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Negli ultimi sei mesi, la Cisgiordania occupata ha subito una metamorfosi. La guerra è scoppiata nella Striscia di Gaza, ma la “punizione” inflitta alla Cisgiordania per gli eventi del 7 ottobre non si è fatta attendere. Non c’è bisogno di un occhio particolarmente acuto per notare i profondi cambiamenti avvenuti sul terreno. Non bisogna essere particolarmente perspicaci per capire che Israele e le comunità di coloni hanno sfruttato l’inquietante incubo rappresentato dalla guerra per cambiare la situazione in Cisgiordania: intensificando l’occupazione, espandendo i perimetri degli insediamenti, rimuovendo gli ultimi limiti all’interazione con la popolazione palestinese lasciando che questa si scateni, il tutto lontano dagli occhi del mondo.

È impossibile sopravvalutare la profondità e l’ampiezza dei cambiamenti avvenuti in Cisgiordania negli ultimi mesi. La maggior parte di essi, se non tutti, sono probabilmente irreversibili. La combinazione di una guerra condotta contro i palestinesi, anche se a distanza dalla Cisgiordania, di un governo di destra radicale in cui i coloni occupano posizioni che danno loro un potere decisivo sull’occupazione, dell’ascesa al potere di milizie di coloni armati e in uniforme e dell’indifferenza generale dell’opinione pubblica, ha creato una nuova situazione. In queste circostanze, la vulnerabilità dei Palestinesi non fa che gettare altra benzina al fuoco. Questo enorme incendio sta divampando, ma lo sguardo di tutti è puntato lontano, sui campi di morte tra Gaza City e Rafah. Tuttavia, forse ancor più che a Gaza, le ripercussioni della rivoluzione in atto in Cisgiordania non si limiteranno a questo territorio, permeando in profondità ogni angolo di Israele.

Alcuni cambiamenti sono immediatamente visibili a chiunque attraversi la Cisgiordania, altri meno. La Cisgiordania è chiusa e sotto assedio. Praticamente ogni città e villaggio palestinese ha alcune o tutte le strade di accesso chiuse. Infatti, la maggior parte dei cancelli metallici, onnipresenti in queste località, sono stati chiusi dalle Forze di Difesa israeliane l’8 ottobre. Con un tale sistema di cancelli e altre barriere, è possibile mettere in atto una chiusura totale della Cisgiordania in un breve lasso di tempo. Il risultato? La vita è diventata insopportabile per tre milioni di persone. Non si tratta solo del tempo perso per spostarsi da un luogo all’altro, ma anche del fatto che non si sa mai se si arriverà a destinazione dopo lunghe attese e arrabbiature ai posti di blocco.

Oltre ai cancelli chiusi, ci sono decine di posti di blocco ad hoc eretti dai soldati. Quando sono in funzione, il traffico diventa un incubo per ogni palestinese. La Cisgiordania è tornata indietro di quasi un quarto di secolo, all’epoca della seconda Intifada, ma questa volta senza l’Intifada.

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Un amico il cui padre di 105 anni è morto questa settimana – e che vive in un villaggio vicino a Tul Karm – ha detto alla sua famiglia e ai suoi amici di non preoccuparsi dell’usanza di fare una visita di condoglianze, perché il traffico in entrata e in uscita da questa città oscilla tra l’incubo e l’impossibilità a causa del proliferare dei posti di blocco locali. Si è invece recato a Ramallah per un giorno dove ha potuto ricevere le visite.

Dall’8 ottobre, circa 150’000 palestinesi della Cisgiordania, legalmente autorizzati a lavorare in Israele, non possono farlo. Le conseguenze per l’economia palestinese (e israeliana) sono evidenti. Parimenti, le conseguenze dell’inattività forzata di decine di migliaia di persone sono altrettanto chiare e prevedibili. Anche un’altra fonte di reddito per molti palestinesi – la raccolta delle olive – è stata bloccata dalla guerra. Gli uliveti adiacenti agli insediamenti sono ora completamente inaccessibili ai Palestinesi, nemmeno attraverso un “coordinamento” con le autorità israeliane, come era possibile negli anni precedenti. Di conseguenza, circa un terzo del raccolto è rimasto sugli alberi in un momento in cui la maggior parte delle altre entrate è evaporata.
Qual è il legame diretto tra il raccolto di olive in Cisgiordania e la guerra a Gaza? Non c’è, ma a quanto pare la guerra ha fornito una grande opportunità ai coloni e ai loro partner di governo. Un’opportunità che i coloni della Cisgiordania stavano aspettando per abusare impunemente dei Palestinesi, rendere la loro vita intollerabile, espropriarli e umiliarli fino a quando non hanno deciso di andarsene o sono stati cacciati. Forse è per questo che i coloni sembravano particolarmente contenti questa settimana, in occasione della festa [23-24 marzo] di Purim?

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Uno dei fenomeni più gravi riguarda le autorità israeliane che impediscono ai Palestinesi di accedere alla loro terra di lavorarla, a volte in previsione di uno sfratto. Dror Etkes, dell’organizzazione non governativa Kerem Navot che monitora le politiche fondiarie israeliane nei Territori occupati, calcola che i Palestinesi siano stati privati di almeno 100’000 dunam (25’000 acri, circa 101 km2) tra pascoli e terreni agricoli a partire dal 7 ottobre – e si tratta di una stima prudente, aggiunge.

Allo stesso tempo, si sta verificando un tranquillo trasferimento di popolazione, graduale ma sistematico, in particolare per gli abitanti più deboli – soprattutto quelli delle comunità pastorali – verso i due poli della Cisgiordania: la Valle del Giordano a Nord e le colline meridionali di Hebron dall’altra parte. Dror Etkes, che ha una conoscenza impareggiabile degli insediamenti, rileva che gli abitanti di 24 comunità sono stati sfrattati o costretti a lasciare case e terreni a causa del terrore esercitato dai coloni a partire dal 7 ottobre. Tutti i residenti di 18 di queste comunità sono fuggiti, mentre nelle altre sei solo alcuni residenti si sono sentiti obbligati ad andarsene. Un trasferimento di popolazione, anche se clandestino.

In un articolo di alcuni mesi fa raccontava di una di queste enclavi abbandonate: era straziante vedere gli abitanti impacchettare e caricare su alcuni vecchi furgoni i loro magri averi, comprese le mandrie, lasciando, probabilmente per sempre, la terra su cui sono nati loro e i loro antenati, verso un mondo a loro sconosciuto.

Un altro atto criminale è stato rivelato quando abbiamo documentato la confisca di 700 pecore ai loro proprietari, una confisca effettuata dai soldati coloni su ordine del Consiglio regionale della Valle del Giordano, che tecnicamente non ha alcuna autorità coercitiva sui residenti palestinesi locali. Questo gruppo di poveri pastori è stato costretto a pagare immediatamente 150’000 shekel (circa 41’000 dollari) per riavere il proprio gregge – una somma enorme che è andata direttamente nelle casse dei coloni. Qualche settimana dopo, Hagar Shezaf ha riferito, in un articolo apparso su Haaretz, che il consulente legale dell’Amministrazione Civile – il braccio locale del governo militare israeliano – ha dichiarato illegale l’odiosa e spregevole azione dei coloni.

Il fatto che orde di coloni abbiano indossato le uniformi dell’IDF sembra solo aver aumentato la loro violenza. Negli ultimi mesi, le “squadre di sicurezza d’emergenza” create per la guerra praticamente in ogni insediamento e avamposto, e la mobilitazione di migliaia di coloni riservisti a seguito di un decreto d’emergenza, hanno apparentemente dato loro il diritto di intensificare gli atti di violenza contro i Palestinesi, comportandosi come veri e propri signori della terra, sedicenti rappresentanti della legge e dello Stato. Molti Palestinesi hanno descritto episodi in cui i coloni hanno scatenato veri e propri pogrom, arrivando all’improvviso in uniforme su veicoli fuoristrada, seminando violenza e facendo sentire gli abitanti ancora più impotenti. A quanto pare non c’è nessuno a proteggere le comunità pastorali, a parte un manipolo di volontari israeliani in cerca di giustizia.

Dror Etkes cita almeno 11 avamposti [di un futuro insediamento] costruiti senza permessi negli ultimi sei mesi, due dei quali su terreni dai quali i pastori palestinesi sono fuggiti o sono stati sfrattati. Questa settimana ne ha scoperto un altro. Il sito web di notizie anti-occupazione Local Call ha riferito che, dieci giorni dopo aver iniziato a costruire un avamposto nelle vicinanze, i coloni hanno spaventato gli abitanti di una di queste comunità, che sono fuggiti in massa.

Un avamposto di questo tipo a volte non è altro che una fattoria, una baracca che ospita alcuni violenti il cui unico scopo è quello di allontanare i Palestinesi. Recentemente, il loro compito è stato reso ancora più facile. Un rapporto intermedio di Dror Etkes, dopo sei mesi di guerra, registra almeno dieci strade, una serie di vasti tratti di terra recintati e persino posti di blocco, tutti creati dai coloni senza autorizzazione. Inoltre, il governo israeliano ha dichiarato terra demaniale 2’640 dunam vicino all’insediamento urbano di Ma’aleh Adumim e 8160 dunam nella città di Aqraba, vicino a Nablus [1].

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Centinaia di Palestinesi, soprattutto bambini e adolescenti, sono stati uccisi, la maggior parte senza un motivo apparente. I soldati dislocati in Cisgiordania sembrano avere il grilletto più facile di prima. Forse sono invidiosi dei loro commilitoni a Gaza, che a quanto pare sono autorizzati a uccidere indiscriminatamente? I coloni della Cisgiordania vogliono forse comportarsi come loro, vendicarsi dei Palestinesi in quanto tali, a causa degli orrori del 7 ottobre? L’IDF e la polizia di frontiera stanno chiudendo un occhio sugli eventi violenti che si verificano in Cisgiordania?

I dati che seguono parlano da soli. La mano sul grilletto è leggera e i comandanti dell’IDF e l’opinione pubblica israeliana sono apatici. Ma chi pensa che questa violenza di massa sia, almeno apparentemente, sanzionata e che le morti rimangano entro i confini della Cisgiordania, rischia di sbagliarsi.

Per quanto riguarda le uccisioni, molte appaiono del tutto ingiustificate e criminali. Già l’8 ottobre, i soldati hanno ucciso Yasser Kasba, 18 anni, che, secondo l’esercito, aveva lanciato una molotov – nessuno è rimasto ferito e non ha messo in pericolo nessuno – al checkpoint di Qalandiyah, vicino a Gerusalemme. La sparatoria è stata trasmessa in diretta dal canale televisivo satellitare statunitense in lingua araba Alhurra. Kasba è stato colpito alla schiena mentre fuggiva.

Questo incidente ha rappresentato un colpo di inizio. Nei due mesi successivi, 31 persone sono state uccise nell’area di Ramallah, tra cui la madre di sette figli, di fronte al marito e ai figli; 42 persone sono state uccise nell’area di Tulkarem nelle prime sei settimane, tra cui un uomo di 63 anni con handicap mentale e un adolescente di 15 anni colpito due volte alla testa. Fino alla fine di febbraio, in Cisgiordania sono state uccise in totale 396 persone, tra cui 100 bambini e adolescenti – la maggior parte da parte dei soldati – secondo i dati accuratamente verificati raccolti dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. Più della metà dei minori, osserva B’Tselem, sono stati uccisi in circostanze che non giustificavano l’uso di armi letali.

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I giovani che abitano in Cisgiordania stanno iniziando a redigere documenti che assomigliano alle loro ultime volontà. Il mese scorso ne abbiamo riportato uno: quello di Abdel Rahman Hamad, quasi 18 anni, il cui sogno era studiare medicina (Haaretz, 17 febbraio 2024). Ha lasciato istruzioni dettagliate su cosa fare se fosse stato ucciso: “Non mettetemi nel frigorifero dell’obitorio” – ha scritto – “Seppellitemi immediatamente. Adagiatemi sul mio letto, copritemi con le coperte e trasportatemi per la sepoltura. Quando mi calerete nella tomba, restate al mio fianco. Ma non siate tristi. Ricordate solo i momenti belli che avete di me e non lamentatevi del mio destino“.

Ci sono poi stati altri incidenti. Due giovani americani sono stati uccisi nel giro di poche settimane. Un giovane in bicicletta è stato travolto da una jeep militare e colpito a bruciapelo. Soldati e coloni, probabilmente insieme, hanno sparato una decina di proiettili contro un veicolo che trasportava due giovani in gita, uccidendone uno. I 32 proiettili che hanno colpito un’auto con a bordo una famiglia – durante l’inseguimento da parte delle forze di sicurezza di un veicolo che aveva attraversato un posto di blocco senza fermarsi – hanno ucciso una bambina di 5 anni, il cui corpo è stato consegnato alla famiglia solo 10 giorni dopo.

Un missile ha ucciso sette giovani, tra cui quattro fratelli, fuori Jenin. Un altro missile, sparato al centro del campo profughi di Nur Shams [governatorato di Tulkarem], ha ucciso sei persone e ne ha ferite sette, alle quali sono state negate le cure mediche per oltre un’ora. Sono stati colpiti anche due giovani con bisogni speciali, uno dei quali è morto. Tre fratelli che tornavano a casa dopo aver raccolto l’akoub, una pianta commestibile simile al cardo, sul lato israeliano della barriera di separazione, sono stati vittime di una caccia all’uomo in cui i soldati hanno ucciso due dei fratelli, ferito il terzo e arrestato un quarto che è arrivato sulla scena più tardi. Altrettanto scioccante è stato l’incidente del bambino di 10 anni colpito nel pick-up del padre e caduto tra le braccia del fratello di 7 anni morto.

Infine, una parola sugli arresti di massa, di cui non conosciamo nemmeno l’esatta entità. Secondo le Nazioni Unite, nei primi due mesi di guerra in Cisgiordania sono state arrestate 4’785 persone. Uno di loro, Munther Amira, era un detenuto amministrativo (imprigionato senza processo) la cui storia di torture, percosse e umiliazioni nella prigione di Ofer, la “Guantanamo” israeliana, è stata raccontata  su questo giornale la scorsa settimana. Anche questa crudele prigione aveva un aspetto molto diverso prima dello scoppio della guerra a Gaza.

*Articolo pubblicato sul quotidiano israeliano Haaretz il 30 marzo 2024. Traduzione a cura del segretariato MPS