Un intervento pubblico insufficiente e inefficace
Malgrado i solenni richiami alla necessità di contrastare le conseguenze sociali ed economiche della pandemia, Cantone e Comuni hanno finora fatto poco o nulla in questa direzione. E a poco valgono i tentativi di pubblicizzare misure che, alla fine, restano spesso più spot pubblicitari (comodissimi in periodi elettorali) che aiuti concreti a coloro che sono in difficoltà.
Questa politica di sostanziale immobilismo di fronte alle conseguenze sociali della pandemia è stata inaugurata già nella prima ondata ed è proseguita anche nella seconda ondata. Diciamo che l’orientamento di fondo può essere così riassunto: nessun intervento sostanziale al di fuori di quelli previsti dalla legislazione esistente (soprattutto di tipo federale) oppure necessari per poter contare sull’intervento previsto dalla Confederazione.
Così, in primavera non si è andati oltre alle misure previste dalla Legge sull’Assicurazione disoccupazione, in particolare il ricorso al lavoro ridotto. Gli interventi del Cantone, in questo ambito, si sono limitati a potenziare la struttura logistica per trattare con celerità le domande (d’altronde la struttura logistica viene in gran parte finanziata dalla stessa assicurazione disoccupazione). Nessun intervento diretto del Cantone, con soldi propri, dal punto di vista delle prestazioni.
Lo stesso possiamo dire per tutta la parte relativa all’intervento finanziario, i miliardi messi a disposizione della Confederazione (versamenti a fondo perso, prestiti, garanzie, etc.) e la cui gestione è stata generosamente affidata alle banche (che ci hanno guadagno e ci guadagneranno centinaia di milioni nella gestione di questi fondi e nuova clientela aziendale). Anche qui ci si è limitati a due o tre cosette in materia di infrastruttura messa disposizione (in particolare per le fidejussioni); ma anche su questo fronte nessun intervento autonomo da parte del Cantone.
La “tregua” estiva, tempo perso e inviti a cena per tutti
Poi è arrivata la “pausa” estiva, tra la prima e la seconda ondata. Malgrado segni evidenti di difficoltà sociale che andavano accumulandosi, nessuna nuova misura concreta. Gli unici interventi previsti sono stati quelli (necessari) di un sostegno finanziario alla struttura sanitaria pubblica, messa sotto pressione dalla pandemia.
Anche gli interventi in settori pertanto fondamentali (come la formazione professionale o la scuola) sono stati all’insegna del minimo indispensabile. Per la formazione professionale non si è andati oltre i 2’000 franchi di sostegno per ogni nuovo contratto di tirocinio, una misura (tra l’altro) finanziata dal fondo cantonale sulla formazione professionale del quale il Cantone, in quanto tale, non è nemmeno finanziatore. Ma ci si è rifiutati, malgrado le proposte concrete fatte dall’MPS, di potenziare l’offerta di posti di apprendistato nelle scuole professionali a tempo pieno (ad esempio raddoppiando alcune sezioni della Scuola Arti e Mestieri) o offrendo nuovi posti di apprendistato all’interno dell’amministrazione cantonale.
Nulla è stato fatto nemmeno a livello delle scuole, ad esempio per dotarle di spazi supplementari – prefabbricati – per poter affrontare in condizioni di maggiore sicurezza il rientro in settembre. Chiusura totale poi a qualsiasi discorso per diminuire il numero di allievi per classe
Un discorso particolare, perché vantati sempre come strumenti di intervento a favore del turismo, sono state le iniziative che rientrano sotto l’azione denominata “Vivi il tuo Ticino”: più di 6 milioni messi a disposizione da BancaStato per sostenere l’attività turistica in Ticino. Le prestazioni sono state di due tipi: una sorta di buono pranzo (in pratica una cena quasi gratuita per due persone) e la partecipazione del 20% alle spese di alloggio per i turisti degli alberghi convenzionati. In realtà, anche vedendo quanto successo negli altri Cantoni, ma anche in paesi vicini a noi, la riprese estiva del turismo nostrano non può in nessun modo essere addebitata a questi finanziamenti. Andare a cena, dopo mesi di cautela, è stato un riflesso normale per molte persone, e del tutto slegato dal fatto che questa cena fosse, in parte, “offerta”. In altre parole, non saranno stati certo i 113’000 buoni utilizzati (per un valore di circa 3 milioni di franchi) a permettere la ripresa estiva del Ticino!
Si è trattato, diciamolo chiaramente, di un’azione di propaganda, tanto per far vedere che si faceva qualcosa per un settore (quello della ristorazione e alberghiero) colpito durante dalla pandemia. In termini di allocazione delle risorse (per usare un termine della vulgata neoliberale) si è trattato di quanto più inefficiente (per il suo carattere “a pioggia” per parlare ancora in termini tipici del modo di ragionare neoliberale). Soldi, diciamolo pure senza paura, buttati via. Soldi che quest’estate, come oggi, avrebbero potuto essere usati in maniera più mirata per sostenere i molti casi particolari di salariati, indipendenti e piccole aziende che non hanno potuto beneficiare di altre forme di sostegno.
La seconda ondata, ancora con il freno tirato…
L’inizio della seconda ondata ha poi visto gli interventi più importanti (si fa per dire), quelli che avrebbero dovuto rispondere non solo alla situazione reddituale sempre più difficile di un numero crescente di lavoratori e lavoratrici, ma anche alle difficoltà di indipendenti, piccole imprese, etc. che le misure di contenimento della pandemia hanno messo in difficoltà.
E anche qui il Cantone non si è smentito, procedendo a un intervento fondato sullo sforzo minore. I tipi di intervento sono stati due, il primo rivolto alle persone in difficoltà (la cosiddetta “prestazione ponte”), il secondo rivolto alle imprese definite, sulla base del decreto federale, “casi di rigore”.
Se escludiamo le spese relative al sistema sanitario, possiamo affermare che il Cantone se l’è cavata con interventi che, complessivamente, non vanno oltre i 35-40 milioni di franchi: decisamente troppo poco per pretendere di aver dato un serio contributo cantonale ad affrontare la crisi economica e sociale ampliata dalla crisi pandemica.
Il provvedimento legato alla cosiddetta “prestazione ponte” (presentato in pompa magna, dopo che il Parlamento lo ha approvato nelle scorse settimane, con una ridondante conferenza stampa) è in realtà poca cosa: una prestazione che si rivolge a tutti coloro che non hanno potuto e non possono (per più ragioni) avere accesso ai normali aiuti previsti e quindi dovrebbero rivolgersi all’assistenza sociale. In realtà, lo dice persino il governo, questa misura altro non è che una forma diversa di quanto si verserebbe comunque, alle stesse persone, attraverso l’assistenza sociale. Scrive il governo nel suo messaggio: “Occorre rilevare che il costo totale della prestazione ponte COVID risulterebbe prevalentemente neutro visto che almeno la metà delle richieste stimate, in assenza di questo aiuto straordinario, si trasformerebbe in nuove domande di aiuto sociale”. Anzi, il ragionamento è ancora più vizioso laddove si afferma che tale misura è concepita per evitare l’aumento del ricorso agli aiuti sociali: “Il Governo cantonale teme che questo potrebbero tradursi in un aumento delle richieste di prestazioni sociali ordinarie”. Chiarissimo! Il che significa che almeno la metà, per non dire i due terzi, delle 3’000 domande previste troverebbero comunque risposta attraverso i canali già esistenti. Certo, anche il migliaio di persone che troverà un piccolo sostegno (al massimo per tre mesi) con questa misura è importante; ma spacciare questo come un intervento “sociale”, mirato cioè a rispondere alle difficoltà reddituali che la pandemia ha approfondito a partire da marzo è decisamente troppo. Possiamo affermarlo senza tema di essere smentiti: il governo ticinese ha rinunciato ad un intervento sociale di ampia portata teso a dare sostegno alle difficoltà reddituale della maggioranza dei cittadini e delle cittadine di questo Cantone. Il resto sono solo chiacchiere.
La seconda misura, quella relativa ai cosiddetti casi di rigore, si rivolge direttamente alle imprese che verranno aiutate con prestiti a fondo perso o fidejussioni se rispondono ad una serie di requisiti relativi alla evoluzione della loro cifra d’affari, alla loro situazione finanziaria, al settore nel quale operano, etc. Un intervento che il Cantone non ha deciso in modo autonomo; si tratta di un intervento che il Cantone in qualche modo è costretto a fare se vuole incassare i milioni che gli spettano sulla base della chiave di riparto decisa dalla Confederazione che ha stanziato alcuni miliardi per questo sostegno alle imprese. In altre parole, il Cantone mettere sul tavolo poco più di 25 milioni per poter far capo agli altri 50 previsti dalla Confederazione.
L’efficacia di questo intervento è ancora tutta da dimostrare; in particolare appare contestabile l’idea che il miglioramento delle condizioni di singole imprese (in particolare nel settore della ristorazione in senso esteso) possa sul serio far ripartire un circolo virtuoso (occupazione, miglioramento delle condizioni di lavoro, diminuzione della precarietà, etc.). In particolare, poiché la concessione di tali crediti di fatto non è sottoposta ad alcun controllo sul rispetto di condizioni di lavoro (moratoria di futuri licenziamenti, etc.).
Le condizioni di concessione di tali crediti sembrano poi essere tali da restringere gli aiuti ad aziende che, verosimilmente, non sembrano averne necessità. Basti ricordare che tali criteri comportano (in maniera cumulativa: essere considerate redditizie o economicamente solide prima della richiesta, aver adottato i provvedimenti necessari alla protezione della liquidità e dei fondi propri, dimostrare in maniera credibile che, grazie agli aiuti, possano garantire la continuità aziendale.
Se queste imprese fossero state redditizie (cioè avessero generato profitto) prima della pandemia o avessero adottato i provvedimenti necessari alla protezione della liquidità non si capisce per quale ragione dovrebbero aver bisogno di un sostegno finanziario.
Ci si può quindi legittimamente chiedere quali possano essere queste imprese che, malgrado fossero, solo un anno fa, “redditizie” e “economicamente solide”, malgrado abbiano adottato tutti i provvedimenti atti a proteggere la propria liquidità e propri fondi, malgrado abbiano potuto accedere ad aiuti di diverso genere che abbiamo appena richiamato, malgrado tutto questo si trovano oggi in una situazione disperata.
Fatte queste considerazioni ci pare di poter concludere che questo intervento sembra essere destinato ad imprese che si trovano, tutto sommato, ancora in una situazione accettabile (se non buona) piuttosto che a imprese che si trovano in una condizione di vera difficoltà. In altre parole, si tratterebbe di un intervento teso sostanzialmente ad accelerare quei processi di ristrutturazione e di riorganizzazione ai quali ha alluso, in diversi interventi, il capo del DFE Christina Vitta. Una posizione abbastanza logica, dal punto di vista del capitalismo liberale: le crisi come grande occasione di distruzione di capitale, di riorganizzare della concorrenza, di taglio ai “rami secchi”.
Vere misure di sostegno alla popolazione
Se le cose stanno così, è evidente che le misure prioritarie non possono essere quelle tese a salvare imprese ormai votate alla chiusura o, ancora meno, aumentare il sostegno finanziario a imprese che non hanno in realtà, dal punto di vista finanziario, una situazione così disastrata.
La priorità deve essere orientata verso il sostegno alle conseguenze economiche individuali e sociali della pandemia che hanno colpito e colpiscono, in particolare dal punto di vista reddituale, i salariati, ma anche tutti gli indipendenti e le altre figure sociali colpite dalla crisi che investe l’economia.
Su questo terreno, come detto, l’intervento del Cantone (così come quello della Confederazione) appare inconsistente, limitandosi ai meccanismi previsti in tempi normali (pur se leggermente corretti: pensiamo, ad esempio, all’aumento dell’indennità per lavoro ridotto al 100% per salariati che guadagnano meno di 4340 franchi: ancora una miseria, ma un piccolo passo avanti).
È necessario rilanciare una politica di sostegno ai redditi che non passa necessariamente, come vorrebbe la vulgata neoliberale, attraverso il sostegno alle imprese. Una posizione che, di fatto, si nasconde anche dietro all’offensiva padronale in atto da qualche giorno per un veloce ritorno al lavoro e per la fine delle misure di confinamento in atto da dicembre. Dietro vi è l’idea che la ripresa delle attività imprenditoriali, il ritorno alla libertà totale degli imprenditori, sia lo strumento fondamentale per creare benessere e occupazione.
In realtà il padronato (ad esempio in tutto il settore industriale o quello bancario) non ha minimamente avuto restrizioni di alcun genere nell’ultimo anno; possiamo dire che si è lavorato a pieno regime. E non ci sembra che i salariati di questo settore abbiano visto le loro posizioni rafforzate o riconosciute in termini di occupazione o salariali. Abbiamo assistito piuttosto al contrario: aumento dei profitti, approfondimento dei processi di ristrutturazione, annuncio di nuovi licenziamenti, congelamento (quando non diminuzione) dei salari. Basti pensare, per non fare che un esempio, a UBS che, di fronte a un 2020 con eccezionali profitti miliardari, ha annunciato nuovi piani di ristrutturazione (chiusura di diverse sedi) con conseguenti sacrifici occupazionali.
Di fronte a tutto questo, come detto, dobbiamo rimettere al centro la difesa dei redditi della popolazione, composta in maggioranza da salariati o da persone che vivono direttamente del proprio lavoro al quale concorrono in prima persona (pensiamo agli indipendenti o ai titolari di piccole imprese familiari con poche unità di dipendenti).
A livello cantonale, nei dibattiti pubblici o in Gran Consiglio, abbiamo a più riprese formulato proposte (sistematicamente rifiutate dagli altri partiti) che oggi ci sembrano ancora più urgenti. Le riformuliamo qui di seguito:
1. La costituzione di un fondo cantonale di 100 milioni di franchi che possa intervenire, in collegamento con altre misure previste a livello federale, per:
– sostenere le attività indipendenti che si trovassero, a seguito delle chiusure dovute alla pandemia, in difficoltà, in particolare per coloro che non ricevono altre indennità (lavoro ridotto, etc.)
– garantire la parte di perdita di salario non rimborsata, in particolare dalla indennità per lavoro ridotto
– introdurre un “reddito di pandemia” che garantisca almeno un reddito netto di 4’000 franchi per chi svolge un’attività non qualificata e di 5’000 franchi per chi svolge un’attività qualificata.
Tale fondo (un fondo di solidarietà) potrebbe facilmente essere finanziato attraverso un contributo versato dai datori di lavoro pari allo 0,5-1% sulla massa salariale annua (sul modello del fondo per formazione professionale). Senza escludere, come abbiamo già proposto, un aumento della fiscalità ordinaria, in particolare attraverso un aumento delle aliquote fiscali sui redditi imponibili superiori ai 100’000 franchi, sulle sostanze nette superiori a 1 milione di franchi e sugli utili delle persone giuridiche
2. l’introduzione di una moratoria – almeno fino alla fine del 2021 – su qualsiasi licenziamento economico, su qualsiasi sfratto dovuto a canoni di locazione non pagati, su qualsiasi sospensione delle prestazioni sanitarie dovute al mancato pagamento dei contributi. Una particolare attenzione dovrà essere dedicata alle donne che, come hanno dimostrato i dati relativi all’evoluzione del mercato del lavoro durante questo anno pandemico, sono state le più colpite a livello occupazionale.
3. Blocco del pagamento dell’affitto e delle spese relative per i locali nei quali si svolgono attività commerciali e imprenditoriali per il periodo nel quale sono rimati chiusi a seguito della pandemia (ristoranti, piccoli commerci, etc.)
4. Un rafforzamento del servizio pubblico, in particolare nell’ambito sanitario, dell’insegnamento, dell’assistenza agli anziani e della cura in generale.
5. La creazione da parte del Cantone, sia nell’amministrazione cantonale e nelle aziende parastatali, sia creando nuovi posti nella Scuola d’Arti e Mestieri e in altre scuole professionali a tempo pieno, di 300 nuovi posti di apprendistato per settembre 2021.
6. Un intervento a livello federale a sostegno della rivendicazione che la produzione e l’uso dei vaccini vengano sottratti ai brevetti dei grandi gruppi farmaceutici nazionali e internazionali. È inaccettabile dover pagare fior di miliardi a multinazionali per l’uso di brevetti per una campagna di vaccinazione che risponde ad un bisogno di salute pubblica; si tratta di multinazionali che non solo guadagnano ogni anno centinaia di miliardi, ma che hanno praticamente finanziato le ricerche di questi vaccini con sostanziosi finanziamenti pubblici. Tutto ciò anche alla luce del fatto che, verosimilmente, le campagne di vaccinazioni dovranno continuare nel corso dei prossimi anni.