Nell’ultimo anno, la Repubblica Popolare Cinese ha consolidato un modello autoritario sempre più pervasivo, fondato su leggi repressive, sorveglianza capillare e controllo sociale diffuso.
Il governo cinese, nel nome della “stabilità”, ha limitato in modo sistematico le libertà fondamentali, perseguitando difensori dei diritti umani, intellettuali e minoranze etniche e religiose. Dall’arresto di attivisti e artisti critici al soffocamento della cultura uigura e tibetana, fino alla compressione dello spazio civico a Hong Kong, Pechino ha rafforzato un sistema legale che criminalizza il dissenso e punisce la diversità. Sul piano internazionale, il coinvolgimento ambiguo della Cina in crisi regionali come quelle in Sudan e Myanmar ha sollevato ulteriori interrogativi sulla coerenza tra retorica diplomatica e condotta geopolitica. In un contesto segnato da crisi demografiche, tensioni economiche e crescente isolamento esterno, la leadership cinese sembra perseguire una strategia di controllo sempre più rigido, con gravi implicazioni per il futuro dell’Asia e dell’ordine internazionale.
Nel lessico politico della Cina contemporanea, la parola “stabilità” è divenuta una sorta di mantra ideologico e operativo. Dietro di essa si cela una strategia che, per garantire la sopravvivenza del Partito Comunista Cinese (PCC), non esita a reprimere, censurare e intimidire. Nel 2024-2025, in un contesto di rallentamento economico, invecchiamento demografico e crescenti tensioni internazionali, la leadership di Xi Jinping ha rafforzato la sua presa sul potere interno, inasprendo la già draconiana legislazione su sicurezza nazionale, espressione politica e libertà religiosa. L’apparato statale cinese si è dimostrato non solo impermeabile al dissenso, ma anche aggressivamente proattivo nel colpire ogni forma di deviazione dal dogma ideologico ufficiale, anche al di fuori dei propri confini.
Libertà sotto assedio: censura e persecuzione del dissenso
Negli ultimi dodici mesi, Pechino ha applicato leggi dalla formulazione vaga e arbitraria per reprimere giornalisti, artisti, registi e semplici cittadini critici. L’arresto del documentarista Chen Pinlin, reo di aver raccontato la protesta pacifica della “Rivoluzione della Carta Bianca”, o del noto artista Gao Zhen, accusato di insultare “eroi rivoluzionari”, dimostra come il sistema giudiziario sia divenuto uno strumento di vendetta politica.

Non si salva nemmeno chi vive fuori dai confini cinesi. Studenti, attivisti e dissidenti residenti in Europa o in Nord America sono stati sorvegliati, minacciati, talvolta perseguitati attraverso i propri familiari rimasti in patria. La logica del “controllo totale” si estende oltre la sfera fisica, toccando la dimensione digitale: dal divieto di “slang oscuri” su internet all’uso sistematico di spyware e ispezioni elettroniche anche sui dispositivi dei turisti stranieri.
Difensori dei diritti umani: tra silenzio forzato e carcere
Avvocati, attivisti per i diritti delle donne e del lavoro, giornalisti partecipativi: in Cina, la difesa dei diritti umani è oggi un crimine. Figure di spicco come Li Qiaochu, Sophia Huang Xueqin, Cheng Yuan e Wang Jianbing sono stati condannati per “sovversione”, spesso senza un giusto processo. Altre, come He Fangmei o Lu Siwei, sono state perseguitate anche attraverso i propri figli o sottoposte a rendimenti forzati dall’estero. La tortura e i maltrattamenti restano una pratica diffusa e sistemica, come testimoniato dai casi di Xu Zhiyong o della moglie di Yu Wensheng, Xu Yan. In un clima di impunità, perfino la morte sospetta della difensora Cao Shunli nel 2014 resta ancora oggi senza giustizia.
Repressione etnica e culturale: Xinjiang e Tibet come laboratori del controllo
Xinjiang: religione, identità e cultura sotto attacco
Nel nome della “lotta all’estremismo”, il governo ha continuato ad applicare leggi repressive per incarcerare indiscriminatamente uiguri, kazaki e altre minoranze musulmane. La cultura uigura è diventata oggetto di sistematica cancellazione: artisti, cantautori e studiosi come Ikram Nurmehmet e Yashar Shohret sono stati condannati a pene durissime, spesso senza prove reali.
Tibet: la “sinizzazione” forzata della spiritualità
Anche in Tibet la repressione è stata brutale. Monaci arrestati, scuole tibetane chiuse, manifestazioni represse con la forza. Il caso della centrale idroelettrica sul fiume Drichu, costruita senza consultazione delle comunità locali, evidenzia l’intreccio tra repressione politica, dislocamento forzato e danni ambientali. Il tentativo del governo di “sinizzare” il buddhismo tibetano è parte di una strategia più ampia per sradicare ogni forma di identità autonoma.
Hong Kong: la fine di un’eccezione
La transizione di Hong Kong da “regione amministrativa speciale” a territorio completamente allineato al potere centrale si è ormai compiuta. La nuova “Ordinanza sulla sicurezza nazionale” ha esteso i poteri repressivi già previsti dalla legge del 2020. Attivisti storici come Jimmy Lai sono stati processati o incarcerati, mentre espressioni simboliche come la canzone “Gloria a Hong Kong” o la veglia per Tiananmen sono state proibite, punite e cancellate dallo spazio pubblico. Il dissenso, anche nella sua forma più simbolica – come voltare le spalle all’inno nazionale o indossare una maschera – è oggi un crimine punibile con anni di carcere. I fondi delle ONG vengono confiscati, le organizzazioni religiose chiudono, e i diritti LGBTQI+ subiscono una regressione silenziosa ma costante.
Nonostante le dichiarazioni ufficiali di neutralità e rispetto della sovranità altrui, Pechino è stata coinvolta, direttamente o indirettamente, in conflitti armati come quello in Sudan o in Myanmar. La vendita di armamenti, la fornitura di carburante all’esercito birmano, e la retorica ambigua sulla questione di Taiwan indicano una strategia che mira alla stabilità interna anche a costo di instabilità esterna. Le tensioni con l’Occidente, aggravate dalle sanzioni e dalla concorrenza tecnologica, hanno spinto la Cina a rafforzare legami con attori autoritari e a intensificare la propria influenza in ambito internazionale attraverso strumenti di pressione economica e diplomatica.
Il 2024 ha visto la Cina raggiungere in anticipo gli obiettivi di capacità energetica eolica e solare, ma questo risultato è contraddetto dalla crescente dipendenza dal carbone. L’aria è tornata irrespirabile in molte città, i permessi per nuove centrali a carbone rimangono numerosi, e la costruzione di impianti all’estero prosegue, in contrasto con le promesse climatiche internazionali. La contraddizione tra l’immagine della Cina come leader nella transizione energetica e la realtà di un’economia ancora fortemente fossile riflette un approccio pragmatico e utilitaristico, dove l’ambiente è subordinato al controllo sociale e alla crescita economica.
La traiettoria della Cina non è più quella di un’autocrazia “ibrida” o “in transizione”: è ormai un modello autoritario consolidato, efficiente e proiettato all’esterno. La sua repressione interna, mascherata da lotta al terrorismo o tutela della sicurezza nazionale, si è estesa a ogni ambito della vita civile e culturale. Il silenzio forzato imposto ai cittadini cinesi, dentro e fuori il paese, rappresenta una delle più vaste campagne di repressione sistemica dell’epoca contemporanea.
*articolo apparso su osservatorio repressione il 31 agosto 2025
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