La Svizzera è una democrazia apparentemente più estesa rispetto alle altre. Tuttavia, concede la cittadinanza in modo restrittivo: fino al 1971 ha escluso le donne e ancora oggi esclude quasi un terzo della popolazione attiva, mentre la naturalizzazione rimane una procedura difficile. La sua attuazione del federalismo conferisce inoltre un vantaggio decisivo ai cantoni più conservatori. Il Consiglio federale dispone infine di prerogative eccezionali in tempo di crisi o in virtù di leggi straordinarie. Inoltre, come le altre democrazie liberali, non tiene conto della fondamentale disparità tra il potere socioeconomico decisivo dei proprietari dei grandi mezzi di produzione, trasporto, distribuzione, credito e informazione e l’estrema dipendenza da esso della stragrande maggioranza della popolazione.
Nel 1945, il cantautore vodese Jean Villard Gilles canticchiava sarcasticamente: «Siamo preoccupati, siamo preoccupati!». Preoccupati per la fine della guerra, per la vicinanza dell’Armata Rossa, per i successi delle resistenze armate, dominate dai partiti comunisti in Francia e in Italia, per le rivendicazioni sociali e politiche della Liberazione, per la libertà ritrovata, ecc.
Un’inquietudine alla quale le autorità, con il sostegno del Partito socialista e dell’Unione sindacale svizzera (USS), risposero puntando su una vasta rete di istituzioni militarizzate per il riarmo morale e la difesa spirituale del Paese. Bisognerà quindi attendere il 1952 perché le Camere abroghino gli ultimi decreti relativi ai poteri speciali del Consiglio federale.
Una società sotto controllo
Nella seconda metà del XX° secolo, sotto il segno della guerra fredda, vengono adottate disposizioni speciali per la sorveglianza delle persone sospettate di attività sovversive (1948) e la repressione della complicità con «manovre straniere» (1951). Walter Kägi, specialista in diritto pubblico proveniente dall’estrema destra degli anni ’30, invoca una difesa totale del territorio, militare, economica, politica, poliziesca-penale, spirituale-culturale.
È in questo contesto che, fino agli anni ’80, il Ministero pubblico della Confederazione costituisce dossier di informazioni personali su circa 900’000 persone e organizzazioni. Lo «scandalo delle schedature» scoppierà nel novembre 1989.
Fino al 1998, un oratore straniero dovrà sempre ottenere un’autorizzazione dalla polizia per parlare in pubblico in Svizzera. Più recentemente, nel 2021, due leggi federali hanno introdotto nuove disposizioni eccezionali contro i «potenziali terroristi», compresi i minori, che potrebbero riguardare in particolare gli autori di atti di disobbedienza civile, suscitando la protesta delle organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani.
È anche sul suolo della Confederazione che, a partire dal 1947, ha preso forma la fusione tra conservatorismo politico e liberalismo economico attorno alla Société du Mont-Pèlerin. Secondo il politologo Dieter Plehwe, i suoi membri «erano profondamente diffidenti nei confronti di alcuni aspetti del capitalismo e della democrazia, in particolare l’urbanizzazione, le grandi imprese di produzione, i sindacati, i partiti di massa moderni, che minacciavano la loro concezione dell’ordine sociale tradizionale, guidato da élite ristrette» [1].
Per loro, l’idea di ridurre le disuguaglianze era in conflitto con le leggi fondamentali della natura, se non addirittura dell’evoluzione. All’indomani della seconda guerra mondiale, «solo la Svizzera forniva […] lo spazio intellettuale e istituzionale e il sostegno finanziario necessario» [2] per la creazione di un laboratorio di idee che andasse controcorrente rispetto al «compromesso socialdemocratico» europeo del dopoguerra.

Dalla censura all’autocensura
Nel 1957, il filosofo cattolico romando Philibert Secrétan traccia un bilancio al vetriolo della democrazia elvetica nella rivista Esprit. Secondo lui, sin dalla sua nascita, la Svizzera associa i concetti di «straniero e nemico». La critica «è vista molto rapidamente come un tradimento. Considerata una minaccia, si risponde con il silenzio». Il Paese ritiene che il dissenso metta a rischio la sua stessa esistenza. Da qui la «disciplina sorda, ma dura» che impone ai suoi cittadini. L’opposizione «rimane un fatto individuale, latente, quasi vergognoso». Il Partito socialista, che avrebbe potuto incarnarla, «ha finito per assecondare la maggioranza, riservando le sue argomentazioni progressiste alle campagne elettorali» [3].
Questo allineamento del PS riflette un pesante passivo democratico e sociale: né suffragio femminile (introdotto nel 1971) né riduzione dell’orario di lavoro (48 ore settimanali era allora la norma nell’industria) [4]. La povertà è considerata un «vizio»: dichi ha disertato il «fronte del lavoro». Ecco «un popolo (…) a cui bastano le sue libertà», che non capisce «che ci sono sempre nuove lotte da intraprendere»: vittima di un «senso di soffocamento», «per paura di inciampare, [esso] cammina curvo» [5].

Esiste infatti una profonda contraddizione tra i diritti politici formali garantiti ai cittadini (e dal 1971 anche alle cittadine) svizzeri e la pressione esercitata sugli individui e sui collettivi che rifiutano di partecipare alla gestione dell’azienda Svizzera S.A., che dovrebbe lavorare per il benessere generale. Questi ultimi sono definiti «unschweizerisch» (ovvero: fuori dal consenso, estranei alle «nostre» tradizioni e nemici dei «nostri» interessi).
Oggi questo termine è ripreso da quasi tutto il mondo politico, economico e mediatico. Ecco due esempi opposti: Carlo Schmid, deputato dell’UDC di Zurigo, imprenditore, ritiene che «le manifestazioni siano unschweizerisch e riuniscano persone pigre totalmente estranee alla nostra democrazia diretta» (Tweeter, 13 giugno 2020, nostra traduzione dal tedesco); da parte sua, il sindacato UNIA titola: «Prendere di mira i migranti è unschweizerisch» (29 agosto 2011). Su quasi tutti i fronti, ciò che è «politicamente accettabile» viene quindi misurato in base alla sua compatibilità con i «nostri» valori e gli interessi delle «nostre» imprese.
Una democrazia elitaria e limitata
L’elezione ogni quattro o cinque anni da parte di poco meno della metà dell’elettorato (quella percentuale che non si astiene), con un sistema proporzionale, della camera bassa del parlamento (Consiglio nazionale), controbilanciata da una camera alta, eletta con sistema maggioritario, che sovrarappresenta i settori più conservatori del paese, do forma ad una democrazia già molto imperfetta. Così, nel Consiglio degli Stati, la camera dei cantoni, i sei parlamentari di Uri, Glarona e Appenzello rappresentano venti volte meno elettori rispetto ai loro sei omologhi di Zurigo, Berna e Vaud.
Allo stesso modo, l’accettazione delle iniziative federali è soggetta alla doppia maggioranza dell’elettorato e dei Cantoni, il che può consentire a una minoranza dell’elettorato di respingerle. Tuttavia, anche la più piccola modifica di questo sistema istituzionale poco democratico, per non parlare della sua abolizione, sarebbe difficile da realizzare per via costituzionale, poiché dovrebbe essere approvata dalla doppia maggioranza dell’elettorato e dei Cantoni.
Occorre anche considerare la composizione della Camera bassa. Si denuncia giustamente la sottorappresentanza delle donne (38,5% dei suoi membri nel 2023), ma si presta meno attenzione alla sua composizione sociale, che rivela una forte prevalenza di imprenditori, liberi professionisti e professionisti della politica e una minoranza irrisoria di lavoratori dipendenti (meno dell’11% nel 2023, di cui il 5% proveniente dal settore pubblico e il 6% dal settore privato).

Fonte: vedi nota [6]
Infine, come in tutte le democrazie rappresentative, le Camere delegano la maggior parte delle loro prerogative a un governo, con un’amministrazione che vede i suoi quadri lavorare fianco a fianco con le principali lobby economiche, privando il Parlamento, per quanto parziale, di voce in capitolo su gran parte degli affari pubblici. Per citare solo un esempio recente, quando le Camere sono state convocate per discutere il salvataggio del Crédit Suisse, nell’aprile 2023, tutte le decisioni erano già state prese il mese precedente dal Consiglio federale, dalla Banca nazionale e dall’UBS, in virtù del diritto di eccezione. Il Consiglio nazionale si è opposto a maggioranza a questo pacchetto di misure che impegnava massicciamente le finanze pubbliche, con 102 voti contrari, 71 favorevoli e 2 astensioni, ma la sua decisione aveva ormai solo un valore simbolico.
Un razzismo di Stato
Ma non è tutto! Già nel 1931, con l’accordo del Partito socialista e dell’Unione sindacale, la Svizzera si è dotata di un diritto di eccezione nei confronti dei cittadini stranieri: la legge sul soggiorno e l’insediamento degli stranieri (LSEE), sostituita nel 2005 dalla legge sugli stranieri e l’integrazione (LEI), che non ne ha modificato tuttavia le caratteristiche fondamentali. Ciò consente di privare dei diritti politici e di indebolire socialmente quasi un terzo della popolazione attiva – contrariamente a un’opinione diffusa, anche un permesso di soggiorno (C) può essere revocato (cfr. art. 63, LSI) –.
La naturalizzazione è inoltre una procedura particolarmente lunga e difficile, specialmente per i cittadini provenienti da paesi extraeuropei e dell’Europa orientale. Per richiedere la naturalizzazione è necessario aver risieduto in Svizzera per 10 anni ed essere in possesso di un permesso di domicilio (C). Tuttavia, mentre una persona proveniente dall’Europa occidentale o dal Nord America può richiedere un permesso C dopo 5 anni di residenza, una persona proveniente dall’Europa orientale, dall’America Latina, dall’Africa, dall’Asia o dall’Oceania deve attendere 10 anni prima di poter presentare la domanda. Ciò ritarda notevolmente il processo di naturalizzazione, che si scontra anche con una forte presunzione di minore integrazione.
Sul piano ideologico, questa politica migratoria restrittiva, in particolare nei confronti dei “non bianchi” e delle persone di origine musulmana, è giustificata da considerazioni esplicitamente razziste: la lotta contro “l’eccessiva alterazione dell’identità nazionale” – negli anni ’30, le autorità temevano esplicitamente la “giudaizzazione” del paese. A partire dagli anni ’60, quello che va definito “razzismo di Stato” non solo ha rappresentato uno strumento essenziale di divisione della classe lavoratrice e della popolazione nel suo complesso, ma ha anche legittimato lo sviluppo di correnti politiche xenofobe e razziste molto influenti.
Possedere significa decidere
Come nelle altre democrazie liberali, il fatto che la maggior parte delle condizioni materiali indispensabili alla produzione e alla riproduzione della vita sociale (il suolo, gli edifici, le fabbriche, la proprietà intellettuale, le grandi reti di distribuzione, i media, ecc.) è detenuto da una piccolissima minoranza, l’unica abilitata a decidere le priorità di investimento e quindi la destinazione del nostro lavoro, sottrae alla sfera politica le decisioni che in realtà contano di più.
In altre parole, il capitalismo tende a spogliare la politica delle sue competenze privatizzando le decisioni più importanti, in particolare la scelta di ciò che la società deve produrre o meno, il contenuto stesso delle nostre attività, e persino la possibilità di trovare un lavoro retribuito. In breve, la democrazia rappresentativa e il monopolio privato dei grandi mezzi di produzione, trasporto, distribuzione, credito e informazione si alleano per limitare sempre più il controllo effettivo della maggioranza sul proprio destino.
Per questo motivo, la democrazia si ferma alle porte delle aziende. La protezione legale contro i licenziamenti (compresi quelli dei delegati sindacali) è praticamente inesistente: è richiesto solo il rispetto di un preavviso da 1 a 3 mesi, a seconda della durata del contratto, e le indennità in caso di licenziamento abusivo sono irrisorie. Il diritto del lavoro è estremamente limitato e i contratti collettivi coprono solo una minoranza dei lavoratori. Infine, i sindacati sono burocratizzati e praticamente assenti dai luoghi di lavoro. Anche l’esercito, che storicamente rappresenta il principale baluardo dell’ordine costituito in tempo di crisi, sfugge a qualsiasi controllo democratico.
Per l’azione e la democrazia diretta
Nella vita economica, l’alienazione dei lavoratori dipendenti è legata all’obbligo che hanno di vendere la loro forza lavoro ai proprietari delle principali condizioni materiali dell’attività economica, che decidono da soli le priorità di investimento e la finalità degli sforzi della stragrande maggioranza di noi. Nella vita politica, l’alienazione dell’elettorato risiede nella delega di potere che è costretto a concedere ogni quattro o cinque anni ai «responsabili» eletti – che lo rappresentano molto male (vedi sopra) – incaricati di votare le leggi e di amministrare lo Stato.
In questo campo, la democrazia semidiretta elvetica (iniziative e referendum) offre certamente un modesto sfogo ai cittadini titolari di diritti politici, anche se questi ultimi continuano ad essere privati, come tutto il mondo del lavoro, del diritto di decidere sulle questioni economiche che determinano la loro vita quotidiana e il futuro della società. Purtroppo, molto spesso lo sforzo concentrato sulla raccolta delle firme (100’000 per proporre una modifica costituzionale, 50’000 per richiedere la votazione di una legge approvata dal Parlamento) non consente la contemporanea costruzione di una mobilitazione sociale. Inoltre, la votazione dei testi presentati, in particolare delle proposte di legge (iniziative popolari), richiede spesso diversi anni.
Bisognerebbe quindi rifiutarne l’uso, così come smettere di partecipare alle elezioni dei parlamenti e dei magistrati? Certamente no. Certo, l’astensionismo è massiccio e riflette in modo confuso il sentimento popolare secondo cui «tanto fanno quello che vogliono!». Ma riflette anche un ripiegamento su se stessi e una fuga verso l’individualismo, compatibili con derive più autoritarie: è in quest’ottica che l’estrema destra si sforza di conquistare questi voti.
«Partire da un’esigenza assoluta…»
Abbandonare il campo della politica istituzionale equivarrebbe a cedere questo terreno, certamente distorto, ai partiti e ai movimenti che considerano, come gran parte della popolazione, che le elezioni rappresentino il momento chiave in cui siamo veramente legittimati ad esercitare la nostra «sovranità politica». Tuttavia, il loro utilizzo deve evitare di suscitare illusioni sulla loro capacità di modificare fondamentalmente l’ordine delle cose, che dipende soprattutto dall’auto-organizzazione, dalla mobilitazione e dall’azione diretta, nelle strade, nei quartieri e nei luoghi di lavoro, di quell’“immensa moltitudine che non conosce la propria forza”, come scriveva la militante della Comune di Parigi, Louise Michel, nel 1887.
Un’azione politica che mira alla trasformazione dell’ordine sociale richiede prima di tutto l’indicazione di un orizzonte. Come Alain Tanner faceva dire al suo eroe nel film Charles mort ou vif (1968): «Nulla cambierà mai finché non sarai in grado di vedere il presente con gli occhi del futuro. (…) Bisogna partire da un’esigenza assoluta, anche se a prima vista può sembrare lontana, e dirsi: riporto tutto a questa esigenza… e partendo da essa, guardo a ciò che è possibile».
La nostra esigenza assoluta? Restituire alla società il diritto di scegliere a cosa destinare il proprio lavoro (cosa vogliamo produrre e come), il che è incompatibile con la proprietà privata delle condizioni stesse di qualsiasi attività economica.
Da quel momento, la democrazia diretta ci permetterebbe di partecipare in tempo reale alle scelte che ci riguardano a livello locale e globale (con modalità di elezione e revoca), il che presuppone anche una massiccia riduzione dell’orario di lavoro dipendente e una condivisione dei compiti di cura e di educazione non socializzati, oggi assunti in maggioranza dalle donne. A quale scopo? Garantire a tutti i beni materiali essenziali nel rispetto dei grandi equilibri ecologici, il che implica produrre meno e condividere di più, aprendo la porta a un massiccio sviluppo dei servizi alla persona (istruzione, sanità, ecc.), nonché allo sviluppo di tutte le forme di creazione.
* Jean Batou è professore emerito di storia internazionale contemporanea all’Università di Losanna. Questo testo è una versione completata e aggiornata di un articolo apparso inizialmente sul giornale Moins !e ripubblicato in un’opera collettiva apparsa nel 2024, con il titolo « La Suisse: une démocratie très rentable » (vedi sotto).
[1] Dieter Plehwe, «Introduction», in: D. Plehwe & P. Mirowsky, a cura di, The Road From Mont Pèlerin, Cambridge, MA & Londra, Harvard U. P., 2015 (mia traduzione dall’inglese).
[2] Ibid.
[3] Philibert Secrétan, «La Suisse, démocratie témoin ? », Esprit, n° 254, ottobre 1957, pp. 363-379.
[4] Per una breve storia dell’orario di lavoro in Svizzera, cfr. l’articolo « Durée du travail » nel Dictionnaire historique de la Suisse.
[5] Secrétan, op. cit.
[6] Fonte della figura 1.
Condividi:
- Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Facebook
- Fai clic per inviare un link a un amico via e-mail (Si apre in una nuova finestra) E-mail
- Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) WhatsApp
- Fai clic per condividere su Bluesky (Si apre in una nuova finestra) Bluesky