Italia. Proteste deboli in movimento. Per la storia dei movimenti sociali

Uno dei principali temi trattati nel libro di Alessandro Barile La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai no global 1990-2003 (Mimesis, 2024) riguarda la soggettività, la coscienza dei soggetti collettivi e le dinamiche costitutive. Il Novecento è stato fecondo di soggetti molteplici che si sono posti il tema della trasformazione con una carica e una speranza utopica elevata. Sconfitti, hanno lasciato un’eredità pesante di interrogativi e un bisogno impellente di trovare nuovi soggetti per soddisfare desideri politici e/o utopici, nel senso positivo del termine.

Persistenze

Nel ripercorrere la genesi e lo sviluppo dei movimenti sociali in Italia negli ultimi due decenni del secolo scorso, l’autore sottolinea la permanenza del “peso” della memoria degli anni Settanta. Di certo, afferma, la genealogia, individuabile nel rapporto con le sconfitte subite negli anni Settanta, ha lasciato traccia nei caratteri delle successive proteste. Una delle forme di organizzazione dei conflitti di quel tempo furono i movimenti sociali, strutture intermedie tra comportamenti collettivi e organizzazioni partitiche e sindacali, capaci di predisporre e organizzare la mobilitazione. Nuovi attori-protagonisti, giovani, donne, studenti, emersero accanto e oltre la classe operaia, componendo una pluralità di focolai di conflitti non riconducibili solo a quelli derivanti dai rapporti tra capitale e lavoro. Quando s’incrinò la militanza politica nelle formazioni della nuova sinistra, ciò non si tradusse nella dismissione dell’impegno, ma in una diversa declinazione di esso in associazioni di vario genere. La protesta di movimento non calò di frequenza, mutarono i repertori d’azione, i soggetti sociali coinvolti, il sistema di idee e le ragioni di essa. A partire dagli anni Ottanta queste forme di azione si protrassero fino al duemila. I movimenti si organizzarono in reti relazionali debolmente strutturate, privi di forti connotati ideologici. Sempre più la protesta – nota l’autore – sfumava i confini di classe, oltrepassava quelli delle tradizioni storiche della sinistra. Erano movimenti di sinistra non più riconducibili a una qualche tradizione, vecchia o nuova, ortodossa o eretica, del movimento operaio novecentesco.

Bivio Ottanta

Sotto l’incalzare dei processi di ristrutturazione, negli anni Ottanta i movimenti sociali tesero a marcare la separazione da quelli che avevano caratterizzato il decennio precedente. La protesta si fece ideologicamente debole, perse la sostanza della dimensione di classe a vantaggio della moltiplicazione delle identità sociali. Permaneva la questione giovanile, ma si esprimeva con modalità incerte, senza riferimenti ideologici e culturali. Erano giovani che provavano a uscire dalla cappa degli “anni di piombo”, dizione negativa degli anni Settanta, senza rimanere intrappolati nella desolazione, nella solitudine individualistica. S’attenuava la contrapposizione generazionale, rimaneva la consapevolezza che la giovinezza era un bene da preservare dal mondo degli adulti. Calata la tensione per la partecipazione politica nei partiti, l’impegno si indirizzava versi i movimenti referendari, ambientalisti, studenteschi, per la pace, femministi. Tipica, esemplare e rappresentativa del contesto fu il movimento studentesco del 1985. Gli studenti in lotta non si riconoscevano nelle logiche della militanza politica, rivendicavano il carattere apartitico della protesta, chiedevano di migliorare il funzionamento del sistema scolastico, senza pretese rivoluzionarie. Usarono l’arma dell’occupazione, luogo di confronto collettivo, e difesero la propria autonomia dalle ingerenze della politica con l’autogestione, similmente a quanto andavano facendo i centri sociali in via di costituzione.

Pantera e centri sociali

La mobilitazione universitaria che prese il nome di Pantera ebbe uno sviluppo rapido, ma rimase delimitata nella sola dimensione studentesca. Si caratterizzò per la volontà di chiudere con gli anni Ottanta, letti come anni di desolazione, di individualismo, frammentazione, colpevoli della rimozione della memoria, dei valori e delle lotte degli anni Sessanta-Settanta. Il confronto con quel passato (non ancora passato) rappresentò un tentativo difficile e scivoloso. Da un lato c’era il bisogno di liberarsi dal controllo e dal giudizio della vecchia generazione di militanti, dall’altro c’era il rispetto e non il rifiuto dei Settanta, andando oltre i vincoli della militanza politica e delle polemiche sulla lotta armata. Dagli anni Ottanta ripresero le nuove modalità di fare politica a partire dal collettivo universitario, momento partecipativo aperto a studenti di varie aree, contenitore di più istanze, in un rapporto diffidente con la politica istituzionale e le ideologie. L’occupazione diventò modello di prassi, quasi fosse il fine della protesta. Le facoltà occupate diventarono un contenitore di linguaggi e prassi studentesche, sedi di un movimento che stentava (o non voleva) farsi politico. Luoghi di lunghe discussioni, basate sul rifiuto della delega, con scarsa operatività decisionale, incapaci di darsi degli organi dirigenti, un coordinamento nazionale. Nessuno voleva rappresentare qualcuno o qualcosa, le decisioni, prese in maniera informale, favorivano forme mascherate di leaderismo. Le assemblee, caratterizzate da lunghi dibattiti procedurali, relegarono sullo sfondo la discussione politica. L’esperienza dell’occupazione e dell’autogestione, promossa dalla Pantera, si riversò nei centri sociali favorendone la diffusione con modalità di sindacalismo territoriale e una prassi conflittuale che ricollegava l’immaginario degli anni Novanta a quello dei Settanta, con una vocazione anticapitalistica riformulata nel nuovo contesto della globalizzazione. I centri sociali nel decennio Ottanta erano diventati luoghi di espressione di controcultura politica, artistica, musicale, sorretti da istanze di resistenza o sopravvivenza all’omologazioneNegli anni Novanta diventarono protagonisti rilevanti in forme e modalità non più riferibili alle tradizionali organizzazioni partitiche e sindacali. L’occupazione illegale come strumento di lotta e l’autogestione come metodo di confronto, li contraddistinsero, tenuti assieme da una prassi, più che da un’ideologia o da obiettivi politici di ordine generale. I centri sociali coniugarono radicamento territoriale e lotta politica in forme nuove e originali, costituirono, nel culmine delle proteste di Genova contro il G8 del 2001, il collante di una mobilitazione cresciuta nel corso degli anni Novanta.

Un movimento a più marce

Il movimento no global (1999-2003), divenuto movimento no war (2003-2005) è stato il più vasto, diffuso e radicale movimento di contestazione dell’ordine neoliberista dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo storico novecentesco. Raccolse la protesta mondiale contro neoliberismo e la globalizzazione capitalistica, ridefinì alcuni dei caratteri della sinistra storica, allontanandosi dalla tradizione dei partiti socialdemocratici e della nuova sinistra. Per la prima volta un vasto movimento di sinistra non si muoveva attorno alla logica della radicalizzazione delle istanze politiche, ma a quella della dislocazione di queste, contribuendo alla scomposizione dell’offerta politico-ideologica, mettendo in rete più movimenti coordinati fra loro. Il legame che univa i vari movimenti era insieme debole e forte. Debole perché poco strutturato e volutamente anti ideologico. Forte perché proprio quei caratteri consentirono una partecipazione ampia, plurale che si identificava in un processo collettivo piuttosto che in un soggetto organizzato. Si caratterizzò per la sua democrazia partecipativa, che abbandonava il modello partitico organizzato gerarchicamente, distaccandosi dalle esperienze storiche novecentesche. Composto da soggetti sociali plurimi, intergenerazionale, interclassista, non aveva più al centro la sola classe operaia, né il più generale concetto di proletariato. Vi parteciparono nuove figure di lavoratori precari, subordinati piccoli imprenditori, disoccupati, studenti, donne, varie stratificazioni di certi medi. Negli anni Settanta la protesta tendeva a collegare i ceti medi alla classe operaia. Nel movimento no global perdeva di sostanza la proiezione unificante della classe operaia a favore di un pluralismo senza classe egemonica, una sorta di assemblaggio di più derivazioni. Mutava il modo di concepire l’impegno politico col rifiuto dell’etica del sacrificio, della militanza come rinuncia a parte della vita. L’impegno diventava parte della ricerca di soddisfazione personale, di auto-realizzazione. Nel movimento le visioni critiche abbondavano, ma avevano difficoltà a costruire una vera e propria alternativa politica e discorsiva. Erano contro la globalizzazione, ma non volevano ritornare alle istanze statalistiche nazionali. Stavano in antitesi tanto al libero mercato quanto allo Stato: cooperazione sociale, né pubblico né privato, municipalismo, mutualismo. Chiedevano la cittadinanza universale, un reddito di base per tutti, promuovevano la democratizzazione attraverso pratiche autogestionarie di partecipazione diretta. Propugnarono una sorta di riformismo radicale: tobin tax, cancellazione del debito, reddito di cittadinanza, tribunali internazionali per i diritti umani. Pensavano a un nuovo sistema di governo mondiale fondato sulla carta universale dei diritti dell’uomo dell’ONU. Il venir meno del ruolo dello Stato-nazione poteva anche essere una conseguenza positiva della globalizzazione, purché fosse accompagnata e guidata da forme di autogoverno locale sul modello municipalista. La sua parabola discendente non ha lasciato eredità diretta, conclude l’autore. Il populismo, articolatosi in seguito in movimenti di destra e di sinistra, non è attribuibile ai no global, è invece il risultato della crisi del movimento dei movimenti.

*Diego Giachetti vive e lavora a Torino. Si è occupato di movimenti giovanili e di protesta negli anni Sessanta e Settanta. Collabora con varie riviste e con la Biblioteca Franco Serantini di Pisa. Fa parte dell’associazione Storie in movimento. Tra le sue pubblicazioni “Anni sessanta comincia la danza. Giovani, capelloni, studenti ed estremisti negli anni della contestazione” (2002), “Vasco Rossi. Un mito per le generazioni di sconvolti” (1999) e, con Marco Peroni, “Ognuno col suo viaggio” (2005). Questo articolo è apparso sul sito volere la luna l’8 luglio 2025.