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Provate a immaginare. Quasi la metà della popolazione è esposta all’inquinamento o a un prodotto nocivo. Le persone che si trovano in questa situazione hanno una probabilità quasi doppia rispetto agli altri di trovarsi un cattivo stato di salute generale. È molto probabile che i media si occupino della questione, che si apra un dibattito pubblico, che si lanci una campagna di prevenzione, che si chiedano – e magari si adottino – misure per arginare questa minaccia alla salute pubblica.

Non c’è bisogno di grande immaginazione: gli ultimi risultati dell’Indagine sulla salute in Svizzera (ESS), pubblicati dall’Ufficio federale di statistica (UST) il 23 maggio 2024, mostrano che una situazione simile è proprio sotto i nostri occhi. La differenza sta nelle conseguenze che, verosimilmente, che ne dovrebbero derivare. Nel 2022, il 45% delle persone occupate ha affrontato almeno tre rischi fisici su dieci nello svolgimento del proprio lavoro, come, ad esempio, l’assunzione di posizioni che provocano dolore o fatica o il lavoro svolto a temperature estreme. Il 48% ha affrontato almeno tre rischi psicosociali su nove, quale una grande intensità dei ritmi di lavoro, una situazione di stress, di discriminazione o di violenza. Questa quasi metà della popolazione lavorativa aveva una probabilità da 1,5 a 2 volte maggiore di dichiarare che il proprio stato di salute generale non è buono, in particolare se confrontato con quello dell’altra metà meno esposta.

Ma l’analogia si ferma qui: il dibattito pubblico sulle condizioni di lavoro che rappresentano una minaccia per la salute è praticamente inesistente, la prevenzione è nel migliore dei casi simbolica e l’azione pubblica per porre rimedio a questa situazione è del tutto inesistente. Il lavoro occupa un posto centrale nella vita della maggior parte della popolazione, ma la sua organizzazione e le costrizioni imposte a chi lo svolge restano appannaggio del dispotismo dei datori di lavoro, esclusi dal dibattito e dal processo decisionale pubblico e democratico.

In questo contesto, la recente pubblicazione dell’UST ha il vantaggio di riportare al centro la tematica, fornendo dati nazionali basati su un’indagine di riferimento. La sua consultazione è di grande interesse Conditions de travail et état de santé, entre 2012 et 2022 – Enquête suisse sur la santé | Publication | Office fédéral de la statistique (admin.ch) (esiste solo in francese o tedesco).
Ecco alcuni elementi che permettono di mettere in prospettiva i risultati che essa contiene.

Un’indagine importante, ma solo parziale

I risultati pubblicati dall’UST si basano sulle ultime tre indagini dell’Indagine sulla salute in Svizzera (ESS), l’indagine di riferimento sulla salute della popolazione residente in Svizzera dal 1992. Queste tre inchieste, condotte nel 2012, 2017 e 2022, hanno posto le stesse domande sulle condizioni di lavoro. È la prima volta che un’indagine nazionale è in grado di tracciare i cambiamenti delle condizioni e delle percezioni lavorative su un periodo di dieci anni [1].

È necessario, tuttavia, ricordare due limiti legati a questo tipo di indagine. In primo luogo, per partecipare all’indagine, gli intervistati devono essere registrati nel quadro di un campionamento dell’UST. Questo si basa sui registri comunali e cantonali della popolazione. Ciò significa che i lavoratori frontalieri, i lavoratori distaccati provenienti dall’estero o con permessi di breve durata e i migranti privi di documenti (i sans papiers) non vengono coinvolti in queste inchieste. In settori come l’agricoltura, l’edilizia, la ristorazione, le pulizie, l’assistenza sanitaria e l’orologeria, solo per citarne alcuni, i lavoratori non registrati nel registro dei residenti costituiscono una percentuale significativa della forza lavoro, occupando – e questo è il punto più importante – quasi interi segmenti lavorativi, spesso tra i più duri e precari. Di conseguenza, le loro situazioni non sono rappresentate (o lo sono solo molto male) dalle persone intervistate. Per definizione, questo tipo di indagine fornisce quindi solo una visione frammentaria e smussata della realtà del lavoro.

In secondo luogo, un’indagine nazionale condotta su poco più di 10’000 persone, un numero relativamente elevato per un’indagine campionaria, può offrire solo una visione molto globale della situazione. È impossibile, su questa base, conoscere con precisione le condizioni di lavoro in un settore specifico, ad esempio nelle aziende della logistica legate allo sviluppo del commercio elettronico, dai magazzini di Galaxus alle società di consegna, passando per i centri che gestiscono la restituzione dei pacchi di Zalando. Un’indagine di questo tipo può solo offrire una sorta di prima “visione dall’alto” delle regioni del mondo del lavoro in cui si concentrano le condizioni di lavoro più faticose e pericolose per la salute. Si tratta quindi di una preziosa fonte di informazioni e, allo stesso tempo, di un invito a indagare sul campo, con i lavoratori direttamente interessati, per approfondire le situazioni concrete e, soprattutto, per mettere a fuoco le necessarie rivendicazioni. Rappresenta una grande opportunità per le organizzazioni sindacali impegnate a svolgere adeguatamente il proprio ruolo.

Nel frattempo, ecco tre esempi del tipo di informazioni che si possono trovare nella pubblicazione dell’UST.

Le lavoratrici sono più esposte… ma chiamano le cose con il loro nome

L’elenco è impressionante. Tra il 2012 e il 2022, è in aumento la percentuale di donne che: sono stressate sul lavoro (dal 17% al 25%), sono emotivamente esauste sul lavoro (dal 21% al 25%), devono affrontare un’elevata intensità di lavoro, in particolare devono lavorare con scadenze molto strette e molto brevi (dal 30% al 34%), devono pensare a troppe cose contemporaneamente nel loro lavoro (dal 43% al 50%), ritengono che il loro lavoro non sia riconosciuto per il suo vero valore (dal 9% al 12%), dichiarano di essere state vittime di discriminazione di genere (dal 5,7% all’8,4%), dichiarano di essere state vittime di molestie sessuali (dallo 0,6% all’1,7%). Questo elenco, non esaustivo, non ha equivalenti tra gli uomini.

In diverse occasioni, le giovani donne sono molto più colpite delle donne più anziane. Ad esempio, il 32% delle donne tra i 15 e i 29 anni è stressato sul lavoro, rispetto al 26% di quelle tra i 30 e i 49 anni e al 19% di quelle tra i 50 e i 64 anni. Ma questo vale anche per la discriminazione di genere (13% rispetto al 9% e al 4%), per il mancato riconoscimento del vero valore del proprio lavoro (16% rispetto all’11% e al 10%) e per le molestie sessuali (4,1% rispetto all’1,5% e allo 0,4%). Gli uomini sotto i 30 anni, come le donne della stessa età, corrono più rischi fisici rispetto ai loro coetanei. Tuttavia, questo non è il caso dei rischi di carattere psicosociale, come quelli sopra menzionati.

Questi risultati suggeriscono quindi una specifica tendenza negativa nelle condizioni di lavoro delle donne. A ciò possono contribuire diversi effetti. In primo luogo, l’occupazione femminile è in aumento, soprattutto in settori come la sanità e l’assistenza sociale, dove i vincoli di finanziamento stanno diventando sempre più un problema e hanno un impatto negativo sulle condizioni di lavoro.

In secondo luogo, in molti settori le donne continuano a occupare principalmente posti di lavoro subordinati, meno riconosciuti e soggetti a maggiori vincoli. La pubblicazione dell’UST, ad esempio, evidenzia la grande differenza tra le condizioni di lavoro di uomini e donne nel settore bancario e assicurativo, dove le donne svolgono assai più spesso mansioni amministrative (il 48% delle donne rispetto al 25% degli uomini). A ciò si aggiunge anche il fatto che sono anche molto più esposte ad almeno tre rischi psicosociali (60%, rispetto al 38% degli uomini).

In terzo luogo, anche le mobilitazioni delle donne negli ultimi anni possono aver giocato un ruolo. Hanno aumentato la consapevolezza della disuguaglianza, della discriminazione e della violenza subita dalle donne sul lavoro, apparsa come una situazione diffusa, inaccettabile e tale da necessitare dei cambiamenti. È probabile che ciò si traduca anche in una maggiore disponibilità da parte di alcune donne a definire tali situazioni – mancato riconoscimento, stress, discriminazione, molestie – per quello che sono. Riconoscere e denunciare va di pari passo.

Il rivelatore di una condizione di stress

Tra le caratteristiche delle condizioni di lavoro osservate dall’SSE, lo stress è quella la cui frequenza è aumentata maggiormente in dieci anni, dal 17% al 25% tra le donne e dal 18% al 21% tra gli uomini. Che cosa può significare?

Nelle aziende e nei media il termine “stress” viene usato indistintamente, ma quasi sempre riferito ad un problema individuale. Esistono innumerevoli corsi di formazione, “offerti” dalle aziende, che affermano di insegnare “come gestire lo stress”. Lo stress diventa così una parola magica, che significa sia: “ci prendiamo cura del benessere” dei “nostri” collaboratori, sia che “ogni dipendente è individualmente responsabile della gestione della propria salute sul lavoro”.

I dati pubblicati dall’UST dimostrano come lo stress non sia una questione di capacità individuali a far fronte ad una determinata situazione, ma l’espressione sintetica delle costrizioni esercitate dai rischi psicosociali derivanti dall’organizzazione del lavoro.

Ad esempio, il 50% delle persone che dichiarano di dover far fronte a elevate richieste emotive nel proprio lavoro si dichiarano stressate, contro il 14% di coloro che non lo sono. Cosa sono queste “richieste emotive”? Si tratta del fatto di dover nascondere le proprie emozioni ed eventuali conflitti con il pubblico nel corso del proprio lavoro. Gestire le proprie emozioni e non lasciare che influenzino il rapporto con le persone di cui ci si prende cura è un requisito professionale per un infermiere o un educatore. Tuttavia, è più difficile se, ad esempio, il lavoro è così denso, a causa della mancanza di personale, che non si ha più il “respiro” per fare un passo indietro di tanto in tanto. Un altro esempio: le tensioni con i clienti aumentano nei supermercati quando la gestione del personale è deliberatamente programmata per garantire che alle casse si formino code relativamente – ma non troppo – lunghe, per mantenere la pressione sul ritmo delle cassiere e per incoraggiare i clienti a fare da soli il lavoro delle cassiere utilizzando le casse automatiche.

Sempre secondo l’UST, sono le “richieste psicologiche elevate” ad essere associate al maggiore aumento dello stress: il 35% delle persone che si trovano ad affrontare tali richieste dichiara di essere stressato per la maggior parte del tempo o sempre, con una frequenza dieci volte superiore rispetto a coloro che non devono affrontare tali richieste (3%). Nell’indagine dell’UST, le richieste psicologiche elevate sono così definite: dover pensare a troppe cose contemporaneamente, dover andare di fretta, essere interrotti nel proprio lavoro in modo disturbante, ricevere ordini contraddittori, avere difficoltà a conciliare lavoro e impegni familiari. Tutte queste situazioni possono essere ricondotte all’organizzazione del lavoro.

La pubblicazione dell’UST mostra anche che lo stress è chiaramente associato a un peggioramento della salute. Più della metà delle persone stressate dal lavoro (53%) afferma di essere sempre più svuotata emotivamente sul lavoro, il che è considerato indice di un maggior rischio di burnout. Tra le persone non stressate, questa percentuale è quattro volte inferiore (13%). Lo stress è infatti una delle quattro condizioni di lavoro, tra i dieci rischi fisici e i nove rischi psicosociali osservati nell’SSE, che è singolarmente associata a un aumento del rischio che il proprio stato di salute generale non sia buono: il 15% delle persone che sono stressate per la maggior parte del tempo o sempre nel loro lavoro afferma che il proprio stato di salute non è buono, mentre è solo del 7% per le persone che dichiarano di non essere stressate. Le altre tre condizioni di lavoro, anch’esse associate singolarmente a un peggioramento della salute, sono la paura di perdere il lavoro, le elevate richieste emotive e le posizioni che creano fatica o dolore.

Sanità, edilizia, ristorazione…

Secondo l’UST, i tre settori in cui è più alta la percentuale cumulativa di persone che devono affrontare almeno tre rischi fisici o almeno tre rischi psicosociali sono la sanità e il lavoro sociale, l’edilizia e la ristorazione. In ognuno, i due tipi di rischio – fisico e psicosociale – si combinano.

Cominciamo con il ramo “Sanità e lavoro sociale”. Questo settore comprende l’assistenza sanitaria in quanto tale, il settore dell’accoglienza sociale (Case per anziani, alloggi per persone con disabilità), nonché l’intero settore dell’assistenza alla prima infanzia. Una donna su quattro lavora in questo settore e la tendenza è in crescita (e circa un uomo su quindici). Si tratta quindi di un settore importante di salariati, femminile prima di tutto.

Rispetto alla media (che non vuol dire che la media rappresenti una situazione ideale!), l’UST mostra che le donne che lavorano in questo settore sono molto più spesso confrontate con rischi psicosociali, come le richieste emotive già menzionate, la mancanza di autonomia nell’organizzazione del lavoro e lo stress. I livelli di stress sono più elevati nel settore sanitario e sociale. Ma le donne che lavorano in questo settore devono spesso affrontare anche rischi fisici, come la necessità di assumere posizioni dolorose o faticose, o di sollevare carichi pesanti o persone, una dimensione del loro lavoro che viene spesso trascurata. Questa combinazione, insieme agli orari di lavoro irregolari e ai turni di notte, è una delle ragioni per cui il lavoro in questi settori, in particolare quello dell’assistenza, è così duro, cosa che anche le organizzazioni sindacali denunciano da anni.

Vediamo ora il settore dell’edilizia. La fatica fisica del lavoro in questo settore è ampiamente data per scontata, “normale”. I risultati pubblicati dall’UST rivelano l’effettiva portata di questa realtà. Le persone che lavorano nell’edilizia, in grande maggioranza uomini, sono proporzionalmente più esposte di altre a nove dei dieci rischi fisici misurati dall’indagine. L’unica eccezione è rappresentata dal sollevamento e dallo spostamento di persone, tipico della cura dei bambini.

Ma non è tutto: i lavoratori edili si trovano contemporaneamente ad affrontare un’intensità del lavoro molto elevata, unita a una scarsa autonomia nell’organizzazione del proprio lavoro. Il 57% degli uomini che lavorano nell’edilizia dichiara di dover lavorare quasi sempre a ritmi elevati (mentre la media per gli uomini è del 45%; la Svizzera è in genere uno dei Paesi europei con la più alta intensità del lavoro). La combinazione di alta intensità lavorativa e mancanza di autonomia è particolarmente tossica per la salute. In particolare, la pressione dei tempi e la mancanza di spazio di manovra rendono doppiamente difficile organizzare il lavoro in modo da limitare l’impatto dello stress fisico, che a sua volta rende il lavoro molto più difficile. E se l’indagine avesse potuto interpellare i lavoratori distaccati o clandestini impiegati dalle imprese di subappalto, i risultati sarebbero stati ancora più negativi.

 Le condizioni di lavoro nei settori dell’edilizia e della sanità sono in qualche modo (anche se troppo poco) oggetto di dibattito pubblico. Ma altre realtà sono ignorate, anche se i risultati dell’UST dimostrano che rappresentano rischi per la salute almeno altrettanto grandi, se non maggiori. Questo vale in particolare per il settore della ristorazione e in quello alberghiero, dove lavora circa una persona su venticinque in Svizzera. In nessun altro settore la percentuale cumulativa di persone che riferiscono almeno tre rischi fisici (69%) o almeno tre rischi psicosociali (67%) è così alta. Movimenti ripetitivi del braccio o della mano, posizioni dolorose o faticose, trasporto di carichi pesanti, temperature elevate, stare quasi sempre in piedi: l’elenco dei rischi fisici è “ovvio”, se si pensa a cosa comporta effettivamente lavorare in un ristorante o in un hotel.

Allo stesso tempo, sono presenti anche la maggior parte dei rischi psicosociali: intensità, elevate richieste psicologiche ed emotive, mancanza di autonomia, mancanza di sostegno e riconoscimento sociale, stress. Il lavoro nella ristorazione è comunemente associato a retribuzioni (molto) basse, orari di lavoro irregolari e grande insicurezza. In realtà, però, è anche caratterizzato da un livello di disagio molto elevato, in gran parte invisibile. Anche se meno dettagliati, i risultati per settore pubblicati dall’UST indicano che la situazione non è molto migliore nel commercio o nel settore dei trasporti e della logistica.

Occuparsi della quotidianità del lavoro

I dati pubblicati dall’UST confermano che la quotidianità lavorativa plasmata dai datori di lavoro e dalla loro spinta alla redditività fa rima con disagi e danni alla salute per un gran numero di lavoratori e lavoratrici. Il paradosso è che questo destino comune viene presentato, e spesso vissuto, come una circostanza individuale, senza alcun confronto con quella del collega, senza alcun legame con gli obiettivi che i datori di lavoro impongono alle aziende e alle organizzazioni del lavoro che ne derivano.

La sfida per i sindacati è quindi quella di riappropriarsi di questi temi, cosa che può avvenire solo con la partecipazione attiva dei lavoratori, affinché tornino a essere una componente del sentimento di appartenenza allo stesso mondo, quello del lavoro subordinato e sfruttato, e una motivazione a lavorare insieme per condizioni di lavoro rispettose della salute e per un lavoro emancipato.

*articolo apparso il 24 maggio sul sito www.alencontre.org. Traduzione in italiano del segretariato MPS.

[1] L’UST fa notare, tuttavia, che l’ultima indagine (virtualmente) non ha affrontato la questione dell’orario di lavoro, che quindi non è contemplata. Sebbene i dati sull’orario di lavoro siano regolarmente raccolti in altre indagini, come l’indagine sulle forze di lavoro (ESPA), questa assenza è deplorevole perché limita la possibilità di analizzare i legami tra l’orario di lavoro e l’esposizione a rischi fisici o psicosociali.