello internazionale. E l’accordo convenuto tra le eminenze staliniane e le dirigenze anglo-americane si sostanzia rapidamente in convergenze ben precise per la regolamentazione della vicenda italiana sin dall’Ottobre del 1943, quando i “tre grandi” in una “Dichiarazione sull’Italia” sanciscono il riconoscimento del governo Badoglio, anche se viene auspicata una generica inclusione nella compagine governativa dei“rappresentanti di quei settori del popolo che si sono opposti al fascismo”. Dal suo canto Palmiro Togliatti, dal confortevole esilio moscovita, non esiterà a farsi interprete puntuale di questi deliberati della burocrazia staliniana, grazie ad un articolo pubblicato sulla “Pravda” il 12 novembre 1943 in cui valuta la “dichiarazione” dei “tre grandi“ in termini assolutamente elogiativi, in quanto a suo dire “le misure indicate in questa dichiarazione corrispondono esattamente alle aspirazioni e agli interessi del popolo italiano”. Così indipendentemente dalla situazione reale che matura in Italia, il 14 marzo 1944 viene annunciato che l’URSS ha deciso di procedere ad uno scambio di rappresentanze diplomatiche con il governo Badoglio. In pratica via libera sovietico al progetto degli anglo-americani e della borghesia italiana di stabilizzare la situazione e di contenere ogni eventuale accentuazione dello scontro politico già in atto, proprio mentre al Nord dell’Italia le organizzazioni del movimento partigiano – il CLN – tendono più o meno empiricamente ad opporsi al governo Badoglio, con prese di posizioni ufficiali che marcano l’esigenza di un “governo straordinario”.

   Dal suo canto la direzione togliattiana del PCI risulta totalmente allineata nei confronti delle direttive della leadership staliniana. A voler stare alle memorie di Molotov, prima di lasciare l’Unione Sovietica Togliatti viene opportunamente ricevuto da Stalin che lo istruisce adeguatamente circa gli orientamenti che devono animare il suo operato al momento del rientro in Italia: evitare di richiedere la prioritaria destituzione del re e effettuare ogni tentativo per entrare nel governo Badoglio con il fine di costituire un fronte ampio capace poi di impegnare il più possibile le truppe naziste presenti in Italia.  Un quadro di riferimento ben preciso che impone a Togliatti comportamenti conseguenti; in pratica, una volta rientrato in Italia, Togliatti si preoccuperà di confermare questa linea estremamente conciliativa per cui, a Salerno, ribadisce a chiare lettere l’esigenza di un fronte largo che può includere anche il re, di cui non viene richiesta la preventiva abdicazione, ma deve solo provvedere a contrastare il più efficacemente possibile le truppe naziste dislocate in Italia. Insomma l’adeguamento passivo più incondizionato alle direttive staliniane. Ormai i tempi sono maturi perché la direzione comunista si assuma dirette responsabilità in quest’opera di stabilizzazione complessiva, per cui, sotto l’avallo anglo-americano, si giunge alla formazione di un secondo governo Badoglio con la diretta partecipazione dei comunisti. Così Togliatti va alla Vice-Presidenza, Grillo all’agricoltura, Pesenti diviene sottosegretario alle finanze, Palermo assume l’incarico di ministro della guerra. Il tutto mentre al Nord l’iniziativa partigiana si estende e si consolida nelle sue file una crescente presenza comunista.    

     La composizione sociale del movimento partigiano di “resistenza” è piuttosto composita. La grande borghesia settentrionale mantiene contatti con il regime di occupazione nazista per cui non sono rari i casi di interlocuzioni e convergenze rivolte a mantenere comunque in atto il processo produttivo; non mancano tuttavia relazioni con gli oppositori clandestini e persino finanziamenti al movimento di “resistenza”, anche se si tende a privilegiare il supporto ai minoritari segmenti democristiani e liberali, non fosse altro come cautela di fronte a possibili sviluppi degli avvenimenti e modifiche sostanziali dei rapporti di forza complessivi. Dal suo canto la piccola borghesia urbana e rurale oscilla tra apatia conservatrice e supporti congiunturali al movimento partigiano. Il proletariato urbano e rurale si colloca invece vigorosamente sulla scena, vedendo nella giustapposizione alle truppe naziste e ai collaborazionisti repubblichini gli elementi costitutivi di una lotta più generale che deve portare in tempi brevi alla fine del capitalismo. In effetti solo una parte della classe operaia lascia l’attività lavorativa per prendere parte attiva alla Resistenza e confluire nelle formazioni che operano nelle montagne o nei GAP, ma il resto è coinvolto in maniera crescente nella propaganda di fabbrica o nell’organizzazione degli scioperi con un’azione che si configura sostanzialmente come il retroterra politico e operativo della militanza partigiana vera e propria.

   La presenza comunista è preponderante e in costante aumento. Secondo le stesse fonti comuniste le brigate “Garibaldi” controllate dai militanti comunisti costituiscono nell’estate del 1944 i due terzi delle formazioni partigiane, integrate abbastanza nettamente dai militanti socialisti e del Partito d’Azione che nelle zone che controllano in misura crescente assumono sovente l’iniziativa di procedere alla formazione di organismi di autogoverno. Il tutto mentre la direzione togliattiana a Roma prende atto delle dimissioni del governo Badoglio per confluire, armi e bagagli, nelle file dell’ultraconservatore governo Bonomi. E Bonomi dà subito la misura di sé, procedendo ad una rapida stabilizzazione previo la rivalutazione di larga parte del personale politico fascista, mentre americani e inglesi approvano incondizionatamente l’intera operazione.

   Tuttavia la situazione nel suo complesso tende a presentare ulteriori elementi di specificità. Infatti tra l’autunno e l’inverno del 1944 i nazisti riescono momentaneamente ad arrestare l’avanzata dei reparti anglo-americani sulla “linea gotica”. Questo determina una contrazione della combattività delle formazioni partigiane, anche perché il generale britannico Alexander da Roma emana un comunicato – non contestato dalla direzione togliattiana del PCI – con il quale si rivolge ai contingenti partigiani un invito a sciogliersi. E l’invito, trasmesso inopinatamente per via radio, viene intercettato dagli organismi militari nazisti che vengono così a conoscenza di questa empasse complessiva che inevitabilmente agevola la micidiale azione repressiva degli apparati tedeschi e repubblichini contro le formazioni partigiane. Molti quadri di appartenenza liberale e cattolica lasceranno l’impegno politico e militante che sinora avevano svolto nelle unità partigiane, mentre i quadri comunisti, socialisti e del Partito d’Azione respingeranno il discutibile invito di Alexander per accentuare la loro presenza e la loro egemonia all’interno di quelle formazioni che riescono a sottrarsi alla tremenda repressione nazi-fascista. 

      L’intera vicenda, comunque, presenta aspetti ancora più specifici quando una delegazione del CLN si reca a Roma per chiedere una completa delega intesa ad adottare provvedimenti necessari all’amministrazione delle zone dove di fatto già gestisce il potere. Bonomi esita, ma gli anglo-americani si oppongono. L’accordo verrà comunque raggiunto non sulla base della delega dei poteri, ma nel riconoscimento al CLN di poter adottare i provvedimenti necessari, salvo ratifica da parte degli anglo-americani. Inoltre l’amministrazione Bonomi si fa carico di precisare che si sarebbe proceduto ad ulteriori rifornimenti ai contingenti partigiani, solo con l’obbligo preventivo che i contingenti stessi avessero accettato di rompere le righe subito dopo la resa nazista. In pratica la totale subordinazione del movimento partigiano a Bonomi e agli anglo-americani. Il tutto mentre la direzione togliattiana del PCI, all’interno del governo, non batte ciglio.

    A questo punto la deriva conservatrice e talvolta addirittura reazionaria del governo Bonomi è talmente palese che il PSI e il Partito d’Azione manifestano dichiaratamente il loro dissenso e cessano la loro collaborazione a questo processo di normalizzazione in funzione della conservazione dell’ordine costituito. Insomma è crisi di governo. Per Togliatti e i suoi invece non ci sono problemi, per cui si decide di confluire nel 2° governo Bonomi unitamente a democristiani e liberali, mentre socialisti e azionisti rifiutano di farvi parte giudicando il programma sfacciatamente reazionario. Insomma il PCI, fedele interprete delle direttive moscovite, va avanti per la sua strada ed entra nella nuova compagine governativa con ben 4 ministri e 3 sottosegretari. Lo stesso Togliatti assume l’incarico di Vice-presidente del Consiglio del Ministri.  Per di più la direzione togliattiana cercherà di trovare conforto alla paradossale inerzia che caratterizza il suo operato dal succedersi degli eventi che maturano in Grecia, dove il movimento comunista, che ha condotto in maniera eccezionalmente combattiva la lotta rivoluzionaria contro l’occupante nazista,  viene letteralmente schiacciato dalle forze armate britanniche, in quanto, a detta di Togliatti e soci, avrebbe seguito un orientamento “avventuristico” che ora  invece la sagace politica del PCI non intendeva reiterare tra le mura domestiche. In effetti quegli avvenimenti avevano altre valenze e motivazioni assolutamente difformi da ricondurre, anche nel caso in specie, alle paradossali interferenze della direzione moscovita che ebbe a imporre ai comunisti greci una linea politica praticamente suicida. Nondimeno, nel contesto dato, Togliatti e i suoi, distorcendo incredibilmente la veridicità dei fatti, si giocano anche questa carta.

   Tuttavia la situazione evolve ancora una volta a ritmi particolarmente serrati. Dopo le difficoltà dell’inverno 1944-1945, il movimento partigiano ritrova uno straordinario vigore, facendo registrare uno sviluppo esponenziale delle proprie forze e un allargamento costante di iniziativa politica e sociale. In pratica, mentre il PCI togliattiano è completamente integrato nel progetto normalizzatore, i suoi militanti al Nord svolgono un ruolo di primo piano nella Resistenza. I più grossi centri urbani vengono liberati dalle formazioni partigiane, costringendo progressivamente sulla difensiva gli effettivi nazisti e i reparti repubblichini. I quadri comunisti sono animati da una convinzione di fondo, in virtù della quale la partecipazione alla lotta armata non è altro che l’attuazione e il completamento della lotta di classe contro il sistema capitalista, anche se mancano quadri dirigenti che riescano a comprendere la specificità del processo in atto e la conseguente necessità di esprimere una rottura con gli orientamenti che prevalgono ai vertici del partito di stanza Roma. In pratica la stragrande maggioranza dei resistenti è di dichiarato orientamento comunista, ma lottano istintivamente per obiettivi che non coincidono minimamente con quelli che Togliatti e i suoi impongono al vertice insediato a Roma.               

     Comunque l’avanzata sempre più efficace dell’Armata Rossa sul versante orientale e di quella delle truppe anglo-americane su quello occidentale impone alla dirigenza nazista di richiamare in patria in tempi brevi tutti gli effettivi dislocati fuori dalla Germania. Rapportata alla situazione italiana ciò equivale a lasciare i repubblichini di Salò alla mercè delle forze rivoluzionarie. Questo sospinge i quadri del PCI a procedere in tempi estremamente ravvicinati sulla via dell’insurrezione. La direzione togliattiana non si opporrà all’insurrezione, ritenendo probabilmente impraticabile un’iniziativa del genere nel contesto dato; in pratica Togliatti e i suoi si rendono conto che frenare la volontà di lotta delle formazioni partigiane impedendo di coronare con successo diciotto mesi di inauditi sacrifici, significherebbe provocare uno stato d’animo suscettibile di reazioni incontrollate e di esplosioni irreversibili. E magari di perdere il controllo della situazione. Nel contesto dato la leadership che si raccoglie attorno a Togliatti opta per porsi alla testa dell’insurrezione per dirigerla, ma al tempo stesso per incanalarla e sostanzialmente impedirle di deviare dagli obiettivi limitati che la sua linea politica ha prefissato. E perché questa complessa operazione vada in porto la direzione del PCI il 12 marzo del 1945 si fa carico di lanciare un “appello” dove testualmente si riporta: “La disciplina proletaria e patriottica si manifesta nel comunista come la più alta espressione della coscienza politica nazionale. L’insurrezione che noi vogliamo, ci ha detto il compagno Ercoli (Togliatti), non è e non può essere l’insurrezione di una classe o di un partito. E’ l’insurrezione di tutto un popolo per l’indipendenza e la democrazia, che si svolge sotto la bandiera del tricolore, simbolo dell’unità di tutto il popolo”. Insomma per la direzione togliattiana l’insurrezione che sta per venire non deve avere alcuna caratterizzazione sociale. Così Stalin e i suoi saranno soddisfatti.       

       Tuttavia non è solo la dirigenza comunista a gettare acqua sul fuoco. Anzi c’è chi si muove in modo ancora più spregiudicato.  In particolare gli americani non disdegneranno di prendere i necessari contatti con la dovuta discrezione con quanto resta della direzione repubblichina per garantire i rimasugli delle gerarchie fasciste  che, a cose fatte, si sarebbe proceduto nei loro confronti con la massima  indulgenza, non disdegnando  la possibilità di considerare l’opportunità dell’utilizzo dello stesso Mussolini come un antidoto nell’Italia che in futuro avrebbe giocoforza dovuto registrare la presenza decisamente rilevante di forze di sinistra. Tutto ciò sarà comunque vanificato dallo sviluppo degli eventi perché la precipitosa ritirata dei contingenti nazisti imporrà a quel che resta dello stato maggiore repubblichino – e con esso Mussolini – di tentare di fuggire sui mezzi di trasporto messi a disposizione dai nazisti. Ma il convoglio sarà intercettato dai reparti partigiani che provvederanno di lì a poco alla fucilazione di tutto lo stato maggiore fascista, tranne Mussolini che, arrestato in un secondo momento, rimane prigioniero nelle mani partigiane. Ebbene il governo Bonomi effettuerà due tentativi presso i comandi partigiani per ottenere la consegna del leader fascista, che poi sarebbe stato giudicato dagli alleati anglo-americani, magari con la dovuta indulgenza, per essere eventualmente utilizzato nel migliore dei modi. Comunque su questo la direzione partigiana non mollerà, preferendo adottare in piena autonomia la decisione di procedere alla esecuzione immediata del capo di tutte le organizzazioni fasciste.

      La fase terminale della Resistenza assume nettamente il carattere di una rivolta popolare all’interno della quale la classe operaia svolge un ruolo largamente prevalente e comunque decisivo. Fino all’arrivo dei contingenti anglo-americani, i poteri di fatto vengono esercitati, più che dalle autorità nominate dal Comitato di Liberazione Nazionale, dai comandanti delle organizzazioni partigiane, mentre le città sono controllate da migliaia di operai armati e nelle fabbriche il carattere classista del loro atteggiamento si traduce nelle fucilazioni sommarie di industriali e di dirigenti individuati quali responsabili del fascismo e delle sciagure nazionali. In pratica il processo rivoluzionario è in pieno sviluppo, ma manca una direzione che sappia imprimere allo sviluppo stesso degli avvenimenti uno sbocco conclusivo. Anzi quella direzione in cui bene o male si identifica il movimento partigiano va in una direzione esattamente opposta. Alla resa dei conti il sopraggiungere dei dirigenti della direzione del PCI pone rapidamente fine a queste manifestazioni spontanee, anche se le esecuzioni sommarie dei fascisti proseguiranno ancora per qualche tempo, fino a quando l’arrivo delle truppe anglo-americane determinerà una normalizzazione definitiva dell’intera situazione.

   La congiuntura rivoluzionaria è terminata e i meccanismi che regolano l’andamento della società capitalista riprendono a funzionare.