Sinistra. Cosa c’è da discutere

Con il documento intitolato “Per la costruzione di un fronte di opposizione sociale e politica” l’MPS ha voluto lanciare un dibattito strategico sulle prospettive della sinistra.
Dopo una difficile fase preparatoria, lo scorso 28 ottobre si è tenuto finalmente un primo dibattito tra  rappresentanti di MPS, PS e Verdi. Un dibattito che ha avuto un buon seguito (tra coloro che sono intervenuti direttamente e coloro che lo hanno seguito in streaming, oltre 200 persone) e che ha poi suscitato alcune reazioni, ospitate da questo sito.
Il documento ruota – come indica il suo stesso titolo – attorno a due aspetti centrali, riassumibili nei termini “fronte” e “opposizione”.
Se il termine “fronte” richiama sicuramente l’unità di più soggetti (politici e sociali), il termine “opposizione” rimanda alla necessità di un orientamento politico preciso che investe certo la presenza istituzionale delle sinistre (a tutti i livelli), ma, soprattutto, la necessità di una politica di opposizione sul terreno sociale.
Il dibattito stesso e i contributi si sono in parte concentrati più sull’aspetto unitario, “il fronte”, che non su quello dell’“opposizione”, cioè di una politica di rottura con il quadro politico, economico e sociale oggi dominante.
Da questo punto di vista possiamo dire che siamo ancora abbastanza lontani dall’essere riusciti a mettere a fuoco quelle che a noi paiono essere le questioni sulle quali avviare una riflessione strategica.
Vogliamo sottolineare quest’ultimo aspetto poiché ci pare evidente che il dibattito che abbiamo lanciato non voleva e non vuole essere una discussione sulla necessità e l’importanza e alla necessità di una forte unità d’azione su temi sui quali vi è convergenza, da quelli di carattere politico-sociale a quelli ambientali, da quelli della solidarietà internazionale a quelli contro la politica di riarmo. Su questo ci pare non vi sia necessità di grande discussione: laddove una unità di azione è possibile, noi – come tutti gli altri – non si tirano certo indietro.
Ricordiamo, a sostegno di questo nostro atteggiamento, i recenti sforzi per la intensa campagna che l’MPS ha svolto a sostegno dell’iniziativa popolare per la limitazione dei premi di cassa malati al 10%, o quella che stiamo conducendo a sostegno dell’iniziativa della GISO (iniziativa per il futuro).
In questo contributo vorremmo invece rilanciare quelli che a noi sembrano i temi di fondo che dovrebbero occuparci per una discussione strategica, che è altra cosa da una più o meno organica unità d’azione. In altre parole ci pare che non ci si possa limitare a prendere atto dell’esistente e riproporre di andare avanti, coordinandosi un po’ di più e comunicando meglio.

Una nuova fase politica

Negli ultimi anni si è aperta una nuova fase politica caratterizzata dal rafforzamento della destra e dalla sua offensiva sul terreno politico, economico, sociale e ideologico.
Questa nuova fase tende a costruire un modello di accumulazione capitalista fondato sulla separazione sempre più netta tra i principi della democrazia liberale e i meccanismi di mercato del capitalismo neoliberale.
In altri termini, l’autoritarismo politico e il liberismo economico si ricompongono in un equilibrio che mira a garantire la piena libertà d’azione del capitale, svuotando progressivamente qualsiasi forma democratica di partecipazione e di controllo.
In questo contesto, anche il ruolo dello Stato sta subendo una trasformazione profonda. L’interventismo pubblico non assume più – come accadeva in altri periodi storici – una funzione redistributiva o di riequilibrio sociale, ormai abbandonata da almeno trent’anni. Al contrario, esso si configura come un dispositivo volto a sostenere e garantire la crescita di nuovi settori strategici del capitale.
Un esempio emblematico è l’acquisizione, da parte dello Stato statunitense, del 10% del capitale del colosso Intel: un’operazione che, come ha notato Il Sole 24 Ore, “ha un evidente significato politico. E la Casa Bianca non intende fermarsi qui.”
Questo tipo di intervento pubblico segna una nuova fase del capitalismo predatorio: lo Stato diventa promotore attivo della concentrazione del capitale, sostenendo allo stesso tempo lo smantellamento di ogni forma di regolamentazione. Si pensi, a questo proposito, all’offensiva di UBS contro le norme sul capitale proprio avanzate dal Consiglio federale, o alla convergenza tra politiche di riarmo e sviluppo di nuove tecnologie di controllo.
Per quanto riguarda il nostro Cantone, la votazione sulla questione del limite del 10% dei premi di cassa malati e l’attuale dibattito su come attuarla illustrano in modo drammatico la crisi del modello di sviluppo economico e sociale difeso negli ultimi trent’anni, al quale ha partecipato – in misura più o meno convinta – l’intera classe politica insieme ai ceti imprenditoriali.
Si tratta di un modello fondato, da un lato, su sussidi, deduzioni fiscali, sostegno pubblico a vari settori, bassi salari e sviluppo del settore privato (basti pensare a quello sanitario e delle cure), tutto nella prospettiva di sostenere la domanda interna; e, dall’altro, su una politica sistematica di sgravi fiscali, in particolare a favore dei redditi e dei patrimoni più elevati.
Un modello ormai insostenibile, la cui crisi non potrà essere risolta se non attraverso una scelta netta: o con l’affermarsi di soluzioni che tenderanno a penalizzare la maggioranza della popolazione (attraverso un attacco – a diversi livelli – alla spesa pubblica), oppure con una vera redistribuzione – diretta e indiretta – della ricchezza tra capitale e lavoro, tramite aumenti salariali significativi e/o un incremento della fiscalità sui redditi e patrimoni più elevati.

L’arretramento dell’opposizione sociale e politica

Di fronte a questa offensiva, i movimenti sociali e sindacali sono oggi in difficoltà. Le mobilitazioni non mancano – anzi, in molti paesi esse restano vive e combattive – ma troppo spesso si presentano frammentate, settoriali, incapaci di costruire un fronte politico unitario e sul lungo periodo in grado di modificare i rapporti di forza.
La Francia rappresenta un caso emblematico: a una forte e radicata presenza sociale corrisponde una debolezza evidente sul piano politico, un’incapacità di tradurre la protesta in alternativa di governo. Riflessioni simili potrebbero essere fatte anche per un paese come l’Italia.
Per quanto riguarda il nostro paese, questa difficoltà appare evidente sia sul piano politico che su quello sociale.
Negli ultimi anni abbiamo conosciuto anche in Svizzera grandi mobilitazioni sociali, come quella sul clima o quella femminista. Abbiamo visto mobilitazioni che, per qualità e quantità, non hanno avuto eguali negli ultimi decenni.
Questi movimenti hanno posto l’esigenza di risposte radicali su questioni di fondo quali la risposta alla crisi climatica e le discriminazioni di genere. Ed hanno anche messo in risalto come, all’interno dell’attuale quadro economico e istituzionale, appaia difficile – se non impossibile – offrire risposte adeguate.
Basti pensare, per restare su questi due temi fondamentali, alla marcia sul posto – per non dire di peggio – in materia di parità di genere a trent’anni dall’istituzione della relativa legge e, su un altro piano ma con le stesse dinamiche, alla presa d’atto – proprio in questi giorni – che le decisioni “storiche” in materia di lotta alla crisi climatica adottate a Parigi dieci anni fa non hanno contribuito a migliorare la situazione poiché rimaste sostanzialmente lettera morta.

La politica di governo e la necessità di un cambio di paradigma

Una cosa appare oggi chiara. Le condizioni politiche ed economiche (a cominciare dalla politica fiscale condotta negli ultimi anni) confermano in modo evidente che oggi non esistono le condizioni materiali e politiche perché una politica di concordanza governativa possa tradursi in conquiste significative, tali da migliorare concretamente la vita della maggioranza della popolazione.
Ci si può interrogare se queste condizioni si siano verificate in passato (diciamo a partire dagli anni ’80): il susseguirsi di gravi sconfitte per i salariati (dalla costituzione del sistema dei tre pilastri alla riforma delle regie federali, dalla politica sanitaria a quella in materia di formazione) induce a pensare che questi spazi di “riforma”, grazie alla presenza governativa, non siano in realtà mai esistiti.
È tuttavia ancora forte la convinzione, predominante tra le forze maggioritarie della sinistra, che sia possibile ottenere risultati concreti mantenendo una linea di collaborazione governativa con i partiti borghesi. Ma i dati di realtà mostrano altro: occorre dunque un cambio di paradigma, un ritorno a una prospettiva di opposizione come linea politica centrale.
In questa discussione rientra anche la politica condotta a livello comunale. Oggi, ad esempio, una parte della sinistra difende, a livello delle grandi città, opzioni finanziarie che condanna a livello cantonale (pensiamo, ad esempio, alla priorità accordata al pareggio dei conti, alla diminuzione dell’indebitamento e alle conseguenti politiche di risparmio). Una contraddizione che non può non essere affrontata.
La recente campagna sull’“iniziativa del 10%” ha mostrato che, contrariamente a quanto spesso si pensa, anche le rivendicazioni radicali – ma che corrispondono ai bisogni della maggioranza della popolazione – possono avere possibilità di successo; e questo anche quando la loro dinamica – come è stato il caso con l’iniziativa sul 10% – può avere una forte carica di rottura ed entrare in contraddizione con il quadro politico e finanziario dominante.
Questo risultato dovrebbe spingerci a sviluppare una discussione programmatica che parta da esigenze concrete ma sappia, al tempo stesso, proporre soluzioni alternative rispetto a quelle dettate dall’ordine capitalista neoliberale.

Ridefinire la strategia politica e sindacale

Assumere una linea di opposizione significa, anche per chi partecipa alle istituzioni, mantenere la coerenza con i programmi e gli impegni presi con gli elettori e le elettrici. La vecchia logica dei “due forni” – distinguere tra il ruolo parlamentare e quello governativo – appare sempre più incomprensibile, tanto più che è oggi praticata anche da forze di destra e di centro come la Lega-UDC e il Centro.
Né può essere addotto l’argomento, almeno per quel che riguarda il Ticino, di rapporti di forza differenti. Ad esempio, 1 consigliere di Stato su 5 non è molto diverso da 21 granconsiglieri su 90!
In questa prospettiva, appare decisivo ricentrare l’azione politica sui luoghi di lavoro e sul terreno sociale, cuore dei rapporti di forza tra le classi. Rianimare la capacità di organizzazione, conflitto e solidarietà in quei contesti deve diventare una priorità militante. Ciò implica anche una revisione profonda del modello di concertazione sindacale – il cosiddetto “partenariato sociale” – che appare sempre più chiaramente uno strumento di pacificazione più che di emancipazione sociale.
Appare singolare che le forze sindacali, alle quali pertanto – formalmente e soprattutto per i contenuti – il nostro documento era pure indirizzato, non abbiano fin qui sentito il bisogno di prendere posizione, in particolare avviando una riflessione sulla propria strategia.
Nel nostro Cantone – così come in alcuni cantoni romandi – gli ultimi anni sono stati caratterizzati da episodiche mobilitazioni, che in alcuni casi hanno anche ottenuto qualche risultato positivo. Ma tutto questo rimane in un quadro che complessivamente – anche nei cantoni nei quali vi sono state mobilitazioni – mostra un rapporto di gran lunga sfavorevole per i salariati e le salariate.
Per restare al nostro Cantone, ricordiamo l’avanzata del dumping salariale e sociale, la perdita di potere d’acquisto nel settore pubblico e privato, i processi di ristrutturazione aziendale nel settore pubblico e privato che sopprimono in continuazione posti di lavoro.
Senza una svolta su questo terreno, senza una ripresa dell’azione sociale su ampia scala, qualsiasi discorso politico e sindacale resta puramente declamatorio.

Questioni aperte

Su tutti questi temi, riteniamo che il dibattito di fatto, come detto inizialmente non sia nemmeno decollato. Certo, sappiamo che vi sono distanze tra le forze politiche e sociali attorno a questi temi. Ma, proprio richiamandoci all’indicazione iniziale sulla nuova fase e sui compiti che essa pone, a noi pare necessario confrontarsi senza riserve.
Sappiamo che alcune delle cose che abbiamo scritto qui sopra non sono condivise; ad esempio, l’idea che la presenza in governo e una logica concertativa permetta di “portare a casa qualcosa” continua a essere difesa, senza mai interrogarsi – nel dettaglio e concretamente – su cosa nei fatti si porti o si sia “portato a casa”. È una questione da dibattere laicamente.
Una discussione, come detto, che non può non coinvolgere il ruolo – sempre più problematico – di rappresentanti di sinistra nei Municipi dei maggiori centri del Cantone. Ad esempio, sarebbe interessante, partendo dalle esternazioni del municipale PS di Lugano, riflettere se, attorno al suo comportamento, sia possibile ipotizzare una presenza diversa negli esecutivi. La presa di posizione della sezione di Lugano del PS a seguito delle polemiche sollevate sembrerebbe escluderlo (“La Sinistra, con senso di responsabilità, ha scelto di non collocarsi all’opposizione, ma di assumersi il compito di forza di governo, partecipando pienamente alla gestione della città”), ma sulla fattibilità di una simile posizione sarebbe utile discutere apertamente.
Ciò che ci ha spinti e ci spinge a porre tali questioni è quello che potremmo definire una visione realistica dei rapporti di forza, istituzionali e sociali in questa nuova fase, come abbiamo cercato di illustrare in questo testo.
Nel 2022 avevamo proposto, in vista delle elezioni del 2023, la formazione di liste comuni per il Consiglio di Stato e per il Gran Consiglio, proposta che, senza discussione e approfondimento, le direzioni di Verdi e PS rifiutarono.
Quella proposta si fondava sulle stesse premesse analitiche del nostro nuovo documento. Vorremmo concludere quel testo per mostrare come il nostro atteggiamento sia coerente con quella impostazione. Scrivevamo: Naturalmente la costituzione di queste liste dovrà fondarsi su un programma di opposizione, in governo e in Parlamento, che, approfondendo i punti che abbiamo qui sopra richiamato, dovrebbe essere elaborato in una forma più precisa e articolata. Ci rendiamo conto che l’adesione a questa proposta significherebbe un cambiamento radicale di paradigma sia per i Verdi che, ancor di più, per il PS; ma anche per l’MPS rappresenta uno sforzo di cambiamento non certo trascurabile, in particolare dal punto di vista della tattica elettorale. Il dibattito sulle alleanze (soprattutto per chi dichiara di muoversi in una dinamica rosso- verde) non può risolversi in discussioni eminentemente tattiche nelle quali la difesa delle proprie posizioni è l’elemento fondamentale. Il contesto storico, il periodo nel quale siamo entrati, non permette più di continuare con la politica condotta in questi ultimi anni. Se veramente si crede a quanto si va affermando, appare necessario fare scelte coraggiose”.
Se vogliamo fare passi avanti in questa direzione, un dibattito di fondo appare oggi ineludibile.

*articolo apparso su naufraghi.ch il 13 novembre 2025.