Sfruttati ovunque: i lavoratori nordcoreani in Russia e Cina

Centinaia di migliaia di nordcoreani lavorano in Russia e Cina in condizioni di sfruttamento estremo, controllati da un sistema di sorveglianza che supera i confini

NOTA INTRODUTTIVA: Con questo articolo proseguo il percorso iniziato un mese fa con un articolo per AsiaNews (“Quando i lavoratori di Pyongyang alzano la testa”), nel quale avevo posto l’accento sulle condizioni estreme in cui vive la classe operaia nordcoreana. Questo articolo approfondisce quel primo intervento, perché, nonostante la portata e la gravità del fenomeno, il tema è quasi del tutto trascurato dai media. Quando si parla di Corea del Nord, anche da parte di soggetti che dovrebbero essere dalla parte dei lavoratori, prevalgono quasi sempre gli aspetti più grotteschi del regime, trasformati in curiosità da osservare a distanza. È un modo di raccontare che riduce un’intera collettività a sfondo folkloristico e che finisce per cancellare ciò che davvero definisce la vita della maggioranza assoluta della popolazione. È importante ricordare che i lavoratori nordcoreani non sono certo un gruppo marginale, ma la quasi totalità della società, esclusi soltanto i pochi burocrati, gli apparati di sicurezza e una ristrettissima cerchia di imprenditori. Parliamo di quasi 25 milioni di donne e uomini la cui esistenza quotidiana è segnata da uno sfruttamento sistematico. Ignorare questa realtà significa accettare una rappresentazione falsata dell’intero paese.
In questo nuovo contributo cerco di mostrare come le dinamiche di sfruttamento non si esauriscano sul territorio nazionale, ma assumano una forma transnazionale che coinvolge un sistema imperniato su governi, capitalisti e apparati di sicurezza, estendendo il controllo ben oltre i confini della Corea del Nord.

L’architettura del controllo transnazionale

Ogni giorno, decine di migliaia di cittadini nordcoreani si svegliano in dormitori sovraffollati disseminati tra la Siberia orientale e le province cinesi di confine, pronti a turni di dodici, quattordici o persino sedici ore consecutive. Operano nei cantieri e nell’edilizia, lavorano nelle foreste, negli impianti navali e nelle fabbriche tessili, spostati da un settore all’altro secondo le esigenze del momento e senza alcun margine di scelta. I salari, quando vengono effettivamente corrisposti, finiscono quasi interamente nelle mani degli intermediari che agiscono per conto del regime di Pyongyang, lasciando ai lavoratori somme simboliche e spesso insufficienti persino per l’essenziale. Privati dei passaporti, vivono in una condizione di dipendenza assoluta, incapaci di decidere dove abitare, con chi parlare o cosa leggere, mentre la loro quotidianità è segnata da riunioni di autocritica e ispezioni improvvise. Questo sistema, che genera per la Corea del Nord centinaia di milioni di dollari all’anno in valuta forte, rappresenta una delle forme più sofisticate e invisibili di sfruttamento lavorativo del ventunesimo secolo. Ma ridurlo a una mera questione economica significherebbe fraintenderne radicalmente la natura.

Ciò che distingue il lavoro nordcoreano all’estero da altre forme di sfruttamento migrante è la sua architettura di controllo. Il regime di Kim Jong Un non si limita a esportare manodopera a basso costo, ma proietta oltre i propri confini l’intero apparato di sorveglianza e repressione che caratterizza la società nordcoreana. I lavoratori rimangono soggetti al controllo del Bowibu, il Ministero della Sicurezza di Stato, attraverso una rete di supervisori politici che replicano all’estero le strutture del sistema inminban, le unità di controllo di vicinato che in Corea del Nord sorvegliano ogni aspetto della vita quotidiana. I supervisori svolgono funzioni essenzialmente politiche, senza alcun ruolo produttivo. Si occupano di monitorare le comunicazioni con le famiglie rimaste in patria e di riferire ogni comportamento ritenuto deviante, mantenendo così un controllo costante sulla vita dei lavoratori. La loro presenza trasforma i cantieri russi e le fabbriche cinesi in avamposti extraterritoriali del controllo totalitario nordcoreano.

La dimensione transnazionale di questo sistema poggia su una complicità strutturale con i paesi ospitanti. Russia e Cina tollerano e in alcuni casi facilitano attivamente queste pratiche, che consentono loro di beneficiare di una manodopera disciplinata e a costo estremamente contenuto. In Russia, le autorità ispettive del lavoro nella maggiore parte dei casi si astengono dall’intervenire nei cantieri dove operano nordcoreani, e quando lo fanno le violazioni documentate raramente portano a conseguenze concrete. La corruzione locale e la volontà politica di mantenere buoni rapporti con Pyongyang creano un ambiente di impunità. In Cina il quadro è diverso. Le autorità cinesi hanno sviluppato sofisticate infrastrutture di sorveglianza digitale che applicano sia ai nordcoreani emigrati illegalmente che ai lavoratori inviati da Pyongyang a lavorare sul loro territorio, creando una rete di controllo che serve contemporaneamente gli interessi di Pechino e quelli del regime nordcoreano.

Questa convergenza tra autoritarismo nordcoreano e tecnologie di sorveglianza cinesi rappresenta forse l’aspetto più insidioso del sistema. Il governo cinese ha costruito negli ultimi quindici anni un apparato di identificazione e tracciamento della popolazione tra i più avanzati al mondo, basato su carte d’identità elettroniche, database biometrici nazionali, riconoscimento facciale diffuso e app di tracciamento GPS. Quando questo sistema viene applicato ai nordcoreani presenti in Cina, sia rifugiati che lavoratori regolari, genera forme ibride di controllo. Gli agenti del Bowibu operano in territorio cinese sfruttando le infrastrutture di sorveglianza locali per identificare potenziali fuggitivi, mentre le autorità cinesi condividono informazioni biometriche che rendono praticamente impossibile per un nordcoreano muoversi liberamente o cambiare identità. Il risultato è un panopticon transnazionale in cui il controllo supera i confini nazionali e accompagna i lavoratori ovunque si trovino, trasformando la loro condizione in una forma di detenzione aperta che continua anche dopo il rimpatrio o persino dopo una fuga verso paesi terzi.

I meccanismi dello sfruttamento economico

Il funzionamento economico del sistema di lavoro nordcoreano all’estero si basa su una catena di intermediazione che attraversa confini e giurisdizioni, rendendo difficile identificare responsabilità precise. Al vertice si collocano le aziende statali nordcoreane, spesso collegate direttamente a organi del Partito dei Lavoratori o a strutture militari, che detengono il monopolio legale sull’esportazione di manodopera. Queste entità stipulano contratti con aziende russe o cinesi che operano come contractor, assumendo formalmente i lavoratori ma trasferendo gran parte dei pagamenti direttamente alle controparti nordcoreane. I lavoratori firmano contratti che prevedono salari apparentemente in linea con gli standard locali, ma nella realtà ricevono solo una frazione minima di quanto pattuito. La trattenuta oscilla tra il settanta e il novanta percento dello stipendio nominale e viene giustificata ufficialmente in parte come contributo volontario e in parte come copertura dei costi di trasporto e alloggio. Quello che rimane ai lavoratori è spesso appena sufficiente per acquistare cibo e beni di prima necessità.

Questa estrazione sistematica di valore si accompagna a condizioni lavorative che violano ogni standard internazionale. Gli orari di lavoro superano regolarmente le dodici ore giornaliere, raggiungendo spesso le sedici durante i periodi di maggiore attività. Nel settore edilizio russo, dove si concentra la quota più consistente di lavoratori nordcoreani, i turni si estendono senza interruzioni per settimane o mesi, scanditi solo dalle pause per dormire e consumare pasti frugali. L’assenza di giorni di riposo è la norma, con rare eccezioni legate a festività nordcoreane durante le quali i lavoratori sono comunque tenuti a partecipare a cerimonie di studio ideologico. Gli ambienti di lavoro presentano rischi elevati per la sicurezza, con attrezzature obsolete, scarsa formazione sulla prevenzione degli infortuni e protezioni individuali inadeguate. Gli incidenti sono frequenti ma raramente documentati, e quando un lavoratore subisce un infortunio grave viene semplicemente rimpatriato senza che l’episodio lasci tracce ufficiali.

La struttura contrattuale è studiata per massimizzare il controllo del regime nordcoreano sui flussi finanziari. I pagamenti non passano mai direttamente nelle mani dei lavoratori, ma vengono canalizzati attraverso i supervisori politici o versati su conti bancari controllati dalle aziende statali nordcoreane. Quando ai lavoratori viene corrisposta la loro quota, spesso ciò avviene in contanti durante distribuzioni collettive che si svolgono alla presenza dei supervisori, trasformando il momento del pagamento in un atto pubblico sottoposto a controllo sociale. Alcuni lavoratori riescono ad accumulare piccole somme attraverso lavori extra nei fine settimana o vendendo oggetti, ma anche questi risparmi rimangono vulnerabili a confische arbitrarie. Il sistema è progettato per impedire qualsiasi accumulo di denaro personale che potrebbe finanziare tentativi di fuga o creare margini di autonomia rispetto alle strutture di controllo.

Le sanzioni internazionali imposte dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in particolare la risoluzione 2397 del 2017 che richiedeva il rimpatrio di tutti i lavoratori nordcoreani entro ventiquattro mesi, hanno modificato ma non eliminato questo sistema. In Russia, dove prima delle sanzioni si stimava la presenza di circa cinquantamila lavoratori nordcoreani che generavano introiti annuali tra i centoventi e i duecento milioni di dollari, il numero ufficiale di permessi di lavoro è drasticamente calato. Tuttavia l’applicazione della risoluzione è stata irregolare e accompagnata da meccanismi di elusione. Alcuni lavoratori sono stati formalmente rimpatriati, per essere poi reintrodotti con visti turistici o documenti falsificati. Altri sono stati trasferiti sotto contratti triangolari che coinvolgono aziende di paesi terzi, rendendo opaca la loro effettiva nazionalità. In Cina la situazione è ancora più complessa, perché molti nordcoreani lavorano in zone di confine dove i controlli sono deboli e la distinzione tra lavoratori regolari, lavoratori illegali e rifugiati diventa estremamente fluida.

La differenza principale tra i due contesti riguarda la visibilità del fenomeno. In Russia i lavoratori nordcoreani operano spesso in cantieri urbani o periurbani, potenzialmente esposti a interazioni con la popolazione locale o i sindacati. Questa visibilità teorica, però, si scontra con barriere linguistiche e un’intimidazione sistematica che impediscono qualsiasi forma di denuncia o richiesta di aiuto. In Cina i lavoratori sono più spesso confinati in zone rurali o industriali controllate, dove la sorveglianza è meno visibile ma più capillare. L’integrazione tra sistema di controllo cinese e apparato repressivo nordcoreano crea in Cina condizioni di controllo totale che in Russia, nonostante l’autoritarismo del regime di Putin, non sono ancora pienamente replicate. Il risultato è una situazione in cui l’apparente maggiore apertura non si traduce in maggiori possibilità di sottrarsi allo sfruttamento.

L’apparato di sorveglianza e il controllo sociale

La confisca dei documenti di identità rappresenta il dispositivo più elementare ma efficace di limitazione della libertà. Al momento dell’arrivo nel paese ospitante, i lavoratori consegnano i propri passaporti ai supervisori o ai rappresentanti delle aziende statali nordcoreane, e non li rivedono più fino al momento del rimpatrio. Questa pratica, formalmente giustificata come misura di sicurezza per evitare smarrimenti, rende impossibile qualsiasi movimento autonomo. Senza passaporto un nordcoreano non può soggiornare in hotel né acquistare biglietti ferroviari o aerei. La limitazione fisica degli spostamenti si accompagna a regole esplicite sul confinamento nei luoghi di lavoro e di residenza. I lavoratori sono spesso alloggiati in dormitori costruiti all’interno dei cantieri stessi o in strutture isolate raggiungibili solo con mezzi di trasporto controllati dai datori di lavoro. Le uscite sono severamente regolamentate, concesse solo in gruppi accompagnati da supervisori e limitate a tempi e luoghi prestabiliti. Anche quando formalmente autorizzati a muoversi, i lavoratori sanno che qualsiasi deviazione dal percorso stabilito o ritardo nel rientro comporterà interrogatori e punizioni.

Il sistema punitivo si fonda soprattutto su un repertorio di sanzioni economiche e di minacce che colpiscono sia il lavoratore sia la sua famiglia in Corea del Nord, mentre la violenza fisica diretta, pur presente in alcune circostanze, svolge un ruolo più marginale. Le multe per violazioni disciplinari vengono decurtate dalla già esigua quota di salario che spetta ai lavoratori, riducendola ulteriormente o azzerandola completamente per periodi prolungati. Infrazioni considerate gravi, come il possesso di materiale proibito o contatti non autorizzati con stranieri, possono portare al rimpatrio anticipato. Questa misura, che potrebbe sembrare una liberazione, è in realtà temuta perché il ritorno prematuro viene interpretato dal regime come fallimento o insubordinazione, con conseguenze che ricadono sull’intera famiglia del lavoratore, che rischia di essere retrocessa nel sistema di classificazione sociale songbun o di subire nel suo complesso discriminazioni nell’accesso all’istruzione e al lavoro. La minaccia non necessita di essere esplicitata continuamente, perché ogni lavoratore conosce perfettamente questi meccanismi e li ha interiorizzati prima ancora di lasciare la Corea del Nord.

In Cina questo apparato di controllo tradizionale si fonde con le infrastrutture di sorveglianza digitale che il governo di Pechino ha sviluppato nell’ultima quindicina di anni. Quando i nordcoreani, siano essi rifugiati o lavoratori regolari, entrano in contatto con le autorità cinesi, vengono sottoposti a procedure di registrazione che includono la raccolta di impronte digitali, fotografie facciali, campioni di DNA e scansioni dell’iride. Queste informazioni confluiscono negli archivi digitali del sistema Yi Biao San Shi, che traccia l’identità, il luogo di residenza e l’unità lavorativa di ciascun individuo con dati verificati. Per i lavoratori nordcoreani regolarmente impiegati in Cina, questa registrazione avviene formalmente attraverso le procedure di rilascio dei visti lavorativi, ma le informazioni raccolte vanno ben oltre quanto necessario per scopi amministrativi ordinari.

La sorveglianza digitale quotidiana si manifesta attraverso tecnologie specifiche che trasformano gli smartphone in dispositivi di tracciamento permanente. Le autorità cinesi impongono l’installazione di applicazioni come Yuandao Jingwei Xiangji, una fotocamera che inserisce automaticamente su ogni immagine scattata una filigrana contenente data, ora, coordinate GPS, altitudine e numero IMEI del dispositivo. I lavoratori nordcoreani sottoposti a questo regime di controllo devono inviare quotidianamente selfie geolocalizzati attraverso WeChat, dimostrando di trovarsi nel luogo autorizzato. L’applicazione installa inoltre degli spyware che continuano a trasmettere la posizione del dispositivo anche dopo la sua disinstallazione apparente. Nei dormitori vengono installate telecamere a circuito chiuso per monitorare cortili e ingressi, mentre le comunicazioni attraverso l’app WeChat, indispensabile per chi vive in Cina, sono soggette a controllo sistematico. Questo sistema genera quella che gli studiosi della sorveglianza definiscono autosorveglianza interiorizzata. I lavoratori sanno di essere costantemente osservabili, anche quando non possono vedere chi li osserva o quando l’osservazione effettiva non è in corso. Questa consapevolezza modifica i comportamenti in modo profondo, inducendo limitazioni volontarie dei movimenti e l’autocensura nelle conversazioni. Il risultato è una forma di controllo che non necessita di supervisione fisica continua perché opera direttamente sulla psiche dei soggetti controllati, trasformandoli in complici involontari della propria oppressione.

Complicità internazionale e convergenze autoritarie

La persistenza del sistema di lavoro forzato nordcoreano all’estero non sarebbe possibile senza la cooperazione attiva o l’acquiescenza deliberata dei governi ospitanti. In Russia questa complicità assume forme variegate che vanno dalla corruzione locale all’indifferenza istituzionale. Le autorità regionali dell’Estremo Oriente russo, dove si concentra la maggior parte dei lavoratori nordcoreani, dipendono economicamente da questa manodopera per completare progetti infrastrutturali che altrimenti risulterebbero troppo costosi o impossibili da realizzare nei tempi previsti.

In Cina la dinamica è diversa perché il controllo non è occasionale bensì estremamente strutturato. La politica cinese verso i nordcoreani presenti sul suo territorio si inserisce in un quadro più ampio di gestione delle popolazioni straniere vulnerabili. Il governo cinese ha sviluppato sofisticate politiche di gestione dinamica delle cosiddette spose straniere illegali, donne trafficate da Vietnam, Myanmar o Laos che hanno formato unioni di fatto con uomini cinesi nelle aree rurali. Queste donne vengono registrate, sottoposte a raccolta biometrica e monitorate attraverso visite domiciliari periodiche e obblighi di reportistica, in un sistema che bilancia tolleranza selettiva del loro status irregolare con controllo capillare dei loro movimenti. Lo stesso modello viene applicato alle nordcoreane e ai nordcoreani, creando una forma di gestione che il regime cinese non cataloga come repressiva bensì come amministrativa. Per Pechino si tratta di mantenere la stabilità sociale nelle regioni di confine e preservare le buone relazioni con un alleato strategico. Per Pyongyang questa infrastruttura di controllo cinese diventa uno strumento che il Bowibu può sfruttare per estendere la propria portata repressiva oltre i confini nazionali.

La collaborazione tra apparati di sicurezza nordcoreani e cinesi raggiunge livelli di integrazione particolarmente profondi. Gli agenti del Bowibu operano apertamente in territorio cinese, spesso con coperture come autisti di taxi nelle città di confine o intermediari commerciali, utilizzando la loro posizione per identificare potenziali fuggitivi o reclutare informatori tra i nordcoreani presenti in Cina. Le autorità cinesi condividono informazioni biometriche contenute nei propri database, permettendo l’identificazione rapida di nordcoreani anche quando utilizzano documenti falsificati. Questa condivisione crea situazioni paradossali dove le stesse registrazioni che alcuni rifugiati avevano effettuato sperando di ottenere protezione o status legale si trasformano in strumenti che rendono impossibile sottrarsi alla sorveglianza. Quello che emerge alla fine è un sistema trilaterale dove ciascun regime estrae vantaggi specifici dalla medesima popolazione vulnerabile: il regime nordcoreano ottiene valuta forte e proiezione extraterritoriale del proprio controllo, Russia e Cina acquisiscono manodopera disciplinata a costi minimi mentre rafforzano i legami con Pyongyang. I lavoratori esistono simultaneamente come risorsa economica, soggetti di sorveglianza e strumenti di relazioni diplomatiche, ridotti a merce fungibile in un sistema che li tratta come oggetti di sfruttamento ovunque si trovino.

(fonti: due rapporti pubblicati quest’anno dal Database Center for North Korean Human Rights (NKDB), rispettivamente “Transnational Repression and Exploitation of North Korean Workers in Russia” e “Caught in the Net: China’s Digital Surveillance of North Korean Refugees”; articoli pubblicati da Daily NK, Radio Free Asia, Diplomat)

*articolo apparso su andreaferrario1.substack.com il 28 novembre 2025