Locarno Film Festival: non solo schermo. Dietro il sipario del glamour, una gestione opaca

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La rimozione del celebre schermo progettato da Livio Vacchini – simbolo dell’identità visiva di Piazza Grande sin dal 1971 – segna non solo una svolta simbolica, ma anche un ulteriore segnale di trasformazione profonda del Locarno Film Festival. Non si tratta di un caso isolato, bensì di un tassello in un processo decisionale sempre più difficile da decifrare.
Intervistato da laRegione (3 luglio 2025), il CEO Raphaël Brunschwig ha spiegato che la scelta rientra in una “nuova visione orientata al futuro”. Tra le motivazioni avanzate, figura anche l’ipotesi di anticipare l’inizio del Festival alla fine di luglio, una mossa presentata come strategica per rafforzarne il posizionamento nel panorama cinematografico internazionale. Cambiando calendario, si renderebbe necessario ripensare anche la logistica: tempi più stretti, maggiore coordinamento con altri eventi in città e soluzioni infrastrutturali più snelle e sostenibili.
Eppure, la narrazione secondo cui le attuali date penalizzerebbero la partecipazione degli operatori del settore non trova riscontro nei numeri forniti dagli stessi organizzatori.
Al termine dell’edizione 2024, la direzione comunicava una crescita del 6,5% degli accreditati, arrivati a 4.940, di cui quasi 1.900 rappresentanti dell’industria cinematografica e oltre 700 tra giornalisti, critici e fotografi. Markus Duffner, responsabile di Locarno Pro, esprimeva grande soddisfazione per l’affluenza e la fiducia dimostrata dai partner.
Alla luce di questi dati, risulta difficile capire il vero motivo dello slittamento delle date. Più plausibile appare l’ipotesi di un riassetto temporale per facilitare la coabitazione con altri eventi, come Moon&Stars, anziché una reale esigenza culturale. Una logica che rischia di snaturare la missione del Festival, subordinandola a esigenze esterne e commerciali.
Tra le giustificazioni addotte figura anche il contenimento dei costi legati al montaggio delle strutture. Tuttavia, la direzione sembra orientarsi verso fornitori esterni, penalizzando così le imprese artigianali locali, da sempre coinvolte nell’organizzazione, e indebolendo il tessuto economico e sociale della regione.
Un dettaglio non secondario: non più tardi di pochi mesi fa, lo stesso Brunschwig affermava che lo schermo di Vacchini era “il cuore identitario del Festival” e che la sua forza internazionale derivava proprio dal legame con il territorio. Una dichiarazione che oggi sembra svanita nel nulla.

Da modello culturale a paradigma aziendale

Con un budget vicino ai 18 milioni di franchi – finanziato in buona parte da fondi pubblici e sponsor – il Locarno Film Festival dovrebbe incarnare un’eccellenza gestionale nel campo culturale. Invece, le politiche adottate dalla direzione – pur vantando un disavanzo relativamente contenuto di meno di 94.000 franchi – richiamano più una logica aziendale, stile corporate restructuring, che non un approccio partecipativo e culturale.
Tecnici con decenni di esperienza, collaboratori storici e piccole imprese locali sono stati progressivamente esclusi, senza comunicazioni ufficiali, sfruttando l’instabilità dei contratti a progetto o a chiamata. Anche i nuovi ingressi, spesso con ruoli specializzati, non sono stati risparmiati: processi sommari di ristrutturazione hanno colpito figure fondamentali, spesso invisibili nelle statistiche ufficiali.
L’uso massiccio di collaborazioni “atipiche” – prive di reale tutela – ha permesso di aggirare in parte le normative sul lavoro. Il rapporto della Commissione della gestione, redatto in vista dello stanziamento del credito quadro da 17 milioni, certifica che “formalmente” tutto è in ordine. Si segnala che solo 4 dei 40 dipendenti stabili sono stati licenziati, trascurando il fatto che rappresentano comunque il 10% della forza lavoro. Se fossero stati 5, si sarebbe trattato di un licenziamento collettivo, con obbligo di procedura di consultazione e coinvolgimento dell’Ufficio cantonale del lavoro. Una coincidenza fin troppo comoda.
Ma la realtà sembra andare oltre i numeri ufficiali. I tagli avrebbero colpito in modo più esteso collaboratori con contratti temporanei, a ore, o pagati tramite fattura: soggetti esclusi da qualsiasi obbligo di disdetta formale.
La risposta? La “promozione” degli stagisti provenienti dal CISA, presentata come un’opportunità di formazione unica. Una retorica che copre un sistema fatto di compensi irrisori, corsi a pagamento, assenza di contratti, orari massacranti e nessuna garanzia. Un vero e proprio lavoro mascherato da stage, con il curriculum come unica moneta di scambio.

Il nodo RSI e il conflitto di interessi

Un ulteriore elemento critico riguarda il ruolo della RSI, storica partner del Festival. L’attuale direttore RSI è lo stesso che in passato ha ricoperto il ruolo di CEO del Festival, e ha avuto un’influenza diretta sulla nomina della presidente Maja Hoffmann. Quest’ultima, oltre a essere una figura di spicco dell’arte contemporanea e fondatrice della LUMA, è anche azionista rilevante di Roche. Una rete di relazioni che solleva dubbi sull’autonomia delle scelte e sulla trasparenza dei processi decisionali.
Il rischio è che il Locarno Film Festival, sotto la patina dell’internazionalità e dell’innovazione, smarrisca la propria anima. Una macchina ben oleata, ma sempre meno ancorata a valori come la giustizia sociale, la competenza e il radicamento territoriale.
A pagare il prezzo di questo cambio di paradigma sono i lavoratori, le piccole realtà produttive locali e la cultura indipendente.
È giunto il momento che istituzioni, stampa e opinione pubblica si interroghino: è davvero questo il modello culturale che vogliamo sostenere?
Il bel mondo della politica ticinese, invitato al Ricevimento in onore del Gran Consiglio organizzato dal Locarno Film Festival, riesca, tra una tartina e l’altra, a riflettere anche su tutto questo.

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