Come la Cina ridisegna l’Asia sudorientale
Dai debiti del Laos agli equilibrismi della Thailandia: cinque esempi mostrano come Pechino stia tessendo una rete di dipendenze economiche e politiche
Da anni la Cina sta tessendo una fitta rete di relazioni nel sud-est asiatico, combinando investimenti, infrastrutture, cooperazione tecnologica e pressione diplomatica. I paesi della regione, strategicamente collocati tra l’Oceano Indiano e il Pacifico, si trovano oggi al centro di una trasformazione silenziosa che ne sta ridefinendo gli orientamenti economici e, in molti casi, le stesse strutture decisionali. La visione cinese si è articolata in una serie di iniziative che vanno ben oltre il piano economico. La cosiddetta “comprehensive national security”, concetto ormai cardine del pensiero strategico cinese, abbraccia settori come l’alimentazione, la finanza, la tecnologia, il cyberspazio e persino l’opinione pubblica. In quest’ottica, le iniziative promosse a sud del confine non sono episodiche, ma parte di un progetto sistemico, quello di consolidare una cintura di influenza stabile, funzionale agli interessi di Pechino, e meno permeabile a presenze rivali.
Il sud-est asiatico è ideale per questo progetto. Le sue economie, dinamiche ma ancora vulnerabili, hanno bisogno di capitali, tecnologie e infrastrutture. La Cina è pronta a fornirli, ma a condizioni che non si limitano ai tassi di interesse. L’accesso preferenziale a porti, ferrovie e centri logistici, la promozione di accordi digitali bilaterali, la costruzione di laboratori condivisi e piattaforme industriali comuni sono solo alcuni degli strumenti adottati. A questo si somma un attento lavoro con le élite politiche e imprenditoriali, spesso svolto lontano dai riflettori. Non tutti i governi reagiscono allo stesso modo. Alcuni paesi si sono lasciati assorbire quasi del tutto, altri cercano di destreggiarsi mantenendo margini di manovra. Tutti, però, si muovono in un contesto dove la Cina ha saputo sfruttare le incertezze globali e la ritirata di altri attori per consolidare la propria posizione. Più che una conquista fulminea, si tratta di un lento assestamento, che cambia le abitudini logistiche, le dipendenze energetiche e i legami istituzionali.
Nel seguito dell’articolo verranno analizzati cinque casi emblematici, ciascuno a suo modo rappresentativo di una diversa forma di influenza: dalla dipendenza strutturale alla cooptazione selettiva, dal compromesso calcolato alla resistenza prudente. Quello che ne emergerà sarà un mosaico eterogeneo, ma teso verso una convergenza: l’adattamento, più o meno consapevole, a una presenza cinese che appare destinata a durare.
Laos: il prototipo della dipendenza strutturale
Il Laos è oggi l’esempio forse più netto di quanto l’influenza cinese possa rimodellare a fondo un paese, fino a comprometterne l’effettiva indipendenza. In pochi anni, il governo di Vientiane ha legato il proprio destino economico, logistico e tecnologico a quello della Cina, accettando un modello di sviluppo fortemente dipendente dal credito e dalla presenza diretta della Repubblica Popolare. La retorica ufficiale parla di partenariato strategico e modernizzazione accelerata, ma la realtà quotidiana mostra un’economia in affanno, una popolazione impoverita e un’amministrazione sempre più permeabile a interessi esterni.
La crisi è evidente. I salari pubblici sono stati ridotti, i trasferimenti ai pensionati subiscono ritardi, i generi alimentari sono oggetto di aumenti costanti e i nuclei familiari faticano a fare fronte alle spese di base. La svalutazione del kip, la moneta nazionale, ha eroso in pochi anni la capacità d’acquisto della popolazione urbana e rurale, mentre l’inflazione si è mantenuta su livelli alti e persistenti. Il paese, che non ha risorse per far fronte ai debiti contratti, ha evitato il default solo grazie a un sostegno cinese discreto ma sistematico. In cambio, ha ceduto controllo su infrastrutture essenziali, diritti di sfruttamento su risorse naturali e quote significative del proprio territorio economico.
L’espansione cinese non si è limitata a ferrovie e centrali elettriche. In molte aree urbane, attività commerciali e complessi residenziali sono oggi interamente gestiti da soggetti cinesi, spesso con regimi normativi separati da quelli nazionali. La rete elettrica è stata trasferita a una compagnia cinese a titolo di garanzia sui prestiti ricevuti. L’accesso preferenziale a zone economiche speciali, la costruzione di infrastrutture chiave e la diffusione del mandarino come lingua tecnica nelle amministrazioni pubbliche sono segnali di un processo che va ben oltre la cooperazione economica.
Nonostante questo quadro, il governo insiste su una narrazione improntata all’ottimismo. Ogni visita ufficiale cinese è accompagnata da nuovi protocolli d’intesa e progetti congiunti, spesso presentati come successi senza alternative. L’assenza di spazi critici nei media, il controllo sui flussi informativi e l’apparente consenso di superficie contribuiscono a mantenere questa rappresentazione immobile. Tuttavia, la tensione sociale cresce. In una scuola alla periferia della capitale, un insegnante ha commentato in tono rassegnato: “I cinesi sono ovunque, parlano tra loro, costruiscono, comprano, ma noi non contiamo quasi più niente”. La testimonianza, raccolta da Le Monde, riflette un sentimento che fatica a emergere ma che è sempre più diffuso.
Il caso laotiano mostra con chiarezza cosa può accadere quando un paese piccolo e vulnerabile adotta una strategia di sviluppo basata sulla dipendenza da un solo attore dominante. Non c’è stata occupazione, né imposizione formale, ma il risultato non è molto diverso da quello che avrebbe prodotto un controllo diretto, vale a dire una sovranità svuotata nei fatti, un’economia asservita e una società che si adatta in silenzio a un nuovo centro di comando.
Cambogia: un’alleanza personale e sistemica
In Cambogia, l’influenza cinese ha trovato terreno fertile grazie alla convergenza tra gli interessi strategici di Pechino e il progetto dinastico della famiglia Hun. La lunga permanenza al potere di Hun Sen, seguita dall’ascesa del figlio Hun Manet alla guida del governo, ha garantito continuità a un rapporto costruito nel tempo, consolidato da una fitta trama di accordi, investimenti e favori reciproci. Più che una semplice alleanza politica, si è instaurato un rapporto di simbiosi in cui la legittimità interna del regime poggia in gran parte sulla protezione e sul sostegno economico cinese.
A differenza del Laos, dove la dipendenza si presenta sotto forma di debito, in Cambogia quella che è in atto è piuttosto una convergenza strategica. La Cina ha investito massicciamente nel paese, con progetti che vanno dalle infrastrutture alla sicurezza. Il porto di Ream, oggetto di lavori di ampliamento, è stato al centro di preoccupazioni per la sua possibile funzione militare. Le esercitazioni militari congiunte, così come le forniture di attrezzature alla polizia e all’esercito cambogiano, confermano una collaborazione che va oltre il piano simbolico. Pechino ha trovato nel governo di Phnom Penh un alleato affidabile, disposto a difenderne le posizioni anche nei consessi multilaterali.
Gli effetti di questa presenza sono visibili soprattutto sulla costa. La città di Sihanoukville, un tempo frequentata da turisti locali e occidentali, è stata trasformata in pochi anni da un’ondata di capitali cinesi. Casinò, torri residenziali, centri commerciali e alberghi si sono moltiplicati, spesso senza un piano regolatore coerente. La popolazione locale è stata in parte espulsa dai quartieri centrali, i prezzi sono saliti, il paesaggio urbano è stato stravolto. La crescita, concentrata in pochi settori, ha beneficiato in prevalenza imprenditori cinesi e figure legate alla cerchia del potere.
Anche nel resto del paese la cooperazione si estende a settori chiave: strade, ponti, dighe, reti digitali. Le imprese cinesi partecipano a progetti di sviluppo agricolo, gestiscono zone industriali, propongono sistemi di sorveglianza urbana. Il governo cambogiano ha accolto questa penetrazione come un’opportunità, promuovendo l’insegnamento del mandarino nelle scuole pubbliche e rafforzando gli scambi accademici. La struttura statale si adatta progressivamente ai protocolli, ai modelli e alle priorità definite da Pechino.
Tuttavia, questa centralità cinese comporta anche vulnerabilità. L’economia cambogiana, pur crescendo, rimane fragile e dipendente da pochi settori. Il rischio che una crisi in Cina o un cambiamento di linea politica si ripercuota immediatamente sul paese è concreto. Ma per la leadership di Phnom Penh, il legame con Pechino è visto come una garanzia di stabilità e protezione. Il sistema che si è consolidato non ha solo accettato l’influenza cinese: l’ha resa parte integrante della propria sopravvivenza.
Thailandia: l’equilibrismo a rischio
La Thailandia si distingue dagli altri paesi analizzati per la sua tradizione di autonomia tattica, eredità di una lunga storia di equilibrio tra potenze rivali. Questo atteggiamento si riflette ancora oggi nella gestione delle relazioni con la Cina, percepita allo stesso tempo come partner irrinunciabile e fonte potenziale di ingerenze. Bangkok ha cercato di sfruttare la competizione tra Pechino e Washington per mantenere margini di manovra, ma le contraddizioni interne e le pressioni esterne rendono questa strategia sempre più difficile da sostenere.
L’economia thailandese è fortemente integrata con quella cinese. La Cina è il primo partner commerciale del paese e ha investito in numerosi progetti infrastrutturali, tra cui la ferrovia ad alta velocità che dovrebbe collegare il nord del paese con la rete cinese passando per il Laos. A questi si aggiungono accordi nel settore automobilistico, nel turismo e nella logistica. Tuttavia, l’adozione di tecnologie cinesi e la partecipazione a iniziative promosse da Pechino non sono mai state automatiche. Le autorità tailandesi hanno più volte rallentato o rinegoziato i termini di progetti considerati troppo sbilanciati, cercando al contempo di rafforzare la cooperazione con altri attori regionali e internazionali.
Sul piano politico, il rapporto con la Cina si intreccia con le dinamiche interne del potere. La monarchia, i vertici militari e le élite imprenditoriali condividono in parte la visione di una Thailandia neutrale, ma proiettata verso un ruolo centrale nella regione. Tuttavia, all’interno di queste stesse strutture si registrano differenze di orientamento. Alcuni settori promuovono un avvicinamento più netto a Pechino, altri temono che un’eccessiva dipendenza comprometta l’autonomia strategica del paese. La gestione dell’equilibrio, più che un’arte diplomatica, è diventata un esercizio quotidiano di compromessi e adattamenti.
Le tensioni della Thailandia con la Cambogia per il controllo delle acque circostanti l’isola di Ko Kut e le relative risorse di gas naturale offrono un esempio concreto di come la Cina possa influenzare dinamiche regionali in modo opaco. Pur non essendo direttamente coinvolta nella contesa, Pechino è legata a entrambi i paesi da interessi convergenti, e la sua posizione ambigua contribuisce a rendere più incerto il quadro negoziale. Questo genere di situazioni alimenta in Thailandia il timore che la Cina, più che un mediatore, agisca come un attore interessato a mantenere una tensione controllata che rafforzi la propria centralità.
La Thailandia non è un paese passivo e detiene risorse istituzionali, economiche e militari sufficienti per sostenere una politica estera autonoma. Ma la pressione crescente, unita all’erosione della fiducia in altri interlocutori internazionali come gli Usa, rende sempre più costoso mantenere una posizione bilanciata. Il rischio non è tanto quello di una subordinazione formale, quanto quello di una progressiva convergenza per inerzia, in cui la libertà di scelta si riduce senza che venga esplicitamente revocata.
Vietnam e Malaysia: la difficile arte del bilanciamento
Vietnam e Malaysia affrontano la presenza cinese da posizioni diverse, ma entrambi tentano, con esiti contrastati, di mantenere una posizione autonoma in una regione in cui le pressioni si moltiplicano. I due paesi non condividono la stessa storia né la stessa struttura economica, ma si trovano accomunati da un’esigenza strategica, quella di evitare che l’influenza di Pechino si trasformi in una subordinazione strutturale, senza rinunciare ai benefici economici che essa comporta.
Il Vietnam è forse il più cauto e diffidente tra i paesi dell’area nei confronti della Cina. La memoria della guerra del 1979 è ancora viva, così come lo sono le tensioni tra i due paesi nel Mar Cinese Meridionale, e nonostante la retorica della cooperazione, Hanoi guarda con sospetto alle intenzioni cinesi. Al tempo stesso, il paese è profondamente inserito nella catena di valore asiatica e intrattiene con la Cina uno dei suoi rapporti commerciali più intensi. Le esportazioni vietnamite dipendono in larga parte da materie prime e componenti cinesi, e ogni tentativo di diversificazione risulta lento e costoso. Il decoupling tecnologico tra Stati Uniti e Cina ha offerto al Vietnam un’occasione rara. Le aziende occidentali hanno trasferito parte della produzione nel paese, riducendo la dipendenza dalla manifattura cinese. Ma questo spostamento ha anche esposto Hanoi a nuove pressioni. Le autorità statunitensi hanno iniziato a monitorare il Vietnam per presunte pratiche di triangolazione commerciale, accusandolo di servire come ponte per merci cinesi dirette verso il mercato americano. Il paese si trova così tra due fuochi: sfruttare la rivalità sino-statunitense per rafforzare la propria economia, senza però diventare bersaglio o pedina.
Più ambivalente è la posizione della Malaysia, dove l’influenza cinese si manifesta in forme più sfumate ma altrettanto pervasive. Negli ultimi anni, Pechino ha rafforzato la cooperazione con Kuala Lumpur in settori sensibili come l’intelligenza artificiale, le tecnologie digitali e i trasporti. La visita del presidente cinese ha prodotto una serie di nuovi accordi, che rafforzano il ruolo della Cina come principale partner strategico. Allo stesso tempo, la Malaysia esporta in misura rilevante verso gli Stati Uniti e beneficia ancora di una certa apertura ai capitali occidentali. Il governo malese ha dichiarato più volte di non voler prendere parte a logiche di schieramento, ma questa posizione si fa sempre più difficile da sostenere. Le élite economiche e politiche sono divise: alcune spinte promuovono una convergenza più esplicita con la Cina, altre temono che ciò possa ridurre lo spazio per negoziare con altri attori internazionali. La diplomazia malese continua a invocare equilibrio e neutralità, ma la struttura economica del paese riflette una realtà più complessa, in cui le scelte formali non sempre coincidono con quelle effettive.
Entrambi i paesi mostrano, ciascuno a proprio modo, la difficoltà di una strategia intermedia. Il Vietnam resiste con cautela ma dipende da una rete produttiva che lo collega saldamente alla Cina. La Malaysia cerca di oscillare tra due poli, ma rischia di ritrovarsi in una posizione di subalternità mascherata da flessibilità. In entrambi i casi, la Cina non impone, ma dispone, proponendo accordi, tecnologie, capitali e alleanze che si inseriscono in spazi lasciati vuoti da altri. La scelta non è sempre forzata, ma le conseguenze sono reali.
Convergenze e divergenze nella dipendenza
La penetrazione cinese nel sud‑est asiatico non è omogenea, bensì composita. Si va da modelli di dipendenza strutturale, come quelli del Laos e della Cambogia, ad assetti più flessibili come quelli di Thailandia, Vietnam e Malaysia. In tutti i casi, sono i meccanismi (prestiti garantiti, investimenti diretti, concessioni strategiche, formazione di élite locali) a rendere funzionale l’influenza cinese, non solo le ideologie o la propaganda. Non si tratta di una dominazione esplicita o militare, ma di un’egemonia silenziosa che opera su più livelli: economico, tecnologico e istituzionale. In alcuni casi, i governi hanno usato l’asse con Pechino per compensare mancanze interne o per rafforzare i rispettivi regimi politici, quasi sempre a scapito della trasparenza, dell’imparzialità amministrativa e, non ultimo, della libertà delle rispettive popolazoni. Dove la Cina ha assunto un ruolo di interlocutore privilegiato, il margine di scelta si è ridotto.
L’influenza cinese si consolida nei contesti dove la leadership politica è disposta a cedere spazi decisionali in cambio di sostegno economico, infrastrutture pronte all’uso o legittimazione diplomatica. Questo vale tanto nei paesi con istituzioni fragili quanto in quelli che conservano margini di autonomia. Ciò che cambia è la velocità con cui le regole locali si piegano a logiche esterne.
*articolo apparso sul sito substack.com il 23 luglio 2025