Dal 2 aprile scorso (Liberation Day), il presidente Donald Trump ha fatto in continuazione ricorso a disposizioni legali eccezionali per manipolare i dazi doganali che impone ai principali paesi esportatori di merci verso gli Stati Uniti, senza passare attraverso il Congresso. Il suo obiettivo dichiarato è innanzitutto quello di aumentare il gettito fiscale senza intaccare i profitti delle grandi imprese e gli interessi dei grandi patrimoni americani. Si aspetta tra i 2’000 e i 5’000 miliardi di dollari di entrate supplementari nei prossimi dieci anni. In questo modo, intende anche contribuire alla reindustrializzazione del Paese. Come è noto, queste pretese sono contestate, ma il presidente degli Stati Uniti crede fermamente nel suo programma neomercantilista. Oggi vorrebbe vedere la Svizzera sulla lista delle sue conquiste.
Il Consiglio federale incredulo
Il 1° agosto, giorno della festa nazionale svizzera, mentre i negoziati sui dazi del 31%, annunciati il 2 aprile, sembravano poter sfociare in un «compromesso ragionevole», Trump ha sorpreso i suoi interlocutori annunciando un’aliquota del 39%, applicabile dal 7 agosto, superiore di 8 punti rispetto a quella inizialmente annunciata. I prodotti farmaceutici e l’oro (che la Svizzera si limita a fondere, raffinare e coniare) non sono per il momento interessati da queste misure. Non lo è nemmeno l’industria farmaceutica, che è tuttavia il principale pomo della discordia tra i due paesi, con un volume di vendite che, nel 2024 rappresentava, il 48% delle esportazioni svizzere verso gli Stati Uniti.
Perché? Perché gli Stati Uniti non possono probabilmente fare a meno, nell’immediato, delle importazioni farmaceutiche svizzere in settori sensibili, in particolare i farmaci brevettati contro il cancro. Come in una partita di biliardo, il settore farmaceutico è nel mirino, ma l’inquilino della Casa Bianca sta prima di tutto regolando il tiro sugli orologi (7% delle esportazioni), gli strumenti di precisione (6%) e i macchinari (5%), che insieme non raggiungono il 40% del peso delle esportazioni farmaceutiche. La manovra è destinata a fare pressione sul governo svizzero, che si è sempre assunto il compito essenziale di difendere gli interessi della « piazza economica svizzera », in modo da compensare in qualche modo il deficit commerciale che Washington registra nei confronti di Berna (38,5 miliardi di dollari, pari al 3,2% del deficit commerciale totale degli Stati Uniti nel 2024).
Giocare sulle contraddizioni tra le grandi potenze
Contrariamente a un’idea diffusa, la Svizzera è una grande potenza economica, anche se maneggia abilmente la retorica della piccolezza. Naturalmente non può essere paragonata agli Stati Uniti, alla Cina, all’Unione europea o al Giappone, motivo per cui la sua strategia è sempre stata quella di mantenere buoni rapporti con i grandi del mondo cercando di trarre vantaggio dai loro conflitti. Così, le due guerre mondiali hanno permesso alla Confederazione di sviluppare la sua piazza bancaria e la sua industria di esportazione, mantenendo relazioni economiche redditizie sia con la Germania che con l’Inghilterra e gli Stati Uniti.
Dopo la seconda guerra mondiale, è riuscita a risolvere la sua controversia con gli Alleati, legata alle sue relazioni economiche con le potenze dell’Asse. Ciò aveva portato al blocco dei suoi averi negli Stati Uniti, al boicottaggio di alcune delle sue imprese, alla richiesta di restituzione integrale dell’oro rubato dai nazisti e acquisito dalla Svizzera, nonché dei fondi tedeschi depositati nelle sue banche. Alla fine, considerando l’inizio della guerra fredda e la sua adesione incondizionata al campo occidentale (Accordi di Washington, 1946), la Svizzera ha dovuto versare solo 250 milioni di franchi svizzeri, molto meno di quanto inizialmente richiesto.
Nel gennaio 1950, la Svizzera è stata uno dei primi paesi occidentali a riconoscere la Cina popolare, nella quale vedeva già, nonostante il regime comunista, una potenza economica del futuro. Nel 1960 ha scelto di integrarsi nell’AELS (insieme al Regno Unito, all’Austria e ai Paesi scandinavi), con strutture molto più flessibili che le garantivano la possibilità di perseguire una politica di indipendenza rispetto ai principali blocchi. Nel 1982 ha firmato un primo accordo bilaterale con la Repubblica Popolare Cinese. Negli anni ’90 ha rifiutato lo Spazio economico europeo (SEE) e la prospettiva di aderire all’UE per posizionarsi all’interfaccia tra l’UE, gli Stati Uniti e le economie emergenti dell’Asia, in particolare la Cina. Come scrive lo storico svizzero Sébastien Guex, «la grande borghesia bancaria e industriale elvetica è diventata virtuosa nell’arte di giocare sulle contraddizioni tra le grandi potenze imperialiste per avanzare i propri pedoni» (1).
Fine della luna di miele tra la Svizzera e gli Stati Uniti?
Dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, nel 1991, la Svizzera non ha più beneficiato del suo status di rappresentante discreto degli interessi degli Stati Uniti a Cuba (dal 1961) in Egitto (dal 1967 al 1974) – periodo durante il quale la Confederazione ha accolto a braccia aperte i rappresentanti dei Fratelli Musulmani, sostenuti da Washington per contrastare il nazionalismo arabo di Nasser –, in Iran (dal 1980 al 1981) o in Vietnam (dal 1975 all’inizio degli anni ’90). Era diventata una potenza economica rivale, in particolare nel settore bancario, ma anche in alcuni settori industriali.
Sotto la pressione degli Stati Uniti, a cui non dispiaceva mettere in ombra la piazza finanziaria svizzera, l’UBS e il Crédit Suisse non sono riusciti a sfuggire allo scandalo dei fondi ebraici in giacenza, tra il 1995 e il 1998, se non versando la somma di 1,25 miliardi di franchi svizzeri (2 miliardi di euro attuali) a un fondo di compensazione destinato a risarcire gli eredi dei titolari di questi conti, i lavoratori coatti che hanno avuto a che fare con aziende svizzere, i rifugiati respinti alla frontiera svizzera e i sopravvissuti alla Shoah danneggiati nei loro rapporti con la Svizzera. Questo caso ha costretto il Consiglio federale a nominare una commissione, guidata dallo storico Jean-François Bergier, per fare luce sui rapporti della Svizzera con la Germania nazista (2).
Nel 2008, accusata di aiutare i contribuenti statunitensi a nascondere beni non dichiarati, l’UBS ha dovuto pagare una multa di quasi 780 milioni di dollari agli Stati Uniti e fornire l’elenco di diverse migliaia di clienti sospettati di frode fiscale, costringendo la Svizzera ad abbandonare gradualmente il segreto bancario. A partire dal 2010, la legge statunitense ha obbligato le banche estere a dichiarare i beni detenuti da cittadini degli Stati Uniti — La Svizzera è stata costretta a firmare un accordo specifico per l’attuazione di queste disposizioni. Da allora, diverse banche svizzere sono state sanzionate o hanno dovuto negoziare accordi per evitare procedimenti penali.
Perché Washington prende di mira l’industria farmaceutica svizzera?
Fin dagli anni ’70, gli Stati Uniti denunciano l’industria farmaceutica svizzera come un concorrente sleale, in particolare Roche, Ciba-Geigy e Sandoz, che dominavano alcuni segmenti del mercato mondiale. Negli anni ’80, sotto la pressione di Pfizer e Merck, accusano la Svizzera di beneficiare di un sistema di brevetti più flessibile. Nel corso degli anni ’90, attraverso l’OMC e gli accordi TRIPS, impongono una maggiore protezione della proprietà intellettuale. Le tensioni con l’industria svizzera aumentano, accusata di falsare la concorrenza e di praticare prezzi troppo elevati negli Stati Uniti per finanziare la propria ricerca e sviluppo. Il colpo di Trafalgar (3) di Trump è il risultato di un lungo processo.
Nel settore farmaceutico come in quello finanziario, la Svizzera rappresenta un concorrente per il capitalismo americano. La Svizzera rappresenta il 5-7% del mercato mondiale dei farmaci e si colloca al 5° posto tra i principali esportatori mondiali. Concentra due sedi centrali di Big Pharma – Roche e Novartis – tra le più innovative al mondo. Ciascuno dei suoi dipendenti in Svizzera genera diverse centinaia di migliaia di franchi di valore aggiunto. Ha posizioni di quasi monopolio in alcuni trattamenti contro il cancro, le malattie degenerative o le malattie rare.

Nel Libro 3 de Il capitale, Marx scriveva: «I capitalisti si comportano come falsi fratelli quando sono in concorrenza tra loro [e] si accordano come massoni quando si tratta di sfruttare la classe operaia». Qui entrano in conflitto su un mercato mondiale dominato da grandi monopoli, sostenuti con forza dai loro Stati. Voltando le spalle alla «globalizzazione felice», dalla crisi sistemica del 2008, i grandi interessi economici, generalmente rappresentati dagli Stati, si scontrano sempre più direttamente sul mercato mondiale e sulla scena internazionale. Se oggi sono gli Stati Uniti a dettare le regole, è perché hanno perso la certezza di una «supremazia naturale».
Cedere su tutta la linea per salvare l’essenziale?
Per le aziende svizzere lo shock sembra particolarmente duro, dato che nel 2024 le loro esportazioni verso gli Stati Uniti rappresentavano il 18,6% del totale delle vendite all’estero. Secondo diversi istituti di previsione congiunturale, l’applicazione di queste misure potrebbe ridurre la crescita della Svizzera nel 2025 e nel 2026 dall’1% allo 0,7%, o addirittura allo 0,3%. Lo smacco è tanto più duro in quanto il Regno Unito (con tasse del 10%, con alcune restrizioni) e l’Unione europea (15%) hanno ottenuto condizioni più vantaggiose, anche se diverse questioni restano ancora da risolvere. È possibile che l’attacco contro la Svizzera sia rivolto anche alla Germania e all’UE, che gli Stati Uniti vogliono così avvertire di essere pronti a un’escalation.
I partiti di governo svizzeri sono ovviamente divisi sulla risposta da dare a questa sfida, alla quale devono reagire con urgenza. Ciò è tanto più vero in quanto Big Pharma è oggi il fiore all’occhiello dell’industria svizzera. Così, l’ex diplomatico Tomas Borer, che dirige una prestigiosa agenzia di consulenza, ha consigliato alle autorità di cedere su tutta la linea, in un’intervista concessa il 3 agosto alla molto conservatrice Neue Zürcher Zeitung. L’ex negoziatore nel dossier dei fondi ebraici in giacenza (1996-1998), allora ambasciatore in Germania, aveva dichiarato al quotidiano belga Le Soir l’11 luglio 1997, per giustificare l’atteggiamento del governo svizzero dell’epoca: «Eravamo solo un’isoletta nell’oceano tedesco». Oggi suggerisce di concedere a Donald Trump le compensazioni necessarie per proteggere gli interessi vitali dei grandi gruppi elvetici.
Suggerisce di aumentare gli investimenti svizzeri negli Stati Uniti – dove sono già attive 500 aziende svizzere che danno lavoro a 400’000 persone –, di acquistare gas liquefatto e di aumentare gli acquisti di armi americane, ma anche di abolire le protezioni tariffarie e non tariffarie (sanitarie) che tutelano l’agricoltura svizzera. Inoltre, raccomanda di inviare a Washington Guy Parmelin, ministro dell’UDC (il partito nazionalista di destra vicino ai repubblicani americani), «un vecchio bianco che parla con accento francese» (sic). Alcuni consiglieri raccomandavano addirittura di incontrare Trump su un campo da golf, dove è di umore migliore. Egli insiste sul fatto che gli Stati Uniti sono una superpotenza e che la Svizzera non deve cercare di opporsi frontalmente.
Immaginiamo per un attimo che Trump stia pensando di trasformare la Svizzera in uno Stato americano a tutti gli effetti, dopo il Canada e la Groenlandia. Potrebbe fungere da paradiso fiscale statunitense nel cuore dell’Europa, a portata di mano delle stazioni sciistiche già di proprietà di capitali americani, come Crans-Montana, e della sede del Forum economico mondiale di Davos, ma anche a poche ore di aereo dalle località balneari mediterranee che occupano i sogni del presidente: l’isola albanese di Sazan, nella quale suo genero investirà 1,4 miliardi di dollari per sviluppare un resort per super ricchi, o la Striscia di Gaza, di cui ha annunciato di voler prendere il controllo, lo scorso febbraio, per trasformarla nella futura «Riviera del Medio Oriente»? Dopotutto, il CEO di Novartis è già americano e una tale annessione eviterebbe a Big Pharma svizzera di trasferire un’ulteriore parte dei suoi investimenti negli Stati Uniti… Lo scorso 1° aprile, un comico americano non aveva forse immaginato uno scenario del genere?
Big Pharma svizzera ha più di una freccia al suo arco
Dazi doganali del 39% sul mercato americano potrebbero certamente ridurre in modo significativo i profitti delle Big Pharma svizzere. Tuttavia, negli ultimi cinque anni, Roche ha realizzato un utile netto medio annuo di 12,3 miliardi di franchi (i suoi dividendi sono cresciuti del 6,3%) e Novartis di 13,2 miliardi di franchi (i suoi dividendi sono cresciuti del 16,6%). Queste aziende e i loro azionisti dispongono quindi di un margine di manovra considerevole.
Inoltre, l’industria farmaceutica non ha aspettato l’ultimo colpo di scena di Trump per prendere alcune misure. Nel 2024, il terzo paese importatore di prodotti svizzeri (il primo per i prodotti farmaceutici, leggermente davanti agli Stati Uniti) è un piccolo Stato di 2 milioni di abitanti, membro dell’UE: la Slovenia. Nel 2002, la società svizzera Sandoz ha acquisito l’azienda Lek, specializzata in biosimilari (analoghi ai farmaci generici, perché meno costosi, ma per farmaci biologici utilizzati nel trattamento del diabete, delle malattie tumorali, degli anticorpi monoclonali, ecc.) Da allora, la Svizzera ne ha fatto la sua principale «filiale farmaceutica».
Per quanto riguarda i dazi doganali, è sufficiente che l’ultima fase della produzione di un farmaco sia effettuata in Slovenia perché esso sia conteggiato nelle esportazioni di questo paese e sia soggetto ai dazi doganali dell’UE negli Stati Uniti. Confidiamo che Sandoz e Novartis, già ben consolidate nel Paese, trasferiranno, se necessario, una parte più consistente della loro produzione in Slovenia. Il trasportatore svizzero Kuehne+Nagel ha già costruito un gigantesco magazzino di 38’000 m2, specializzato nello stoccaggio di farmaci (con controllo della temperatura), nelle vicinanze dell’aeroporto di Lubiana. Naturalmente, non basta esportare farmaci svizzeri in Slovenia per poi riesportarli negli Stati Uniti sotto l’egida dell’UE, ma questa deviazione può offrire, con un po’ di immaginazione,delle opportunità,
Far pagare il conto alla popolazione svizzera, a meno che…
Dal 2000, il franco svizzero si è rivalutato del 48% rispetto al dollaro e del 66% rispetto all’euro. Questo continuo aumento del franco sul mercato dei cambi è stato assorbito dai guadagni di produttività dell’industria di esportazione e da una politica salariale e di spesa pubblica estremamente restrittiva: in termini reali, i salari del 2024 non hanno ancora raggiunto quelli del 2021; il debito netto del Paese ammonta solo al 17,2% del PIL e il suo deficit di bilancio per l’esercizio 2024 rappresenta l’uno per mille della spesa totale! Tuttavia, in risposta alla sfida doganale di Trump, l’associazione padronale dell’industria meccanica, Swissmem, ha presentato alle autorità federali un elenco di 10 richieste. Chiede in particolare il blocco della spesa sociale e delle misure ambientali, la firma di nuovi accordi bilaterali, un’attenzione particolare agli Accordi bilaterali III con l’Unione europea (un progetto preliminare di accordo è attualmente in consultazione in Svizzera) e l’abolizione del controllo degli investimenti esteri (Lex China).
Se il destino della maggioranza della sua popolazione fosse la preoccupazione principale del governo svizzero, non cederebbe alle richieste di Trump che stanno portando sempre più chiaramente a una dittatura planetaria dei multimilionari. Al contrario, si sforzerebbe di sviluppare partnership industriali e commerciali con i paesi che cercano di resistergli. Lancierebbe un vasto programma di investimenti pubblici a favore dell’edilizia sociale, dei trasporti pubblici, dell’ambiente, della ricerca e della solidarietà internazionale. Denuncerebbe il genocidio in corso a Gaza e fornirebbe assistenza medica massiccia alle vittime dell’offensiva coloniale israeliana. In breve, si rifiutebbe di seguire la corsa sfrenata allo smantellamento sociale, ecologico e umanitario di questo mondo.
Tali misure risponderebbero a reali esigenze sociali ed ecologiche e a un senso di giustizia elementare. Consentirebbero inoltre di combattere un franco sempre più forte in un periodo di crescente protezionismo – il bassissimo tasso di indebitamento della Svizzera comporta automaticamente un continuo rafforzamento della sua moneta. La Confederazione avrebbe oggi ampiamente i mezzi per farlo, data la sua eccezionale situazione finanziaria. Tuttavia, solo una mobilitazione sociale su larga scala potrebbe imporre un tale cambiamento di rotta a una politica socioeconomica oggi dettata dagli interessi di una piccolissima minoranza. Parlarne è già un primo passo in questa direzione.
* Professore emerito di storia internazionale contemporanea all’Università di Losanna.
1.Sébastien Guex, « L’imperialismo svizzero o i segreti di una potenza invisibile », https://desexil.com/wp-content/uploads/2021/03/L-Imperialisme-suisse_GUEX.pdf
2. Il rapporto Eizenstat: testo integrale / [studio preliminare coordinato da Stuart E. Eizenstat], Losanna, ed. Nouveau Quotidien, 1997. Commissione indipendente di esperti Svizzera-Seconda guerra mondiale, La Svizzera, il nazionalsocialismo e la Seconda guerra mondiale: rapporto finale, Zurigo, ed. Pendo, 2002. Pietro Boschetti, Gli svizzeri e i nazisti: il rapporto Bergier per tutti, Ginevra, ed. Zoé, 2004.
3. L’espressione francese “Un coup de Trafalgar”, rimanda a un evento imprevisto dalle conseguenze spiacevoli, è nata all’inizio del XIX secolo e si riferisce alla omonima battaglia combattuta da Napoleone. (N.d.T.)
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