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Il movimento globale che denuncia la guerra sionista con effetti di genocidio in corso nella Striscia di Gaza (e in Cisgiordania, con un’intensità minore) – e nel contesto di questo movimento, in particolare, il movimento giovanile che si è sviluppato nelle università statunitensi e che da lì si sta diffondendo in altri Paesi – è l’unico barlume di speranza nello scenario desolante e orribile della distruzione di Gaza. L’intensità delle reazioni dei circoli pro-Israele contro questo movimento è solo una conferma dell’importanza di questo sviluppo, che non sarebbe esagerato definire storico.

Infatti, l’emergere di un movimento di massa solidale con la causa palestinese nei Paesi occidentali, soprattutto all’interno della superpotenza senza la quale lo Stato sionista non sarebbe in grado di combattere l’attuale guerra genocida, costituisce uno sviluppo molto preoccupante agli occhi della lobby pro-Israele. Minaccia di instaurare tra le nuove generazioni un rifiuto della barbarie sionista che rivaleggia con il rifiuto della barbarie imperiale statunitense di oltre mezzo secolo fa, che fu uno dei principali fattori che portarono Washington a interrompere l’aggressione contro il popolo vietnamita e a ritirare le sue forze dal Paese nel 1973.

Questo precedente storico è fortemente presente nelle menti dei sostenitori di Israele in tutti i Paesi occidentali, poiché il movimento contro la guerra del Vietnam li comprendeva tutti e ha persino giocato un ruolo di primo piano nell’ondata di radicalizzazione politica di sinistra del movimento studentesco su scala globale alla fine degli anni Sessanta. Il campanello d’allarme è quindi suonato negli ambienti sionisti e nei loro sostenitori, spingendoli a lanciare una campagna violenta contro il movimento solidale con il popolo palestinese, cercando di metterlo a tacere in vari modi repressivi, dalla violenza ideologica a quella della polizia accompagnata da quella legale.

Questi sforzi oppressivi non sono nuovi, ovviamente, ma fanno parte di una guerra ideologica che è iniziata fin dall’inizio del progetto sionista e si è intensificata man mano che questo veniva attuato in Palestina sotto gli auspici del colonialismo britannico. La battaglia ha raggiunto il suo apice nell’immediato dopoguerra, quando le Nazioni Unite, allora appena istituite sotto l’egemonia dei Paesi del Nord globale, hanno preso in considerazione la questione della spartizione della Palestina e della concessione al movimento sionista del diritto di stabilirvi il proprio Stato. In quella fase, lo sforzo sionista nella “guerra delle narrazioni” si concentrò sul raffigurare il rifiuto dei palestinesi l’istituzione uno Stato sionista sulla maggior parte del territorio nazionale come se fosse ispirato da un “antisemitismo” simile all’odio dei nazisti per gli ebrei e che ne costituiva una continuazione. La propaganda sionista ha dipinto la conquista della maggior parte della terra di Palestina nel 1948, insieme allo sradicamento della maggior parte delle popolazioni indigene, come l’ultima battaglia contro il nazismo, distorcendo e mascherando così la realtà di quell’usurpazione, che fu in realtà l’ultimo episodio della realizzazione del progetto coloniale sionista (*).

Nel corso del tempo, la propaganda sionista è diventata sempre più intensa nell’etichettare chiunque sia ostile al progetto sionista come un odiatore degli ebrei e un seguace del nazismo. Due esempi, tra gli altri, sono Gamal Abdel Nasser e, dopo di lui, Yasser Arafat, entrambi dipinti da quella propaganda come omologhi di Adolf Hitler. Questa equazione ha raggiunto l’apice dell’assurdo e del grottesco nella risposta di Menachem Begin, leader del partito Likud, le cui radici fasciste sono ben note, Primo Ministro israeliano quando l’esercito sionista invase il Libano nel 1982, a Ronald Reagan, allora Presidente degli Stati Uniti che, in una lettera a Begin, aveva espresso la sua preoccupazione per la sorte della popolazione civile a Beirut assediata. Nella sua risposta, Begin scrisse: “Mi sento come un Primo Ministro autorizzato a istruire un valoroso esercito che affronta “Berlino”, dove, tra civili innocenti, Hitler e i suoi scagnozzi si nascondono in un bunker in profondità”.

Lo zelo della propaganda sionista è aumentato nel ricorrere alle accuse di antisemitismo e ai paragoni con il nazismo, man mano che l’immagine dello Stato sionista si degradava nell’opinione pubblica internazionale e occidentale in particolare. Il fatto è che questa immagine si è costantemente deteriorata man mano che lo Stato di Israele è passato dal mito di uno Stato che riscatta lo sterminio nazista degli ebrei e che è gestito dai pionieri di un sogno socialista guidati da un “partito dei lavoratori”, alla realtà di uno Stato militarista espansionista, guidato dall’estrema destra. Questa trasformazione dell’immagine si è accelerata con l’occupazione israeliana dei territori libanesi (1982-2000) e la soppressione della prima intifada nei territori occupati nel 1967, che ha raggiunto il suo apice nel 1988, e successivamente con i ripetuti attacchi sanguinosi e distruttivi alla Striscia di Gaza, a partire dal “massacro di Gaza” del 2009.

Con il declino dell’immagine dello Stato sionista, la propaganda dei suoi sostenitori si è concentrata sul rifiuto di qualsiasi critica radicale nei suoi confronti, accusandola di antisemitismo. Nel 2005, alcuni circoli pro-Israele hanno formulato una definizione di antisemitismo che includeva “esempi” come “paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella nazista” (il che significa che il paragone dei sionisti tra alcuni dei loro nemici arabi e il nazismo è accettabile, così come lo è il paragone tra qualsiasi Stato e il nazismo, tranne lo Stato sionista, il cui paragone con il nazismo costituisce una forma di antisemitismo per il solo fatto di essere “ebraico”) e “sostenere che l’esistenza di uno Stato di Israele è un’impresa razzista” (in altre parole, descrivere come razzista qualsiasi progetto che miri alla creazione di uno Stato sulla base di discriminazioni razziali o religiose è accettabile, ad eccezione del progetto dello “Stato ebraico”, per il quale tale etichetta è tabù).

Nel 2016, l’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) ha adottato questa definizione, prima di una campagna lanciata in vari Paesi occidentali, chiedendo loro di adottarla ufficialmente per soffocare le critiche al sionismo. La campagna è riuscita a far adottare la definizione ai parlamenti di Paesi come la Germania e la Francia. La campagna è culminata nel tentativo di far adottare la stessa definizione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Questo tentativo è però fallito, soprattutto dopo che, nell’ottobre 2022, il Relatore speciale sulle forme contemporanee di razzismo ha sconsigliato l’adozione della definizione dell’IHRA. Naturalmente, il fervore tra i sostenitori dello Stato sionista è tornato e ha raggiunto forme frenetiche di fronte all’attuale escalation di condanna globale della guerra genocida che lo Stato sionista sta conducendo a Gaza da sette mesi.

Poiché gli stessi Stati Uniti sono uno dei principali teatri di questa condanna, soprattutto tra i giovani studenti, come sottolineato all’inizio di questo articolo, il 1° maggio la Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti ha adottato una proposta di legge, presentata da un rappresentante repubblicano nell’ottobre dello scorso anno, che chiede l’adozione della definizione dell’IHRA come base per “l’applicazione delle leggi federali antidiscriminazione riguardanti i programmi o le attività educative, e per altri scopi”. 320 rappresentanti hanno votato a favore di questa proposta di legge, contro 91 che hanno votato contro. 133 rappresentanti del Partito Democratico si sono uniti ai Repubblicani nel votare a favore della legge, mentre 70 rappresentanti democratici e 21 repubblicani hanno votato contro (e 18 si sono astenuti dal voto). Se era normale che i rappresentanti della sinistra democratica votassero contro la legge pro-Israele, è stato molto strano vedere rifiutare anche i rappresentanti dell’estrema destra repubblicana, tra cui la frenetica reazionaria rappresentante Marjory Taylor Greene, la più estremista tra i sostenitori di Donald Trump – tanto che quest’ultimo appare quasi moderato al suo confronto.

Non pensi, caro lettore, che i rabbiosi repubblicani di destra si siano opposti allo sforzo repressivo del movimento di denuncia della barbarie israeliana per attaccamento alla libertà di parola. Sono i più entusiasti devoti dello Stato sionista, soprattutto da quando il governo di quest’ultimo include persone che, come loro, appartengono all’estrema destra. Sono anche favorevoli a sopprimere la libertà di parola ogni volta che riguarda opinioni che odiano e chiedono freneticamente un’escalation di repressione contro gli studenti che si oppongono alla guerra genocida di Israele. La ragione della loro opposizione al disegno di legge risiede semplicemente nella loro fedeltà all’antisemitismo tradizionale, che da tempo ispira una parte importante dei sostenitori del sionismo. Questi antisemiti concordano con il sionismo nel ritenere che lo Stato di Israele sia l’unica patria degli ebrei, pur odiando la presenza degli ebrei nei loro Paesi (proprio come odiano la presenza dei musulmani).

Mentre uno degli argomenti tradizionali dell’antisemitismo per l’ostilità verso gli ebrei era quello di ritenerli collettivamente responsabili dell’ “uccisione di Cristo”, con il pretesto che i Vangeli incolpavano una folla ebraica di aver condannato a morte Cristo e poiché gli esempi di antisemitismo forniti dalla definizione dell’IHRA includevano “affermazioni di ebrei che hanno ucciso Gesù”, i repubblicani che hanno votato contro la legge hanno giustificato la loro posizione non con il fatto che essa impedirebbe le critiche al sionismo e al suo Stato, che ovviamente accolgono con favore, ma con il timore che essa proibisca le posizioni antisemite tradizionali, se trasformata in legge. Ecco perché i più entusiasti sostenitori dello Stato “ebraico” si oppongono a limitare la libertà dei veri odiatori degli ebrei. Si deve ridere o piangere?

* Il mio libro Gli arabi e l’Olocausto: The Arab-Israeli War of Narratives (2010) è dedicato a confutare i tentativi di presentare la posizione araba come se fosse ispirata al nazismo. Ho confutato lo stesso tentativo per quanto riguarda l’operazione “Al-Aqsa Flood” nel mio recente articolo “Gaza: Il 7 ottobre in prospettiva storica”.

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