Il Che restituito alla storia

Nel definire il proprio ambito di ricerca a volte non è facile sottrarsi del tutto alle suggestioni, recepite durante il proprio percorso formativo. Se riconosciute e governate, esse possono diventare motivazione e ipotesi per la ricerca, accolte quindi come punto di partenza per andare oltre, per dare consapevolezza e storia all’argomento scelto e all’uomo, Che Guevara in questo caso, in una fusione tra passione e pensiero, ricollocati nel tempo in cui visse, quando sembrò possibile, oltreché necessaria, una trasformazione sociale radicale. Da questo intreccio nasce il recente libro dello storico Sergio Dalmasso (Comandante Che Guevara. La vita, le battaglie e il pensiero politico di un rivoluzionario, Red Star Press, 2025), corredato da una ricchissima documentazione fotografica, un vero e proprio libro nel libro. Compito non facile, svolto egregiamente districandosi dall’agiografia e dall’iconografia consumistica e raccontando il suo travaglio, interpretandone la strategia, confrontandosi con la sua azione politica, militare e militante. Non rinnegando il mito ma evitando di cadere nella “trappola” per cui pensiero, elaborazione politica e teorica cedono il passo alla lettura romantica della sua vita.

Certo la vita del Che e poi la sua morte contenevano i presupposti dell’immagine del “guerrigliero eroico”, emotivamente recepiti da un contesto sociale e culturale che ne predisponeva l’acquisizione non solo tra appartenenti a correnti politiche organizzate alle quali l’autore dedica un’apposita appendice, come altrettanto fa per il cinema e la musica. Quella rappresentazione iconografica divenne un riferimento comportamentale e ideologico non solo per giovani marxisti in cerca di eresie teoriche, ma anche per giovani cristiani di varia provenienza, insofferenti alla gerarchia ecclesiale e pronti a trasformarsi in soldati del “Cristo-Che” per portare l’evangelo della rivolta contro le ingiustizie tra gli strati popolari e oppressi. Non a caso Dalmasso dedica un circostanziato paragrafo al prete guerrigliero colombiano Cammillo Torres morto venti mesi prima del Che. La sua figura penetrò tra la nuova generazione in formazione nel 1967. La morte di Luigi Tenco al Festival di Sanremo aprì l’anno, quella di Che Guevara lo chiuse l’8 ottobre a La Higuera, presso Santa Cruz, in Bolivia, quando fu catturato da un reparto dell’esercito e ucciso. Erano due tipologie umane diverse, due vite geograficamente lontane, che la generazione giovane unì simbolicamente in una sola rivolta, mescolando l’aspetto esistenziale con quello politico e sociale. “Il Che era uno dei nostri, che accomuniamo senz’altro a Luigi Tenco”, scrivevano due giovani lettori di Bologna sul settimanale Big, del 17 novembre 1967.

Il Che nella sua storia.

L’immagine del Che, diffusa in Italia con la riproduzione di una fotografia scattata da Korda da parte della casa editrice Feltrinelli, lo rappresentava giovane, bello, con i capelli e la barba lunghi, gli occhi penetranti, vivi. Uno sguardo che scrutava le coscienze di chi lo osservava, scoprendone i lati rinunciatari, pigri, ambigui, pronti al compromesso. Da allora la sua figura ha conosciuto momenti di oblio e di ripresa. Inabissatasi nella seconda metà degli anni Settanta, riemerge nel ventennale della morte (1987) che riscopre l’interesse per il rivoluzionario e consolida il mito nell’intreccio emotivo di amore, politica e spirito di ribellione. Similmente il trentesimo anniversario segna ancor più il trionfo postumo. Mezzo secolo dopo (2017) si misura un calo di interesse storiografico, politico e anche commerciale. La vicenda dell’uomo Che Guevara è raccontata fin dalla sua infanzia, contestualizzata negli ambienti in cui la sua personalità si forma e matura a cominciare dall’Argentina, paese in cui era nato nel 1928. La ricostruzione dell’ambiente famigliare e sociale è attenta e circostanziata e si combina con richiami al contesto politico argentino. Si delinea il suo amore per l’avventura, per il racconto nella forma del diario, abitudine che lo accompagnerà tutta la vita. Percorre l’Argentina, poi Cile, Perù, Equador, Colombia, Venezuela, Panama, Guatemala e Messico. È in quest’ultimo paese che incontra Fidel Castro e il progetto di sbarcare a Cuba per innescare la rivoluzione al quale aderisce.

Cuba: eccezione o modello?

Il gruppo dirigente della rivoluzione cubana apparteneva a una generazione che, per ragioni anagrafiche, non aveva vissuto lo stalinismo, le epurazioni, i processi, le diaspore, le divisioni e le delusioni. Il nucleo originario delle forze ribelli era composto da intellettuali, per lo più provenienti dalla classe media: studenti, avvocati, medici, insegnanti, qualche disoccupato. Tutti si erano formati al di fuori del Partito comunista cubano. Quell’esperienza indicava la possibilità di trovare soluzioni organizzative e politiche adatte alla lotta per la trasformazione sociale, senza ricalcare modelli e sistemi precedentemente adottati. In questo senso l’esperienza del socialismo cubano parve a molti giovani una cosa diversa e alternativa a quella dei sovietici. A proposito del socialismo cubano, Sergio Endrigo notava che esso «è più allegro di quello che alligna nelle terre avvolte dalle nebbie. E quest’allegria è la prima cosa che colpisce. […] I cubani sono allegri anche perché il loro socialismo è meno burocratico, meno ‘musone’ e ministeriale» (Vie Nuove, 14 novembre 1968). Propria di Che Guevara era la concezione continentale della rivoluzione di cui Cuba era una premessa, l’avamposto da cui muovere. La presa del potere non poteva limitarsi a un solo paese, pena la sua sconfitta, e la guerriglia rurale diventava il centro del movimento, proponeva una strategia nuova, si presentava come azione permanente e senza confini, che non si ossificava in istituzioni chiuse e strutturate. Nel 1961 con lo scritto Cuba: eccezione storica o avanguardia nella lotta al colonialismo? rivedeva la teoria marxista classica, fondata sul proletariato, a favore della lotta armata contadina che avanza verso la città. Intanto la rivoluzione doveva difendersi dall’imperialismo americano che promuoveva lo sbarco dei mercenari nell’aprile del 1961, per rovesciare il governo rivoluzionario, e l’embargo nel 1962. Ne conseguì l’apertura all’aiuto sovietico e degli altri paesi socialisti. Misura necessaria anche per Che Guevara, senza però dover sottostare al loro modello di politica economica e alla coesistenza pacifica. Quando si pose la questione dei missili da installare a Cuba, egli criticò l’accordo tra Stati Uniti e Unione Sovietica considerandolo un cedimento opportunistico all’imperialismo. Nella lotta contro l’imperialismo, i paesi socialisti non costituivano un baluardo sufficiente, dato l’atteggiamento al compromesso con l’avversario. Quindi era necessario allargare il fronte, costruire focolai di ribellione e di lotta in tre continenti, Asia, Africa e America Latina, nella prospettiva di alleggerire la pressione su Cuba e l’attacco americano in corso nel Vietnam, creando due, tre…molti Vietnam.

Socialismo e coscienza socialista

Cuba, insorta non solo contro l’oligarchia, ma anche contro i dogmi del movimento comunista internazionale, ricerca una prassi di socialismo inedita. Rifiuta la lettura economicista del marxismo e della società. S’inserisce in questo contesto il contributo che Guevara dà alla rivoluzione cubana, non solo nel periodo dell’eroica guerriglia, ma anche dopo, una volta preso il potere, sulla riforma agraria, sulla politica della Banca nazionale, sulla necessità della pianificazione per sottomettere il gioco delle forze economiche capitalistiche, da intrecciarsi con la partecipazione dal basso, secondo un modello di democrazia socialista. Interviene nel dibattito in corso con scritti sulla politica economica, sugli incentivi morali piuttosto che materiali, sull’“uomo nuovo”. Sostiene che le decisioni economiche devono sottostare a criteri sociali, etici e politici. Il socialismo senza morale consona, non è socialismo, diventa un metodo di ripartizione delle risorse, non una concezione nuova della società e dell’uomo. Ai cambiamenti economici occorre affiancare una rivoluzione delle coscienze, una nuova morale, una nuova concezione del lavoro. Altra preoccupazione riguarda la riproduzione a Cuba del “male” burocratico, i rischi professionali del potere che possono sfociare nella costituzione di oligarchie burocratiche. Dando rilievo a questi temi Dalmasso libera il Che dall’icona del guerrigliero eroico per dare spazio al pensatore critico e alternativo al socialismo reale d’allora.

Pratica internazionalista

Che Guevara appariva disinteressato alla carriera politica che avrebbe potuto perseguire nel sistema governativo cubano. Invece scelse di rinunciare a privilegi e gratificazioni per andare a combattere in una sperduta foresta boliviana. Questa rinuncia disinteressata al potere contribuì al fascino per la persona. Dietro quella scelta vi era un preciso e circostanziato ragionamento politico, tema ben sviluppato nel libro, per ricondurre il mito alle circostanze storiche in cui il protagonista si trovò a decidere e scegliere, per fondare il suo integrale internazionalismo. Per lui, la rivoluzione, pur mantenendo una specificità paese per paese, costituiva un unico processo, perché unico era il dominio dell’imperialismo e dei suoi servi nazionali. Complice l’esempio algerino e la lotta vietnamita, il suo internazionalismo si prospettò su tre continenti, intrecciando le lotte antimperialiste e di liberazione in corso. Visita diversi paesi africani, vuole creare in Congo un fronte africano di lotta che si sommi al Vietnam e a quello, in fieri, in America Latina. Anche per l’America Latina il progetto è continentale, per questo si sceglie come campo di partenza la Bolivia, sperando che la Cordigliera delle Ande diventi la Sierra maestra d’America. Il 23 ottobre 1966 lascia Cuba, il 3 novembre è a La Paz, a febbraio il gruppo si muove. Primi successi, poi difficoltà crescenti. L’8 ottobre 1967 è il giorno della sua ultima battaglia, ferito, viene catturato e ucciso.

Ciò che resta

Il Che non è un “classico” nel senso di pensatore teorico come Marx, Rosa Luxemburg, Lenin e Gramsci, piuttosto è un rivoluzionario che, dalla prassi ha saputo compiere un’opera di rinnovamento e di comprensione delle contraddizioni che hanno circondato la storia del movimento operaio. Il suo internazionalismo, la critica al socialismo realizzato e burocratizzato sono elementi che andrebbero ripresi e valorizzati. Resta il suo sacrificio, il suo esempio di estremo volontarismo, paragonabile al gramsciano “ottimismo della volontà”, nonché i suoi insegnamenti che rimangono preziosi e ci aiutano – conclude l’autore – nell’affrontare le nuove sfide con il medesimo obiettivo: come organizzare la resistenza e la lotta ai drammi che capitalismo e imperialismi introducono nella vita delle persone. La sua figura, liberata da miti e leggende, resta uno dei pochi elementi cui riferirsi nel difficile tentativo di ricostruzione di una teoria e di una prassi del cambiamento adeguato al nostro tempo, compito di non facile soluzione.

*Diego Giachetti vive e lavora a Torino. Si è occupato di movimenti giovanili e di protesta negli anni Sessanta e Settanta. Collabora con varie riviste e con la Biblioteca Franco Serantini di Pisa. Fa parte dell’associazione Storie in movimento. Tra le sue pubblicazioni “Anni sessanta comincia la danza. Giovani, capelloni, studenti ed estremisti negli anni della contestazione” (2002), “Vasco Rossi. Un mito per le generazioni di sconvolti” (1999) e, con Marco Peroni, “Ognuno col suo viaggio” (2005). Questo articolo è apparso sul sito volere la luna il 25 novembre 2025.