Cina. Verso un autunno di lotte operaie

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Negli ultimi trentatré giorni il settore manifatturiero cinese è stato attraversato da una sequenza inusuale di scioperi: ventidue mobilitazioni collettive in diversi settori, dai farmaceutici al tessile, dall’aerospazio ai semiconduttori. Non si tratta di episodi isolati, ma del sintomo di un malessere diffuso.

Da un lato la congiuntura economica negativa ha fatto crollare gli ordini e ridotto i profitti, dall’altro il varo di norme per la piena applicazione della “previdenza sociale obbligatoria” ha accresciuto i costi fissi delle imprese, spingendo molte di esse verso la chiusura. Per decenni infatti il governo aveva chiuso gli occhi sul mancato versamento dei contributi da parte delle aziende, consentendo così loro di gonfiare i profitti, ma il repentino cambiamento di politica, dovuto al fatto che i fondi pensionistici sono a corto di capitali, provoca sconquassi scaricando di nuovo il peso sui lavoratori – oltre alle aziende che chiudono, molte altre semplicemente reinquadrano i dipendenti come lavoratori in part time, per i quali non è obbligatorio il pagamento dei contributi sociali. Non a caso, il varo improvviso della nuova normativa in assenza di misure di accompagnamento e tutela, è diffusamente osteggiato dai lavoratori stessi. In questo contesto, gli operai hanno scelto lo sciopero come estrema risorsa per difendere salari e indennità.

Dietro i numeri citati si celano storie di fabbriche in difficoltà e di lavoratori abbandonati a se stessi. La Kaiyi Paper Packaging di Guangzhou, con oltre cento milioni di yuan di produzione annua, ha dichiarato improvvisamente bancarotta dopo che i nuovi contributi previdenziali avrebbero eroso ogni margine di profitto: centinaia di dipendenti si sono ritrovati senza paga da mesi e con il padrone scomparso. A Shanghai, la Guoli Automotive Leather ha offerto liquidazioni giudicate dagli stessi operai come “le più basse della città”, mentre in Hebei oltre mille addetti della Aerospace Zhenbang, legata a grandi programmi spaziali nazionali, sono scesi in piazza dopo mesi di stipendi arretrati. Questi casi mostrano come la crisi non risparmi né le piccole imprese private né le aziende strategiche.

I motivi delle proteste si ripetono con costanza: tagli unilaterali dei salari, licenziamenti senza indennizzo, trasferimenti forzati in altre province senza compensazioni. A Dongguan, oltre duemila lavoratori della Maorui Electronics hanno scioperato per il rifiuto dell’azienda di corrispondere compensazioni per il trasferimento della produzione; a Guilin gli operai della BYD hanno chiesto l’applicazione del salario minimo dei grandi centri urbani invece di quello più basso della contea, senza però ottenere risultati a causa dell’intervento delle autorità locali. Questi episodi rivelano una dinamica comune: le imprese scaricano i rischi della crisi sui dipendenti, comprimendo i costi del lavoro fino al limite della sopravvivenza.

La serie di scioperi mette in luce un altro dato: la crescente coscienza collettiva tra gli operai. Alla Shenzhen Advanced Semiconductor, circa mille dipendenti hanno ottenuto un risarcimento superiore agli standard grazie a quattro giorni consecutivi di proteste organizzate. In altri casi, come nelle industrie tessili o nell’abbigliamento, le mobilitazioni si sono protratte per giorni, segno di una coesione crescente e di una maggiore determinazione a rivendicare diritti sociali e contrattuali. Queste forme di azione non nascono come scelta ideologica, ma come risposta immediata a condizioni di vita diventate insostenibili.

Il quadro complessivo è quello di un settore industriale sotto tensione, in cui la tenuta occupazionale appare sempre più fragile. In trentatré giorni, nove delle ventidue fabbriche coinvolte hanno già dichiarato bancarotta e le altre si trovano in condizioni precarie. La politica di previdenza sociale obbligatoria, in teoria mirata ad ampliare le tutele, si traduce nella pratica in una pressione insostenibile per le piccole e medie imprese, che chiudono o scaricano i costi sui lavoratori. Per gli operai, invece, il risultato è l’esposizione al rischio di perdere non solo il salario ma anche ogni garanzia previdenziale, alimentando un circolo vizioso di precarietà e conflitto.

Questa ondata di proteste costituisce un campanello d’allarme per l’intero sistema produttivo cinese. Se da un lato evidenzia le contraddizioni tra politiche sociali e sostenibilità economica delle imprese, dall’altro mostra come il tessuto operaio non sia più disposto ad accettare passivamente sacrifici unilaterali. Lo sciopero, per molti, non è più visto come gesto estremo e isolato, ma come strumento legittimo e necessario per resistere alla compressione dei diritti. È prevedibile che queste mobilitazioni continueranno anche nei prossimi mesi, segnalando che la crisi della manifattura non è solo questione di ordini e costi, ma soprattutto di dignità e sopravvivenza quotidiana per milioni di lavoratori.

In più va aggiunto che il monitoraggio delle notizie e delle immagini diffuse sui social cinesi mostra un netto aumento, in questo periodo di agosto e settembre, delle proteste per il mancato pagamento degli stipendi, spesso arretrati di numerosi mesi. Non si tratta di scioperi organizzati, ma di azioni esasperate: lavoratori che salgono sui tetti delle fabbriche minacciando di gettarsi, in una disperata richiesta di attenzione. Mancano dati ufficiali, che il regime cinese tende a occultare, ma la frequenza di questi episodi richiama da vicino un fenomeno già visto altrove, come in Italia nel 2009 durante la crisi mondiale, a partire dalla lotta simbolica degli operai della Innse di Milano.

*dal blog dell’autore (4 settembre 2025)

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