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Se qualcuno volesse comprendere la cifra profonda del tempo che stiamo attraversando, potrebbe affidarsi al discorso di apertura della campagna elettorale per le elezioni europee, tenuto ad Atene dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel febbraio 2024.

La Grecia è il luogo dove nel 2015 si è consumata la peggiore frattura tra l’oligarchia politico-finanziaria che determina le scelte dell’Unione europea (Ue) e un intero popolo in lotta per difendere diritti, beni comuni, servizi pubblici e democrazia. Conosciamo il nefasto esito di quello scontro: nonostante il popolo greco si fosse nettamente pronunciato per il no all’accettazione del Memorandum, l’allora governo di sinistra guidato da Alexīs Tsipras non ebbe il coraggio, né la forza di essere conseguente e capitolò di fronte alle imposizioni dell’Ue. E l’intero Paese fu schiacciato da politiche di austerità, nonché messo letteralmente in vendita pezzo per pezzo.

Nove anni dopo la presidente della Commissione europea torna sul luogo del delitto, ma questa volta per complimentarsi con l’attuale governo greco: “Sono venuta ad Atene perché la Grecia rappresenta un modello per l’Europa, che tutti i membri Ue dovrebbero imitare: è infatti l’unico fra i 27 Paesi che già dedica oltre il 2% del Pil alle spese militari. Siccome la guerra non appartiene al passato, la spesa per la difesa dev’essere il segno distintivo del futuro dell’Europa”.

In questo passaggio senza soluzione di continuità da una Grecia osteggiata per la difesa dei diritti a una Grecia osannata per gli investimenti nelle spese militari risiede la drammaticità del tempo nel quale siamo immersi.

Ma le due fasi sopra riportate sono due facce della stessa medaglia: la trappola del debito e l’economia di guerra. E costituiscono la doppia dimensione che la crisi del ciclo capitalistico basato sulla globalizzazione dei mercati cerca di imporre alle popolazioni per garantirsi la sopravvivenza.

La riproposizione delle politiche di austerità, attraverso la reintroduzione – dopo tre anni di sospensione post pandemia – del Patto di stabilità “riformato”, vuole richiudere la gabbia a qualsiasi possibilità di inversione di rotta sulla conversione ecologica e la difesa dei beni comuni, sul diritto al reddito e al lavoro, sui diritti sociali e la difesa dei servizi pubblici, a partire da sanità e istruzione.

Poco importa che il “nuovo” Patto di stabilità (per certi versi addirittura peggiorativo del precedente, in quanto indirizza all’1,5 % e non più al 3% il deficit possibile) sia considerato di fatto impraticabile, essendo già oggi ben 13 i Paesi che hanno un rapporto debito/Pil molto superiore al mitico 60% previsto dai vincoli di Maastricht.

Il Patto di stabilità non serve a garantire la stabilità finanziaria (altrimenti qualcuno dovrebbe prendere atto del fallimento, essendo il debito di tutti i Paesi notevolmente aumentato in questi decenni di austerità), serve a garantire la stabilità dei profitti dei grandi interessi finanziari, anestetizzando e/o impedendo qualsiasi rivendicazione popolare di un futuro differente.

E serve a imporre la rassegnazione di fronte alla trasformazione della società verso un’economia di guerra, la costruzione della quale fa magicamente scoprire che i soldi ci sono, ma che non vi è nessuna intenzione politica a destinarli all’interesse generale.

Del resto, è un terreno arato da tempo che le recenti guerre e conflitti, che stanno scuotendo l’asse geopolitico mondiale, hanno fertilizzato come mai prima d’ora.

Secondo l’ultimo Rapporto della Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), il bilancio mondiale delle spese in armamenti è salito al livello record di 2.440 miliardi di dollari e, per la prima volta, siamo di fronte a dati in crescita in tutti e cinque i continenti.

L’innalzamento delle spese è stato del 6,8% tra il 2022 e il 2023.Il più consistente dal 2009. Stati Uniti (37%) e Cina (12%) sono i Paesi che spendono di più, con un aumento rispettivamente del 6% e del 2,3%.

Secondo il Rapporto, Russia, India, Arabia Saudita e Regno Unito seguono a notevole distanza ma con un incremento medio delle spese militari pari al 7,9%, mentre la spesa in Medio Oriente è aumentata del 9% (con Israele che svetta con un +24%) raggiungendo i 200 miliardi di dollari, dato che rende quest’area del mondo la regione con la più alta spesa militare in percentuale del Pil nel mondo (4,2%).

Se volgiamo lo sguardo all’Europa, scopriamo che, nell’ultimo decennio, la Germania ha aumentato la spesa militare reale del 42%, l’Italia del 30% e la Spagna del 50% e che la spesa per armamenti nei Paesi membri della Nato ha raggiunto i 64,6 mld di euro (+270% nel decennio).

Per rimanere all’Italia, quest’anno, per la prima volta nella storia, il bilancio del ministero della Difesa supera i 29 miliardi, 10 dei quali – anche questo è un record – saranno destinati all’acquisizione diretta di armamenti.

É forse utile ricordare come la somma di 10 miliardi, diversamente destinata, potrebbe garantire 140mila posti di lavoro nell’istruzione, 120mila nella sanità, 100mila nel settore ambientale.

Seguendo questi dati, lo scenario diventa chiaro: la spesa pubblica si orienta verso l’economia di guerra e i vincoli finanziari, ribaditi nel “nuovo” Patto di stabilità, servono a rendere impossibile ogni diversa destinazione delle risorse disponibili.

Non vi è alcuna possibilità di uscita, se non rivoluzionando il paradigma. Anche perché il nuovo scenario permette alle élite finanziarie di far pace con la propria, interessata, schizofrenia. È il caso della più grande banca d’affari degli Usa, JP Morgan, che solo quattro anni fa ammoniva i propri associati affermando la necessità di una drastica inversione di rotta: Sebbene non siano possibili previsioni precise, è chiaro che la Terra si trova su una traiettoria insostenibile. Qualcosa dovrà cambiare se vogliamo la sopravvivenza della razza umana e l’intero sistema dovrà modificare la direzione allo scopo di non spingere la Terra in una situazione che non vediamo da molti milioni di anni” e oggi scrive agli stessi: “Il contesto odierno è completamente mutato: i tassi di interesse più elevati, i debiti dei governi in forte crescita e un equilibrio geopolitico messo a rischio dalla crescente tensione in Medio Oriente e tra Russia e Occidente, rendono la transizione energetica un processo che richiederà diversi decenni e l’obiettivo net zero potrà forse essere raggiunto solo tra diverse generazioni”.

Probabilmente JP Morgan sta cercando semplicemente di giustificare i propri continuativi investimenti nelle fonti fossili (101 miliardi di dollari), ma certo il quadro complessivo creato dai governi consente questa indegna ritirata.

Serve un doppio passo di radicalità rivoluzionaria, se vogliamo sostituire l’attuale economia del profitto con l’orizzonte di una società della cura.

Il primo passo consiste nella consapevolezza di come la guerra sia il massimo dell’incuria. La guerra distrugge vite, famiglie e relazioni. Devasta territori e ambiente. Sradica le esistenze delle persone, esaspera le disuguaglianze sociali, ingabbia le culture, sottrae la democrazia. Lo strumento della guerra è figlio legittimo della cultura patriarcale, quella che persegue il dominio e la sopraffazione, e rimuove ogni consapevolezza sulla fragilità dell’esistenza e sull’interdipendenza fra le persone e con l’ambiente che abitano. Opporsi alla guerra con ogni mezzo diventa quindi necessario per aprire la strada a un’alternativa di società.

Ma quest’orizzonte non potrà essere praticabile senza effettuare il secondo passo, smascherando la narrazione ideologica e artificiale costruita attorno al debito.

Una narrazione che ha l’unico scopo di fermare le rivendicazioni sociali e ambientali, dichiarandole inattuabili data la presunta necessità della stabilità dei conti finanziari. E che si prefigge non solo di governare il tempo presente delle persone, bensì di predeterminarne anche il futuro, garantendosi un’organizzazione della società modulata intorno alle scadenze previste per onorare il debito contratto, destinando a questo buona parte della propria ricchezza collettiva.

Il dilemma resta il medesimo: scegliere tra la Borsa e la vita.

È giunto il tempo di scegliere, senza ulteriori indugi, la vita.

Tutte e tutti insieme, la vita.

* portavoce di Attac Italia. Questo articolo è apparso come anteprima del numero di maggio-giugno 2024 de Il granello di sabbia, bollettino di Attac Italia, sul sito https://attac-italia.org/