Ieri, il Parlamento ha discusso di tre iniziative parlamentari dei deputati MPS con le quali si chiedeva lo stralcio dei meccanismi costituzionali e di legge che sono alla base della politica del freno ai disavanzi, di cui il decreto Morisoli altro non è che una versione compatta. Inutile dire che la proposta non è andata dal di là dei 22-25 voti che qualsiasi proposta, un po’ incisiva, che viene da sinistra riesce oggi a racimolare.
Il dibattito ci è sembrato comunque interessante perché ha permesso di polarizzare punti di vista differenti e alternativi. Pubblichiamo qui sotto l’intervento iniziale a sostegno delle tre proposte. (Red)
Alla base delle disposizioni sul freno ai disavanzi (e alcuni corollari ad esso legati) vi sono due considerazioni che vengono costantemente avanzate:
– la prima è che il debito avrebbe raggiunto livelli preoccupanti (alimentato dall’accumulazione di disavanzi d’esercizio);
-la seconda è che la causa principale di questi disavanzi sarebbe l’aumento continuo e incontrollato della spesa pubblica.
Si tratta di due considerazioni che non condividiamo.
La prima considerazione è contestabile da più punti di vista. Basterà qui ricordare, ad esempio, che nel 1983 – cioè circa 40 anni fa – il debito pubblico del Cantone era di circa 1,3 miliardi. Oggi è quasi il doppio…ma sono passati 40 anni e i compiti che deve affrontare il Cantone non sono certo confrontabili con quelli di 40 anni fa. Oltre a ciò è necessario guardare da vicino la correlazione tra un PIL (che non doveva all’epoca essere superiore ai 20 miliardi) e quello attuale che supera ampiamente i 30 miliardi. Né in cifre assolute, né tantomeno rispetto alla ricchezza prodotta (cioè il PIL, al di là della perfezione o meno di questo strumento) l’attuale livello del debito pubblico ticinese può essere considerato eccezionale, insopportabile, pericoloso, eccetera: tutti termini spesso ripetuti e con i quali si vuole, con obiettivi precisi, drammatizzare la situazione.
La realtà vera del debito pubblico cantonale è che esso in questi ultimi trent’anni si è sistematicamente mantenuto – in rapporto al PIL – costantemente e ampiamente al di sotto del 10%. Oggi (se prendiamo per buono il dato del 2021 sul PIL – 33 miliardi) abbiamo un rapporto che si situa attorno al 7,5%, assai vicino a quello di una quarantina di anni fa.
Ma ormai tutte queste cose non sono nemmeno più da dimostrare. E lasciano il tempo che trovano le obiezioni del tipo “il debito ci costa”.
Come ha ricordato Matteo Pronzini nel suo intervento sul Preventivo 2024 quel che conta e determina la sopportabilità del debito è il rapporto tra quanto ci costa e quanto ci rende, cioè tra spese finanziarie e ricavi finanziari (tra interessi passivi dovuti al debito e interessi attivi, frutto del patrimonio).
Ebbene, i dati per il Preventivo 2024 sono chiari: di fronte a spese finanziarie di 36 milioni abbiamo ricavi finanziari di circa 92 milioni, cioè un rapporto di 1 a 3. (Il consuntivo 2023 appena consegnato ci dà spese finanziarie per poco più di 30 milioni e ricavi finanziari superiori ai 78 milioni). Sentiamo già le obiezioni di coloro che mettono in luce che non solo tra il 2023 e il 2024 le spese finanziarie sono aumentate (passando da 30 a 36), ma che, vista una certa tendenza ad un aumento dei tassi di interesse, questa situazione potrebbe peggiorare. Non è tuttavia questo lo scenario che delineano le cifre di piano finanziario presentate (cfr. messaggio pag. 17): le spese finanziarie dovrebbero lievitare, nel 2027, a quasi 44 milioni; sempre nel 2027 i ricavi finanziari dovrebbero assestarsi a più di 83 milioni: malgrado tutto quindi ancora un rapporto di quasi uno a due. Una situazione questa, di un rapporto favorevole agli interessi positivi, che dura da tempo: ricordiamo, ad esempio, che dieci anni fa avevamo spese finanziarie per 44 milioni di fronte a ricavi finanziari di 59 milioni”.
Ma, passando al secondo aspetto, quello della spesa e del suo aumento, noi non condividiamo la logica che, su questo tema, vi è alla base della politica del freno ai disavanzi: la necessità di adeguare la spesa pubblica alle disponibilità finanziarie dello Stato, cioè una logica gerarchica chiara tra spese necessarie per adempiere ai compiti dello Stato e i mezzi finanziari a disposizione: una gerarchia che vede questo secondo aspetto dominare.
Naturalmente non si tratta né di giustificare, né di difendere quella parte della spesa pubblica che fosse inefficiente, ma quasi sempre utile ad alimentare il voto di scambio e il sistema clientelare: ma qui non voglio spiegare cose che voi conoscete alla perfezione.
Il nostro punto di vista è chiaro: bisogna partire dalle necessità oggettive dei cittadini e delle cittadine – necessità alle quali può e deve rispondere lo Stato. E queste sono note in ambito sociale, formativo, culturale, sanitario, anziani, etc. Una volta stabilite queste necessità (che d’altronde derivano dai cosiddetti diritti sociali che la Costituzione cantonale descrive chiaramente) le scelte finanziarie devono essere adeguate. È evidente, non siamo ingenui, che questo necessiterebbe una redistribuzione della ricchezza tra capitale e lavoro, nella società prima di tutto (in quella che viene definita la distribuzione primaria), ma poi anche sul terreno della distribuzione secondaria – quella che si fonda sulla fiscalità – facendo passare alla cassa i detentori di patrimoni e i titolari di alti redditi.
In questa nostra prospettiva è evidente che la politica del pareggio di bilancio e tutti i suoi corollari (attorno ai quali è costruita l’architettura finanziaria del Cantone) non possono essere accettabili.
Essi costituiscono l’essenza della politica neoliberale affermatasi negli ultimi decenni a livello del capitalismo globale. L’Unione Europea è il modello al quale queste logiche (cantonali, ma anche federali: basti pensare al meccanismo del freno alla spesa) guardano. E i meccanismi, spesso fondati su limiti percentuali tra fattori diversi (ad esempio il rapporto PIL deficit, o il rapporto percentuale di scostamento tra preventivo e consuntivo) sono da molti considerate regole “stupide”, cioè prive di qualsiasi fondamento logico o economico.
L’obiettivo di questi meccanismi (freno ai disavanzi, freno alla spesa) sono chiari: ridurre la spesa pubblica, diminuire l’esigenza di entrate da parte dello Stato, giustificare la diminuzione della pressione fiscale. Per chi paga poche imposte (perché consegue poco reddito o ha un patrimonio inconsistente) questo significa diminuzione e peggioramento dei servizi offerti dallo Stato; per chi paga molte imposte (semplicemente perché ha redditi e patrimoni elevati) significa meno imposte e quindi maggior reddito o profitto.
È lo scenario che stiamo vivendo da tempo e che ha avuto un’accelerazione negli ultimi anni e che caratterizza le politiche dei governo, non solo in Ticino o in Svizzera ma dappertutto nel mondo capitalista, indipendentemente, ahinoi, dalla etichetta con la quale si caratterizzano i governi che invece, tutti o quasi, abbracciano politiche neoliberali ispirate proprio alla logica che abbiamo descritto.
Da qui le nostre proposte tese a rimettere in discussione questa logica. Una logica che non solo alimenta negativamente la politica del Cantone (e, di transenna, anche quella dei Comuni), ma che offre la sponda a ulteriori derive come quella del cosiddetto decreto Morisoli. Che certo, come abbiamo avuto modo dire, va combattuto; ma senza mai dimenticare che è proprio nelle norme che noi oggi contestiamo che esso trova origine e nutrimento.