L’ultimo capoverso del cosiddetto decreto Morisoli, approvato in votazione popolare il 15 maggio 2022 dal 57% dei votanti (pochi, solo il 37% degli aventi diritto), prevede che “Il presente decreto legislativo cessa con l’approvazione del Consuntivo 2025 da parte del Gran Consiglio”. Questo significa che la “storia”, almeno quella fin qui scritta, di questo decreto terminerà entro la fine di quest’anno, con l’approvazione del Preventivo 2025 da parte del Gran Consiglio, che poi si tradurra nel Consuntivo 2025. Anche nella più ottimistica visione dell’iter parlamentare di un’iniziativa, è evidente che quella lanciata in questi giorni dalla VPOD per l’abolizione del cosiddetto decreto Morisoli, verrà trattata dopo la decadenza del decreto in questione.
Ci si può allora chiedere quali siano le ragioni di questa insistenza da parte della VPOD, visto che anche loro si rendono conto della inutilità pratica di una tale iniziativa. Dobbiamo quindi presumere che le risposte non possono che essere di ordine politico-propagandistico. Proviamo ad immaginarle.
La prima risposta ci pare possa essere legata alla concezione del sindacalismo che da ormai più di un decennio la VPOD difende e che ha accelerato il suo declino, la sua capacità di mobilitazione, compromettendo la sua credibilità in ampi settori di salariate e salariati del settore pubblico. Una concezione che ha privilegiato la via delle trattative al tavolo negoziale (la mobilitazione può, al massimo, essere una sorta di illusorio rinforzo – ma proprio quando ormai non c’è più nulla da fare) accompagnata da quella che potremmo chiamare la via istituzionale.
Questo ultimo aspetto si è concretizzato attraverso il lancio di iniziative popolari che cercano così di sopperire alle difficoltà provenienti dalla capacità di mobilitazione sindacale (cioè sapere organizzare e mobilitare le lavoratrici e i lavoratori sui luoghi di lavoro); si raccolgono firme attorno a una proposta (e non è difficile raccogliere 7’000 firme se si dispone di un apparato di 6-7 funzionari a tempo pieno) e poi si negozia a livello istituzionale (commissioni del Gran Consiglio e Consiglio di Stato), ritirando alla fine l’iniziativa in cambio di alcune concessioni. A volte il gioco può riuscire, almeno in parte, anche se le concessioni possono essere tremende: basterà qui ricordare il “compromesso” che ha sicuramente migliorato i salari dei dipendenti degli asili nido (alcune centinaia), barattato tuttavia con il sostegno alla “riforma fisco-sociale” votata nel 2017 dal Gran Consiglio e poi approvata definitivamente, a seguito del referendum della sinistra, in votazione popolare il 29 aprile 2018. Ricordiamo che quella riforma venne accolta con una differenza di 193 voti, anche grazie alla benevola “libertà di voto” della VPOD e con un famigerato articolo di Raoul Ghisletta che spiegava come non si potesse avere “il panino e il soldino”.
Accanto a questo atteggiamento di fondo – legato come detto alla strategia sindacale – vi è un secondo aspetto, più contingente e tattico.
La VPOD ha certo partecipato alle mobilitazioni degli ultimi mesi su pensioni e salari. Ma, in particolare sulla questione delle pensioni, non ha avuto – e nemmeno gli altri sindacati tradizionali – un ruolo decisivo; ruolo che invece hanno svolto “altri soggetti” come li chiama il segretario della VPOD su La Regione del 4 aprile 2024, in particolare ErreDiPi.
In questa prospettiva, e anche in vista delle elezioni per il Consiglio di Amministrazione di IPCT, è evidente il tentativo di “intestarsi” le mobilitazioni degli ultimi mesi, mostrando – con il lancio dell’iniziativa – di essere l’unica forza che persegue con coerenza la “lotta” contro il terribile decreto Morisoli, padre di tutte le ingiustizie.
Per fare questo, bisogna accreditare l’idea che il decreto Morisoli non sia in qualche modo in linea con la politica finanziaria concepita e condotta nell’ultimo decennio, che rappresenti un elemento di rottura, in particolare rispetto ai principi di gestione finanziaria e al principio del freno ai disavanzi pubblici introdotti nella Costituzione e nelle leggi cantonali nel 2014.
In realtà, se proprio si volesse mettere in discussione gli orientamenti di fondo che ci hanno portato alla situazione attuale (e che continuerà a condizionarci, decreto Morisoli o meno), bisognerebbe contestare le regolamentazioni costituzionali (il titolo V della nostra costituzione sul regime finanziario) e legali (cfr la Legge sulla gestione e sul controllo finanziario dello Stato – LGF) approvate o modificate allora.
A questo punto il problema investirebbe tutto l’”arco costituzionale” che, nel 2014, approvò questi principi, dividendosi solo sulla questione delle procedure per ricorrere a un eventuale aumento delle imposte qualora ci si trovasse in presenza di uno sforamento del disavanzo (nel rapporto tra preventivo e consuntivo) superiore a una determinata percentuale. La maggioranza dei partiti di governo – su proposta PPD – decise che “Il Parlamento può decidere un aumento del coefficiente di imposta se approvato dalla maggioranza qualificata di almeno 2/3 dei votanti” (art. 31f cpv. 3 della LGF). La proposta originale del governo prevedeva che per tale decisione bastasse la maggioranza del Parlamento.
Il PS, pur ribadendo la propria opposizione alla maggioranza dei 2/3, aderiva al principio del freno ai disavanzi presentato dal governo. Così, il suo presidente di allora – Saverio Lurati – riassumeva la posizione nel suo rapporto di minoranza: “La minoranza commissionale, seguendo le indicazioni del messaggio, pur essendo preoccupato del fatto che l’adozione della misura rischierebbe in periodi economicamente difficili di gravare su una serie di compiti dello Stato a favore della parte più sfavorita della collettività, intende dare un segnale chiaro rispetto all’impegno che un partito di Governo deve essere capace di assumersi in particolare in momenti economicamente difficili da interpretare”.
Le mobilitazioni degli ultimi due anni (su pensioni e salari) hanno messo al centro la contestazione della politica finanziaria del governo. Hanno contestato l’idea del pareggio di bilancio e hanno sistematicamente messo in rilievo come la situazione delle finanze del Cantone sia tutt’altro che drammatica. In particolare, hanno evidenziato come l’attuale debito pubblico non solo appaia irrisorio se rapportato percentualmente al PIL cantonale; ma, anche, come il rapporto tra i ricavi finanziari (il reddito del patrimonio) e gli oneri finanziari (legati al debito) sia da anni estremamente positivo.
Se proprio si dovesse agire attraverso il lancio di un’iniziativa popolare, si dovrebbe e potrebbe discutere di un testo che, raccogliendo le suggestioni e le analisi emerse dal movimento che abbiamo vissuto negli ultimi due anni, contestasse apertamente il regime finanziario che regge il nostro Cantone e che ispira la politica del governo da ormai un decennio.
Tutto il resto è propaganda a buon mercato.