Il prossimo 30 novembre, sì all’iniziativa per il futuro!

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Si è tenuta ieri la conferenza stampa del comitato a sostegno dell’iniziativa della GISO, denominata iniziativa per il futuro, sulla quale saremo chiamati a votare il prossimo 30 novembre. Qui di seguito il testo del contributo fornito da Giuseppe Sergi, a nome dell’MPS. (Red)

La proposta dell’iniziativa per il futuro lanciata dalla GISO, sulla quale saremo chiamati a votare il prossimo 30 novembre, propone una redistribuzione della ricchezza importante: un primo passo per avviare una politica di riparazione e resistenza alle conseguenze che già oggi viviamo sul terreno ambientale e sociale. Una risposta collettiva a un problema collettivo. Non sarà l’etica del consumo individuale a salvarci. Serve una trasformazione collettiva del modo di produrre, distribuire e vivere.
Una società fondata sullo sfruttamento e sull’esclusione della maggioranza dalle decisioni economiche non può sviluppare un rapporto equilibrato con la natura. Solo una democratizzazione radicale della vita economica e politica – con il controllo collettivo delle risorse e la fine della proprietà privata dei beni comuni – può offrire una via d’uscita.
L’obiettivo di una prospettiva ecosocialista è chiaro: soddisfare i bisogni reali delle persone nel rispetto dei limiti ecologici, abolire le disuguaglianze sociali e di genere, e sostituire la logica del profitto con quella della solidarietà e della cura.
Solo allora, la frattura tra umanità e natura potrà cominciare a ricomporsi.

La crisi ecologica come crisi di civiltà

Il collasso ecologico in corso non è solo un’emergenza ambientale: è una vera e propria crisi di civiltà. Le condizioni climatiche e geofisiche che per circa 10’000 anni hanno reso possibile la storia umana stanno cambiando a una velocità senza precedenti, mettendo a rischio la vita stessa sul pianeta.
Il cambiamento climatico è solo il volto più noto di un disastro più ampio, che comprende la deforestazione massiccia, l’uso insostenibile di suolo e acqua, l’acidificazione degli oceani, la perdita di biodiversità e la destabilizzazione dei cicli naturali dell’azoto e del fosforo. Se il ritmo attuale non rallenta, le conseguenze potrebbero diventare catastrofiche già nei prossimi decenni.
Un riscaldamento globale di 4°C entro il 2100 – scenario tutt’altro che remoto, considerata l’attuale politica climatica – renderebbe inabitabili intere regioni del pianeta, esponendo fino al 70% della popolazione mondiale a condizioni di stress termico mortale.
Milioni di persone stanno già pagando il prezzo della crisi climatica. Eppure, il fatalismo non è una risposta: il peggio può ancora essere evitato, ma solo affrontando le cause strutturali del degrado ambientale e ripensando radicalmente il modello economico che lo alimenta.

Il capitalismo dei combustibili fossili

Alla base della crisi ecologica non c’è un presunto “istinto distruttivo” dell’essere umano, né la crescita demografica, ma il modo di produzione capitalista e la sua logica di profitto illimitato. Un sistema che da circa tre secoli sfrutta in egual misura l’uomo e la natura.
Alcuni dati: si considera che le 100 aziende più inquinanti del mondo sono responsabili del 71% delle emissioni globali di gas serra. O, altro dato, che più del 50% delle emissioni globali di CO2 sono riconducibili a 36 imprese. E, come sempre, i più poveri pagano il prezzo più alto – dalle comunità del Sud globale ai lavoratori dei paesi industrializzati esposti a inquinamento, condizioni sanitarie precarie e disastri climatici.
Già nel XIX° secolo Marx parlava di una “frattura metabolica” tra uomo e natura, causata dal sistema produttivo capitalistico. Da allora, questa frattura si è allargata fino a diventare una minaccia esistenziale. La combustione dei combustibili fossili ha alterato il ciclo del carbonio in modo irreversibile: la concentrazione di CO₂ è passata da 280 a oltre 410 parti per milione, spingendo la temperatura globale verso livelli critici.
Fermare la distruzione significa cambiare radicalmente il modo in cui produciamo e consumiamo. Solo superando la logica del profitto e ristabilendo un equilibrio tra giustizia sociale e ambientale sarà possibile ricucire la frattura tra umanità e natura.

Il fallimento della politica neoliberale

Da oltre 25 anni il cambiamento climatico è al centro delle agende internazionali. Dal 1992, con la Convenzione quadro delle Nazioni Unite, lo “sviluppo sostenibile” è diventato parola d’ordine. Ma dopo un quarto di secolo, il bilancio è impietoso: la politica climatica globale ha fallito.
Neppure l’Accordo di Parigi del 2015, salutato come una svolta storica, ha invertito la rotta. Si tratta, piuttosto, dell’ennesima espressione di una politica neoliberale che tenta da decenni di conciliare crescita illimitata e sostenibilità ecologica – un ossimoro sempre più evidente.
Proposte come il “Green New Deal” vengono spesso presentate come soluzioni miracolose, ma restano ancorate alla logica del profitto e alla fede cieca nella crescita. In un contesto di tensioni geopolitiche e crisi economiche permanenti, è difficile immaginare che le élite globali possano offrire risposte coordinate e solidali alla catastrofe ambientale.
Le risposte finora osservate vanno in tutt’altra direzione: militarizzazione, neocolonialismo e controllo dei confini. Le potenze mondiali integrano il cambiamento climatico nella propria strategia militare, mentre aumentano i conflitti per le risorse – dal Mar Cinese Meridionale alle acque africane, fino all’Artico, all’Ucraina e alle sue terre rare. In un mondo sempre più instabile, la crisi ecologica diventa anche crisi di giustizia e libertà.

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