Il dato principale che emerge dai risultati elettorali delle regionali di domenica scorsa (Veneto, Campania, Puglia) è, senza dubbio, l’ulteriore calo della partecipazione al voto. Nessuna delle regioni ha superato il 45% (Veneto 44,5%, Campania 44,1%, Puglia 41,8%), raggiungendo in tutti e tre i casi il livello più alto di astensionismo della storia repubblicana.
Naturalmente, si tratta di un fenomeno già noto, per nulla sorprendente e in corso da tempo.
La partecipazione che dal Dopoguerra a tutti gli anni ‘70 era sempre stata sopra il livello del 90% (dati delle politiche), assunse nel decennio successivo, fino al primo decennio del nuovo secolo, un trend continuamente calante, ma si mantenne sempre sopra l’80%. Infatti quella iniziale diminuzione poteva essere legata (e qualcuno la motivò così) alle modifiche regolamentari intervenute nel 1993 che abolirono i rischi di qualche penalizzazione che poteva essere prevista per chi non adempiva al “dovere civico” del voto previsto dall’articolo 48 della Costituzione.
Ma, negli ultimi 15 anni, il calo di partecipazione ha assunto dimensioni verticali e patologiche, raggiungendo nelle elezioni politiche del settembre 2022 il livello record del 63,9%. Nelle elezioni amministrative, in quelle regionali, per non parlare dei referendum la caduta è stata ancor più vertiginosa.
Dunque, oramai c’è una maggioranza dell’elettorato che ritiene di affidare agli “altri” (cioè a meno della metà degli “aventi diritto”) la scelta su chi collocare al governo delle città, delle regioni e, in qualche modo; anche del paese. Se sceglie di lasciar fare agli altri significa che ritiene quella scelta sostanzialmente “irrilevante”, non tale da perdere per essa i pochi minuti che comporta l’esercizio del “diritto di voto” (sempre meno minuti, visto che ormai ai seggi elettorali non ci sono più quelle file che comportavano una qualche attesa).
Si tratta di una cosa sconvolgente, con tutta evidenza strettamente legata a quella “crisi della democrazia” di cui si parla da tempo.
Le cause a monte sono tante. La prima è stata certamente la progressiva perdita delle differenze di prospettive, con uno scontro politico “tra sinistra e destra” e non tra ipotesi alternative per il futuro. La politica delle formazioni riformiste (quelle che un tempo si collocavano nel PSI e nel PCI) dal Dopoguerra in poi è sempre più stata un’esplicita accettazione del quadro capitalistico. E la stessa portata trasformatrice delle “riforme” che hanno accompagnato l’ascesa sociale degli anni ‘70 (una fra tutte la riforma sanitaria del 1978) è ormai completamente archiviata.
E’ largamente evidente lo svuotamento dell’istituzione parlamentare, sempre più trasformata in un “parco buoi” vociferante (l’espressione non è di un esponente dell’estrema destra ma dell’allora leader “socialista” Bettino Craxi) ed esautorata dalla decretazione “d’urgenza” dei governi succedutisi a Palazzo Chigi.
Da qui la riduzione “personalistica” delle scelte per l’elettorato: la scelta non è più tra i partiti e tra i loro programmi (sempre meno interessanti) ma su quale sia il (o la, evidentemente) “leader più adatto/a” a “guidare il paese”. Quando si tratta non di “governare”, ma di “guidare”, si sa, al volante non può starci che una sola persona. Si tratta del “premierato” nei fatti, al di là della riforma costituzionale prospettata da Giorgia Meloni.
C’è poi lo spostamento delle sedi realmente decisionali. L’opinione pubblica sa che le principali scelte, economiche (solo per citarne una quella dei “dazi”) o di politica (il rapporto con le guerre ad esempio), vengono fatte non nei parlamenti e per certi versi neanche nei governi nazionali, ma altrove. E neanche tanto nel parlamento europeo, ma nel G7, nel G8, nel G20, nel FMI, nella BCE. E soprattutto in entità ritenute in qualche modo “soprannaturali” e, dunque, “politicamente neutrali”, come i “mercati”, questo novello Olimpo, un po’ immaginario ma potentissimo e immutabile.
E poi c’è quella che è stata definita la “privatocrazia”, quello spostamento di potere che ha affidato tanta parte di quelli che erano i servizi, un tempo gestiti dalla “politica”, al mercato privato (dai trasporti alla sanità). Non solo quelli già privatizzati, ma anche quelli che, pur restando in “mano pubblica”, sono però “aziendalizzati”, come la scuola, l’università e la ricerca, affidati a “consigli di amministrazione” che devono rispondere ai soliti mercati.
Se anche questi servizi, fondamentali per la vita quotidiana di ciascuno, la loro “accessibilità”, il loro costo, la loro qualità non dipendono più dal politico che io scelgo con il voto, io che voto a fare?
Così, i “programmi” passano in secondo piano, anzi scompaiono per chi “deve scegliere”, appaiono sempre più uno simile all’altro, con vacue promesse su sanità, trasporti, casa, lavoro giovanile o gestione dei fondi europei, promesse che comunque non saranno mantenute, perché le sedi delle scelte concrete sfuggono ormai alla “politica”.
Perciò alle elezioni, in particolare a quelle non di portata nazionale, come quelle che si sono svolte domenica 23, partecipano sempre più solo le “tifoserie” dei partiti e dei candidati in lizza, lasciando fuori fette crescenti e tendenzialmente maggioritarie dell’elettorato e dell’opinione pubblica. Prova ne è il fatto che è sempre più consistente quella parte delle schede elettorali che non portano solo la crocetta sul partito scelto, ma che esprimono anche la preferenza per un qualche candidato (questa possibilità è ancora presente nelle leggi elettorali delle regioni, mentre è sparita nella legge nazionale nazionale). Se oltre al partito si vota anche uno delle centinaia di candidati, si confessa il legame personale o di “corrente”, e dunque il legame sostanziale con l’opzione politica.
E non a caso la qualità delle campagne elettorali ha raggiunto livelli volgari. Anche se, come dice la saggezza popolare, “il peggio non è mai morto”. Lo abbiamo visto nel becero e sguaiato balletto al canto di “chi non salta comunista è” che ha concluso il comizio di Napoli della coalizione della destra. Ma lo vediamo più sostanzialmente nei comizi forbiti ma non meno triviali di Giorgia Meloni e in quelli meno forbiti ma altrettanto triviali di Matteo Salvini.
Ma qui occorre fare una distinzione. Perché i comizi dei leader dell’opposizione, di Elly Schlein, di Giuseppe Conte o degli altri del centrosinistra, appaiono certamente più “signorili”, ma, nel contesto che sopra si è cercato di descrivere, risultano persino meno efficaci.
Perché, quando si parla alle tifoserie, il tono pacato e “argomentato” risulta meno convincente di quello cafone della destra di governo.
Dell’astensionismo e dei suoi motivi si parla nei talk-show della sera dopo il voto, ma poi si dimenticano. I “vincitori” fanno festa, i risultati vengono letti come un “chiaro mandato popolare”, anche se la maggioranza di quel “popolo” (o della “nazione” come dice “il” presidente del consiglio) non si è neanche accorta di aver dato un “mandato”.
*articolo apparso sul sito refrattario e controcorrente il 26 novembre 2025.
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