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Uno sguardo al disimpegno del 2005

I difensori della ricolonizzazione israeliana della Striscia di Gaza hanno avanzato un argomento importante: la ricolonizzazione garantirebbe la sicurezza degli israeliani a costo della pulizia etnica dei palestinesi dell’enclave. Ad oggi, 1,7 milioni di palestinesi sono stati messi all’angolo sul confine egiziano intorno a Rafah. L’insediamento di civili israeliani sembrerebbe una ri-colonizzazione, dal momento che tra il 1970 e il 1986 vi sono stati costruiti sedici insediamenti, con circa ottomila abitanti, il più grande dei quali era Gush Katif, situato tra Khan Younis e El Masawi.

Il 26 ottobre 2004, la Knesset ha votato a favore del piano di evacuazione di questi insediamenti presentato dal governo di centro-destra di Ariel Sharon. Nell’agosto e nel settembre 2005, l’esercito ha proceduto manu militari allo smantellamento di questi insediamenti e di quattro insediamenti nel nord della Cisgiordania. A priori, si trattava di una sfida al processo di colonizzazione dei Territori palestinesi occupati, intrapreso dai successivi governi israeliani dal 1967. Paradossalmente, questo apparente ritiro è stato orchestrato da Ariel Sharon, egli stesso grande promotore della colonizzazione fin dagli anni Settanta.

Da parte israeliana, è scontato che Gaza sarà mantenuta

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha lasciato qualche dubbio sulla natura concreta degli scenari politici postbellici. Il 22 febbraio ha presentato un piano al gabinetto di sicurezza (che ha poteri decisionali in questo settore). L’obiettivo a breve termine resta quello di continuare la guerra per liberare gli ostaggi israeliani e smantellare le capacità militari di Hamas e della Jihad islamica. A medio termine, l’esercito israeliano intende mantenere la “libertà d’azione” creando zone cuscinetto o addirittura riprendendo il controllo del corridoio di 13,5 chilometri, noto come corridoio di Filadelfia o Salah-al-Din, lungo il confine tra Gaza e l’Egitto. Ciò sarebbe in contrasto con gli accordi di pace tra il Cairo e Tel Aviv.

A lungo termine, in linea con la maggioranza dei deputati della Knesset, il Primo Ministro sta ribadendo il suo rifiuto dell’imposizione di uno Stato palestinese o della presenza di una forza internazionale o regionale o dell’Autorità palestinese nella Striscia di Gaza, ritenendo che Israele manterrà il controllo della sicurezza “a ovest del Giordano”, qualunque cosa accada. Per quanto riguarda il governo civile di Gaza, il suo piano prevede la chiusura dell’UNRWA e la creazione di un “nuovo organismo internazionale”. L’ordine pubblico dovrebbe essere garantito da “professionisti palestinesi con esperienza manageriale”, senza legami con “Stati o organizzazioni che sostengono il terrorismo”.

D’altra parte, gli appelli alla ricolonizzazione della Striscia di Gaza sono inequivocabili tra i membri eletti della coalizione di governo, che comprende il Likud, i partiti suprematisti ebraici come Forza Ebraica, il Partito del Sionismo Religioso e il partito ultraortodosso Giudaismo Unito della Torah. Il 28 gennaio, undici ministri e quindici deputati della coalizione hanno partecipato a una manifestazione di migliaia di attivisti a favore della colonizzazione. L’evento è stato organizzato dall’associazione Nachala, che promuove l’insediamento nella Cisgiordania occupata, e dal Consiglio di Yesha, che rappresenta i coloni già insediati presso le autorità. L’obiettivo era quello di presentare la pianificazione di sei insediamenti per 400 famiglie al posto di città palestinesi nella Striscia di Gaza con lo slogan “solo il trasferimento (dei palestinesi da Gaza) porterà la pace”. Il 29 febbraio, una dozzina di membri di Nachala si sono messi in gioco entrando nella Striscia di Gaza a un centinaio di metri dal valico di Erez ed erigendo due strutture di legno che simboleggiavano il reinsediamento, prima di essere arrestati dai soldati.

Nella politica israeliana, da tempo sentiamo voci che invocano apertamente la pulizia etnica, arrivando a parlare pubblicamente di una “Nakba 2”, in riferimento all’esilio forzato di 750.000-900.000 palestinesi nel 1948.  Nel marzo 2023, ad esempio, il Ministro per gli Insediamenti e le Missioni Nazionali, Orit Strock, chiedeva già la ricolonizzazione di Gaza proprio mentre la Knesset stava rimuovendo gli articoli della Legge sul Disimpegno del 2004 che vietavano l’insediamento dei quattro insediamenti nel nord della Cisgiordania. Questi appelli alla ricolonizzazione di Gaza soddisfano la maggioranza degli elettori dell’attuale coalizione di governo (79%), sebbene solo la metà degli ebrei israeliani (52%) e un’ampia maggioranza di cittadini arabi (69%) rifiutino questa prospettiva.

Sul terreno, le operazioni militari hanno distrutto il 60% delle abitazioni. Si sta costruendo una strada, il corridoio di Netzarim, per dividere la striscia in due, oltre alle zone cuscinetto esistenti lungo il muro che separa Gaza da Israele, con il pretesto di obiettivi militari. Da parte sua, anche l’Egitto sta preparando una “zona di sicurezza” circondata da muri di cemento lungo il confine, che si estende dal villaggio di fronte a Rafah fino al Mediterraneo, presentata come un “hub umanitario” per convogliare gli aiuti a Rafah. Questa “zona” potrebbe ospitare fino a 100.000 persone, lontano dalle aree residenziali sul lato egiziano.

Il disimpegno del 2005, tra separazione e cantonizzazione

L’analisi degli attuali piani israeliani per la Striscia di Gaza ci riporta naturalmente alla strategia del disimpegno di vent’anni fa. Quello che all’epoca fu presentato come un “ritiro” corrispondeva soprattutto a una riorganizzazione generale dell’occupazione dei Territori palestinesi intorno all’idea di separazione e cantonizzazione.

Nel dicembre 2003, alla conferenza strategica di Herzliya, Ariel Sharon annunciò il suo piano di disimpegno da Gaza. Al culmine della Seconda Intifada (2000-2005), i tempi erano maturi per la separazione tra la popolazione israeliana e quella palestinese, giustificata soprattutto in nome della sicurezza degli israeliani contro gli atti terroristici dei gruppi armati palestinesi, della riorganizzazione dei servizi di intelligence e delle pattuglie, ma anche della riduzione del numero di lavoratori palestinesi nelle aree israeliane (compresi gli insediamenti).

Un anno prima, i lavori per la costruzione del muro (o “recinto di sicurezza” in ebraico) in Cisgiordania avevano subito un’accelerazione. Il suo percorso incorpora la maggior parte dei blocchi di insediamenti, come Ariel e Maale Adumim, e segue i confini municipali di Gerusalemme Est annessa. Allo stesso tempo, sia il muro che il disimpegno da Gaza hanno accelerato la cantonizzazione dei palestinesi in enclaves, a Gaza senza insediamenti e intorno alle zone A e B in Cisgiordania, attraverso muri, ostacoli, posti di blocco e varie restrizioni alla mobilità. I Territori palestinesi sono quindi frammentati e privi di continuità territoriale. Gaza, isolata dalla Cisgiordania, sta diventando il modello di questi cantoni, controllati dall’esterno con incursioni militari o attacchi mirati. Questa riorganizzazione offre agli israeliani “l’illusione della separazione”, allontanando il pericolo dall’altra parte e riducendo al contempo il numero di attacchi.

Il disimpegno e la separazione sono anche una risposta militare alle proposte diplomatiche internazionali che cercano di rianimare una soluzione negoziale. Ad esempio, l’Iniziativa di Ginevra, un processo informale firmato il 1° dicembre 2003 dagli ex ministri israeliano e palestinese Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo, prevedeva l’evacuazione degli insediamenti. Questa iniziativa è in linea con la Road map dell’aprile 2003 organizzata da Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Nazioni Unite. La Road map prevedeva diverse fasi (tra cui la cessazione del terrorismo e lo smantellamento degli insediamenti) per arrivare alla soluzione dei due Stati. Unilateralmente, Israele ha espresso il desiderio di rompere con i tentativi di negoziati bilaterali del periodo di Oslo. Ariel Sharon non ha voluto negoziare e ha optato per una serie di fatti compiuti come il disimpegno. Nell’ottobre 2004, sul quotidiano Haaretz, il suo consigliere Dov Weisglass ha espresso chiaramente questa strategia: “Il ritiro da Gaza è una formaldeide, necessaria affinché non ci sia un processo politico con i palestinesi”, in altre parole Israele si sta impegnando a separarsi dall’Amministrazione Bush, assicurando al contempo che l’insediamento in Cisgiordania continui.

Un altro punto importante nella politica interna israeliana è che il disimpegno segna anche la sconfitta della rappresentanza degli interessi del movimento pro-insediamento, molto eterogeneo, all’interno del sistema politico israeliano. Questa relativa sconfitta li costringerà a riorganizzarsi per garantire meglio la loro presenza all’interno dei partiti politici (nella Knesset in particolare), nelle istituzioni (nei ministeri e nell’esercito) e nei media e nell’opinione pubblica (le immagini dello sgombero dei coloni di fronte all’esercito con insulti sono state disastrose per questo movimento). Nel novembre 2022, i buoni risultati elettorali del Partito Sionista, che rappresenta gli interessi dei coloni, hanno reso forte il sostegno del Likud al governo.

2024: tra ri-colonizzazione e pulizia etnica?

Con il senno di poi, il disimpegno del 2005 non sembra essere stato un “ritiro”. Si è trattato di una tattica militare e diplomatica una tantum, volta ad aumentare il controllo di Israele sull’intero territorio israelo-palestinese. È stata criticata dalla destra israeliana, oggi al potere, sulla base di due idee sbagliate, che oggi sono la forza trainante della giustificazione della ricolonizzazione.

Il primo equivoco è che il disimpegno abbia peggiorato la sicurezza degli israeliani, con un approccio che collega l’evacuazione degli insediamenti, la presa di potere di Hamas e il lancio di razzi agli attacchi del 7 ottobre 2023. Ecco cosa ha detto il ministro delle Finanze suprematista Bezalel Smotrich il 29 gennaio: “Senza gli insediamenti, non c’è sicurezza. E senza sicurezza ai confini di Israele, non c’è sicurezza per Israele”. Questo ragionamento sottovaluta due fattori. In primo luogo, la presenza dei coloni a Gaza non ha ridotto il numero di attacchi e sparatorie né contro di loro né in Israele, né lo sviluppo di tunnel. Hamas e altre fazioni islamiste palestinesi si sono sviluppate a Gaza a partire dagli anni Ottanta. Presentandosi come contrari a qualsiasi negoziato con Israele, sono emersi ancora più forti dal disimpegno agli occhi della popolazione palestinese durante le elezioni legislative del gennaio 2006. Inoltre, come sottolinea l’associazione di ex soldati israeliani Breaking The Silence, “gli insediamenti non proteggevano noi, eravamo noi a proteggere gli insediamenti”. Come altrove in Cisgiordania, e in particolare oggi a Hebron, proteggere i circa ottomila coloni della Striscia di Gaza richiedeva tra i cinquanta e i sessantamila soldati, nonché un’infrastruttura di sorveglianza (intelligence, torri di osservazione, incursioni militari) il più vicino possibile alle case dei palestinesi.

Il secondo equivoco è che il disimpegno abbia portato alla creazione di un’entità gazawi autonoma nelle mani di Hamas, come se Gaza fosse totalmente scollegata dal resto dello spazio israelo-palestinese. Eppure, dal 2005, Gaza è rimasta un territorio controllato dall’esterno da Israele, con la complicità dell’Egitto, sotto forma di blocco marittimo e terrestre dei valichi di frontiera e delle merci, in particolare degli aiuti umanitari. Il blocco è stato inasprito nel 2006 in risposta alla vittoria elettorale di Hamas. Sebbene Hamas abbia preso il controllo con la forza nel 2007, Israele rimane una potenza occupante secondo il diritto internazionale. Anche Benjamin Netanyahu ha adottato la strategia di rafforzare Hamas nella Striscia di Gaza per indebolire l’Autorità palestinese e impedire la creazione di uno Stato palestinese. Secondo questa concezione errata, il corollario della distruzione di Hamas oggi sarebbe che Israele assumesse il controllo diretto della gestione della Striscia di Gaza, come se non potesse esistere nessun’altra alternativa palestinese.

Se guardiamo alla possibile ricolonizzazione israeliana di Gaza alla luce del disimpegno del 2005, vediamo che l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi sta cambiando principio: da una strategia di separazione e cantonizzazione per “gestire” indirettamente la popolazione palestinese, a una strategia suprematista di pulizia etnica. La continuità sta nella volontà di mantenere il controllo totale del territorio israelo-palestinese, senza alcuna prospettiva di divisione.

*docente di scienze politiche presso l’Institut national des langues et civilisations orientales (Inalco)