Israele-Palestina. L’impasse geografica della soluzione dei due Stati

In seguito al riconoscimento della Palestina da parte di diversi governi occidentali, la soluzione dei due stati è tornata al centro dell’attenzione di molti analisti. Tuttavia, sul campo, questa soluzione è tutt’altro che semplice ed è contraddetta da una geografia complessa che rende di fatto impossibile la creazione di uno stato palestinese degno di questo nome.

Questa è una prospettiva difesa (nei discorsi) dalla maggioranza dei rappresentanti del mondo politico e mediatico per “risolvere” la questione israelo-palestinese: la soluzione dei due stati. Restiamo nel dibattito teorico e ignoriamo il voltafaccia di molti sostenitori di questa soluzione, sostenendo che i tempi sarebbero sbagliati (era davvero sbagliato ai loro occhi?): questa prospettiva è possibile sul campo?

Una logica coloniale

Se c’è una situazione di conflitto che può essere spiegata dalle mappe, è questa. E per una buona ragione, rientra principalmente nella logica territoriale, sebbene fattori religiosi e geopolitici vi siano stati innestati fin dall’inizio. Non si tratta di riscrivere una storia già raccontata molte volte, ma piuttosto di ricordare le origini coloniali del conflitto, ovvero la promessa fatta da una grande potenza (anch’essa coloniale) di concedere a un popolo la propria terra d’origine, anche se abitata da altre popolazioni. Come riassume il romanziere Arthur Koestler“in Palestina, una nazione promise solennemente a una seconda il territorio di una terza”.

Tutti gli eventi successivi al piano di spartizione del 1947 derivano da questa dinamica e si riproducono ciclicamente: la confisca delle terre palestinesi (prima organizzata dall’ONU e poi del tutto illegale secondo il diritto internazionale) e l’espulsione dei suoi abitanti (alcuni parlano di una logica di pulizia etnica), che genera una resistenza proteiforme e più o meno violenta (lotta armata, negoziati politici, manifestazioni pacifiche, disobbedienza civile, rivolte, attentati suicidi, attacchi con coltelli, massacri), che serve da pretesto per un rilancio della repressione e dell’occupazione delle terre.

Tuttavia, il peso della storia è pesante e costituisce di per sé un ostacolo importante alla creazione di uno stato palestinese degno di questo nome. Dal 1947, il piano di spartizione favorì Israele (il 55% del territorio andò al nuovo stato, oltre a un accesso privilegiato alle risorse idriche della regione). Ma i decenni successivi videro il territorio israeliano espandersi a scapito della Palestina e della sua continuità geografica poiché quest’ultima, alla fine della Guerra dei Sei Giorni nel 1967, fu ridotta alla Cisgiordania, a est di Gerusalemme e alla Striscia di Gaza.

Da allora, l’erosione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est è continuata, in particolare attraverso una politica di insediamenti illegali dal punto di vista del diritto internazionale e che attualmente riguarda più di 750.000 coloni.

Per quanto riguarda la Striscia di Gaza, se è vero che nessun israeliano risiede nell’enclave palestinese dal 2005, questo significa dimenticare che il territorio, tra i più densi al mondo, è sottoposto a un blocco dalle conseguenze terribili da quasi due decenni e vede la maggior parte della sua popolazione  di fatto  prigioniera in questo spazio chiuso e privo di tutto. Già nel 2010, il geografo Stephen Graham parlava del desiderio israeliano di “trasformare una sorta di gigantesca prigione a cielo aperto in un’enorme striscia urbana assediata senza apparenti prospettive di revocare l’assedio”. Secondo lui, Israele avrebbe condotto una “guerra diffusa che combina una chiusura fisica ermetica, la limitazione dei movimenti, una costante sorveglianza aerea, incessanti raid aerei, la distruzione delle infrastrutture moderne e incursioni di squadre di carri armati supportate dal fuoco dell’artiglieria”.

La geografia di questa zona rende inoltre inevitabilmente sproporzionata la risposta israeliana al massacro del 7 ottobre (più di due milioni di persone stipate in 310 chilometri quadrati).

Segregazione e frammentazione

Gli anni Novanta hanno visto il fallimento del riavvicinamento politico tra le autorità israeliane e palestinesi (principalmente in seguito all’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin da parte di un estremista ebreo) e una serie di attacchi suicidi da parte di giovani palestinesi nel cuore di Israele hanno fornito al governo il pretesto per costruire un muro lungo la Linea Verde, il confine tra la Cisgiordania e Israele.

Questa “barriera di sicurezza”, a volte fatta di blocchi di cemento, a volte di recinzioni ultra-sicure (pattuglie, rilevatori di ogni tipo, telecamere per la visione notturna, banchi di sabbia per rilevare eventuali impronte, ecc.) deborda in molti luoghi dei territori palestinesi. Non è solo un modo per congelare nello spazio e nel tempo la conquista di determinate aree. Ma anche un mezzo per controllare e rendere sempre più complicata la vita quotidiana dei palestinesi (in particolare per le migliaia di lavoratori impiegati in Israele e costretti a sopportare lunghe attese prima della giornata lavorativa). Sul campo, attraverso l’implementazione di questi dispositivi, osserviamo la volontà di rendere la vita impossibile agli abitanti e quindi di forzare il loro spostamento “volontario”. Il termine “trasferimento silenzioso” ricorre regolarmente.

Nella sua storia politica del filo spinato, il filosofo Olivier Razac parla di una “colonizzazione per spartizione dello spazio”“spartizione che diventa una frammentazione del territorio che si trasforma in coriandoli se si aggiunge la fortificazione delle molteplici colonie di tutte le dimensioni che stanno rosicchiando la Cisgiordania”. La regione di Qalqilya è emblematica di questa frammentazione territoriale poiché i suoi abitanti trovano quasi impossibile lasciare il loro territorio senza passare per Israele. Questa politica di frammentazione continuerà con grande clamore, come dimostra la recente approvazione da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu della colonizzazione di nuovi territori vicino a Gerusalemme Est, che  taglierebbe di fatto  in due la Cisgiordania.

Oltre il muro, l’occupazione e la colonizzazione della Cisgiordania si realizzano attraverso una pianificazione urbana tridimensionale, separando drasticamente la popolazione palestinese da quella israeliana attraverso posti di blocco, ostacoli di ogni genere o strade che si affacciano sulle aree palestinesi e sono sottoposte a stretto controllo da parte delle autorità israeliane. Ancora, più di un decennio fa, Stephen Graham parlava già della costruzione di un “mondo parallelo, di proporzioni generose, di colonie esclusivamente ebraiche, collegate tra loro da proprie reti di infrastrutture private e da ‘zone cuscinetto’ dove le persone indesiderate vengono fucilate a vista”.

Attraverso questa architettura segregazionista che giustappone realtà che non si intersecano mai, è possibile visitare la Cisgiordania (di cui oltre il 60% è  di fatto  sotto controllo israeliano) senza mai confrontarsi con l’esperienza delle popolazioni palestinesi, il che porta inevitabilmente a una mancanza di comprensione da parte della popolazione israeliana degli effetti causati dalle politiche del loro governo. È inoltre fortemente sconsigliato recarsi nei territori occupati, un avvertimento materializzato da enormi cartelli rossi che sottolineano il pericolo che costituirebbe l’attraversamento del confine.

Tel Aviv è emblematica di questa tendenza: la città costituisce una bolla occidentalizzata totalmente scollegata dall’ambiente circostante e popolata principalmente da una popolazione urbana che vuole dimenticare la realtà dell’occupazione.

L’organizzazione di un rave party a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza, dove più di due milioni di persone sono stipate, vivono in una precarietà indicibile e sono private del diritto fondamentale alla fuga, è emblematica della negligenza, persino della cecità, di una parte della popolazione israeliana.

Qui troviamo il principio delle gated community, quartieri privati ​​circondati da mura che costituiscono isole di sicurezza e prosperità, a volte in mezzo a un oceano di miseria (che costituiscono il modello di molti insediamenti ebraici in Cisgiordania). Purtroppo, rendendoli invisibili, questo tipo di pianificazione urbana rafforza le disuguaglianze e le ingiustizie tra le due parti del muro, terreno fertile per l’ascesa di ideologie estremiste da entrambe le parti, un’ascesa dalla quale nessun muro, per quanto alto, può proteggersi dagli effetti più drammatici.

Bisogna tracciare un parallelo con il progetto trumpista di Riviera per la Striscia di Gaza, una sorta di enclave ultraliberista che rivela quello che Quinn Slobodian chiama “capitalismo apocalittico”, ovvero una gestione territoriale organizzata secondo principi di mercato, modellata sull’imprenditorialità privata e non gravata da regole democratiche. Tuttavia, per far emergere tali “paradisi libertari”, Slobodian indica una tendenza ricorrente tra i sostenitori di tali spazi: “piuttosto che creare nuove nazioni, perché non tagliare quelle esistenti”“Riformare le leggi nazionali richiede troppo tempo. Meglio trovare un luogo dove si possa ripartire da zero e scrivere un nuovo codice” (citazioni da Quinn Slobodian, Le capitalisme de l’apocalypse. Ou le rêve d’un monde sans démocratie, Seuil, 2025). Gaza potrebbe quindi costituire un laboratorio per una “perforazione” degli stati-nazione, che vedrà l’emergere di bolle anarco-capitaliste all’interno delle quali il libero mercato avrebbe tutto il potere e lo stato sarebbe ridotto a un complesso di sicurezza “ad alta tecnologia”.  

Una geografia sotto tensione

Gli ostacoli alla soluzione dei due stati sono numerosi anche dal punto di vista della sostenibilità economica di un futuro stato palestinese, ancora in gran parte soffocato dal vicino israeliano. Controllo delle frontiere e quindi degli approvvigionamenti, blocchi, controlli incessanti che impediscono qualsiasi fluidità nella circolazione di merci e persone, monopolizzazione delle risorse idriche (non solo del Giordano ma anche della falda acquifera a cavallo tra i due stati ma la cui acqua è principalmente pompata da Israele), mancanza di accesso al mare, tutti elementi che impediscono qualsiasi autonomia per i territori palestinesi. Per non parlare della distruzione di quasi tutte le infrastrutture (vie di comunicazione, industrie, impianti di desalinizzazione, ospedali, scuole e università) e dei mezzi di sussistenza nella Striscia di Gaza.

Infine, dal punto di vista geopolitico, è lecito chiedersi quali sarebbero i confini di un futuro stato palestinese, dato che questi sono di fatto determinati da Israele (che, ricordiamolo, non ha ancora definito i propri confini nella sua Costituzione). Per non parlare delle questioni che circondano la sua futura capitale, con Gerusalemme Est sottoposta alla stessa politica di annessione territoriale del resto della Cisgiordania. Quanto a Ramallah, attuale sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, la proliferazione dei posti di blocco israeliani rende sempre più difficili i suoi collegamenti con il resto del paese. 

Quale stato per questi due popoli?

Questa situazione frammentata in Palestina rende quindi impossibile una soluzione a due stati, almeno se Israele si rifiuta di smantellare la maggior parte degli insediamenti in Cisgiordania e di garantire la libera circolazione agli abitanti di Gaza. Due elementi che difficilmente si verificheranno, data la svolta a destra della politica israeliana, a sua volta fortemente influenzata dai coloni più radicali.

Inoltre, considerare due stati fianco a fianco solleva la spinosa questione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi espulsi dalle loro terre fin dalla creazione di Israele (si dice che questa pulizia etnica abbia colpito quasi 700.000 persone: è la “Nakba”). Un diritto al ritorno è difficile da immaginare per una popolazione israeliana che oggi è alla quarta generazione a vivere su queste terre. Va notato che questo diritto al ritorno è stato, tuttavia, adottato dal parlamento israeliano nel 1950 per gli ebrei che desideravano immigrare in Israele.

Ciò lascia aperta la soluzione di uno stato binazionale, che metterebbe in discussione il carattere ebraico di Israele, qualcosa che la stessa destra e gli stessi radicali si rifiutano di immaginare. Eppure, la società israeliana è ben lungi dall’essere così omogenea come siamo portati a credere. Non solo una parte significativa della popolazione è di origine palestinese. Ma, anche all’interno della popolazione ebraica, esiste una grande eterogeneità, basata principalmente sulle origini della popolazione. Questa eterogeneità si mescola anche a considerazioni socio-economiche, con gli ebrei dell’Africa orientale che si collocano al fondo della scala sociale e si trovano in una situazione simile alle minoranze ex-coloniali nei paesi europei.

Infine, vi sono significative disparità sociali e spaziali, causate principalmente da politiche neoliberiste sempre più disinibite, che hanno dato vita a potenti movimenti sociali negli ultimi anni. In questo contesto, è chiaro che il ritorno in primo piano della questione palestinese è una manna dal cielo per un governo privo di legittimità (soprattutto a seguito di diversi scandali di corruzione) e accusato di autoritarismo. Per quest’ultimo, cosa potrebbe essere più facile che unire il popolo attorno a un nemico comune e a questioni di sicurezza?

*articolo apparso su Géographies en mouvement il 13 ottobre 2025