Siamo stati fortunati. Dopo il cessate il fuoco annunciato il 9 ottobre 2025, siamo tornati a casa nostra, nel nostro appartamento in rue Charles-de-Gaulle. Era ancora intatto. Nel nostro quartiere di Rimal, alcune torri sono state distrutte, ma non la nostra. Non si può dire lo stesso degli altri quartieri di Gaza.
A nord, il campo profughi di Shati e il quartiere di Sheikh Radwan sono stati completamente rasi al suolo. Da questo quartiere, oggi, si possono vedere le colline di Israele, mentre prima la vista era ostruita dalla densità degli edifici. Il quartiere di Tal al-Hawa, a sud, non esiste più. È come se un enorme terremoto avesse spazzato via tutto.
Molti mi chiedono com’è la nostra vita dopo il cessate il fuoco. La gente comincia a respirare? Rispondo sempre con lo stesso paragone: siamo come un ferito che si è appena svegliato dopo un intervento chirurgico. Si sta lentamente riprendendo dalle nebbie dell’anestesia. Non sente ancora dolore. Non sa cosa sia successo, non sa nulla della gravità della sua ferita. Riuscirà ad alzarsi in piedi? Riuscirà a camminare di nuovo?
Sabah rivive il dolore della morte di suo padre
Questa è la situazione in cui siamo. Eravamo presi in un vortice, in un tornado che girava senza sosta. Il vortice si è fermato bruscamente. Il tornado si è interrotto. Ma siamo ancora storditi. Siamo in piedi? È il pavimento che gira intorno a noi? O è la nostra testa che gira? Siamo usciti dalla guerra, ma la guerra non è uscita da noi. Basta che passi una macchina e ho l’impressione di sentire il sibilo di un missile che cade. Ho ancora nelle orecchie il ronzio dei droni, le sirene delle ambulanze, il rombo degli F-16, il fragore delle bombe.
Stiamo scoprendo quindi le nostre ferite. Sabah mi ha chiesto se il cimitero dove è sepolto suo padre è ancora intatto. Si trova nella zona rossa, vietata dall’Idf. Ha paura che sia stato profanato dagli israeliani, come molti altri cimiteri di Gaza. Se così fosse, vorrebbe seppellire suo padre in modo dignitoso. Sta rivivendo il dolore della morte del padre.
Molti gazawi vivono esperienze simili, cercando di ritrovare i propri cari morti. Come quell’uomo che ho incontrato che ha l’intera famiglia, uccisa in un bombardamento, ancora sotto le macerie. Tutto il mondo si preoccupa delle salme degli ostaggi israeliani, anch’essi sepolti dopo i bombardamenti. Israele sta impiegando mezzi ingenti per ritrovarli, l’esercito ha fatto entrare macchine edili, escavatori, soprattutto a Rafah e ad est della Striscia di Gaza. Ma gli israeliani hanno negato l’accesso alle macchine destinate a estrarre dalle rovine migliaia di corpi di palestinesi, ai quali i loro cari non possono offrire una sepoltura.
Deir Al-Balah, nuova capitale
Mi chiedono anche se sono ripresi gli aiuti umanitari. Certo, i camion con i generi alimentari stanno entrando di nuovo nella Striscia di Gaza. Ma mentre scrivo, la realtà è questa: gli israeliani lasciano entrare in media 300 camion al giorno. È decisamente insufficiente. Inoltre, sono camion che appartengono per lo più al settore privato, a commercianti palestinesi selezionati dall’Idf. Non trasportano “aiuti umanitari” gratuiti, ma merci che verranno vendute sui mercati a prezzi molto elevati. Negli ultimi mesi non si trovava nulla. Oggi si trova quasi tutto, ma sono poche le persone che possono permettersi di comprare, non solo a causa dei prezzi, ma anche perché non hanno più soldi. I prezzi stanno iniziando a scendere, ma è ancora tutto troppo caro. La popolazione di Gaza è sprofondata nella povertà. I bambini vedono mele e banane sui banchi del mercato, ma i loro genitori non possono comprargliele. Si vedono intere famiglie dividersi una sola mela. I generi alimentari sono ancora più rari e costosi nella città di Gaza. Ecco perché molti dei suoi abitanti che sono partiti verso sud non sono ancora tornati.
Hanno un altro motivo per ritardare il loro ritorno: sanno anche che avranno grandi difficoltà a trovare dall’acqua. A Gaza, la maggior parte dei pozzi e delle condutture è stata distrutta. In molte zone, l’acqua non arriva più. Non parlo dell’acqua potabile, che è praticamente scomparsa, ma di quella che si usa per tutto tranne che per bere.
In realtà, la “capitale” della Striscia di Gaza è stata spostata a Deir al-Balah, al centro dell’enclave. La città è diventata la capitale economica e quella delle Ong internazionali. Quasi tutte si sono insediate lì perché Deir al-Balah è la città meno colpita dalla guerra. Non ha subito incursioni di terra israeliane, e ora ospita la maggior parte dei depositi di generi alimentari, merci vendute nella zona a sud, dove si è spostata la maggior parte della popolazione e dove il trasporto è meno costoso. Tuttavia, mancano ancora le proteine. Due o tre volte è stato permesso l’ingresso di carne e pollame, ma è ancora molto insufficiente e i prezzi sono inaccessibili per la maggior parte delle persone: tra cinquanta e cento volte il prezzo normale.
Il ritorno dei generatori
Tutti i gazawi cucinano con la legna, ma ce n’è sempre meno. Si vede gente che cerca pezzi di legno tra le macerie per rivenderli. Un chilo viene venduto tra gli 8 e i 10 shekel (tra 2 e 2,50 euro), a seconda del tipo di legno, che si tratti di pezzi di mobili o altro. Si usa tutto ciò che può bruciare per alimentare i forni di argilla. Sabah ha spesso il viso annerito dal fumo. La prendo sempre in giro per la bellezza di questo mix tra il nero del fumo e il rosa delle sue guance. Purtroppo, Sabah soffre di asma e ogni volta che usa il forno deve usare l’inalatore.
L’energia elettrica è stata interrotta in tutta la Striscia di Gaza. Gli ospedali e le Ong dispongono però di generatori elettrici. Si stanno anche ricominciando a vedere i generatori che esistevano prima della guerra. Come già all’epoca, avevamo solo otto ore di corrente elettrica al giorno, perchè in ogni quartiere c’era un grande generatore acquistato da un imprenditore, che vendeva la corrente a 4 shekel (un euro) per kilowatt consumato. Oggi costa 40 shekel, quindi sono in pochi a poterselo permettere. Uno dei nostri vicini, nel palazzo, ha installato un generatore. Lo usiamo di tanto in tanto per pompare l’acqua. Per la prima volta da quando sono tornato nel gennaio 2025, apriamo il rubinetto e l’acqua scorre! Il flusso dell’acqua talvolta è intermittente, certo, ma è già qualcosa. Non sono più costretto a spezzarmi la schiena ogni giorno trasportando taniche per nove piani.
È possibile far funzionare anche l’ascensore per un quarto d’ora, due volte al giorno, la mattina e la sera. Purtroppo, visto che esco la mattina presto e torno a casa la sera tardi, l’ascensore non coincide con i miei orari. Ma è già un gran sollievo per gli abitanti del palazzo che hanno cose pesanti da portare su.
La vita quotidiana è scandita dalle dichiarazioni dei leader israeliani
Questa parvenza di normalità ci dà il tempo di capire l’entità di ciò che abbiamo vissuto in questi due anni di massacri. Stiamo cercando di prendere coscienza della catastrofe, della profondità delle nostre ferite e del nostro dolore. Parliamo del futuro e ci rendiamo conto che non esiste. Ho detto a Sabah che, a quattro anni, Walid ha l’età per andare all’asilo e che vorrei iscriverlo affinché inizi a capire cos’è la scuola. Cerco di insegnargli delle cose attraverso il gioco, ma non è il mio mestiere, non sono un insegnante. Vorrei tanto che Walid andasse a scuola, con la sua cartella, iniziando il suo percorso scolastico.
Ma mi sono subito reso conto che è impossibile. Non ci sono più scuole, né licei, né università. Per l’istruzione superiore, qualche università offre corsi online, ma è soprattutto per pagare in qualche modo i loro professori e il personale. Non vedo come, in una situazione simile, si possano formare scienziati, ingegneri, architetti, medici, dentisti solo con corsi su Internet. Alcune cose però stanno tornando alla normalità. Il governo di Hamas ha più o meno ripreso a lavorare. Il ministero dell’Interno ha riaperto gli uffici per lo stato civile, i certificati di nascita e di morte. I tribunali religiosi possono nuovamente registrare i matrimoni. I poliziotti sono di nuovo nelle strade. Stanno riportando l’ordine nei mercati, che erano disorganizzati. La vita sembra riprendere, ma stiamo scoprendo soprattutto la non-vita.
Non c’è più vita a Gaza, non ci sono più università, né infrastrutture, né asili. La maggior parte delle strade sono interrotte e la maggior parte dei quartieri sono irriconoscibili, ridotti a cumuli di macerie. Le relazioni sociali sono molto ridotte. Regna l’instabilità, l’incertezza, la paura. La vita quotidiana è scandita dalle dichiarazioni dei leader israeliani: ricomincerà la guerra, puniremo Gaza, divideremo la Striscia in due, oppure creeremo una Gaza Ovest, una Gaza Est e una Gaza Nord… Nella notte tra il 28 e il 29 ottobre, i raid in tutta la Striscia di Gaza hanno causato più di cento morti, poi l’esercito ha dichiarato che il cessate il fuoco era stato ripristinato. Per gli israeliani non si trattava di reagire alla morte di un soldato a Rafah, ma di mantenere i palestinesi nell’incertezza. Mostrare loro che tutto può succedere, in qualsiasi momento. La strategia di Netanyahu è quella di mantenere Gaza in uno stato di non-pace e non-guerra. Tutto questo mette a dura prova i nervi degli abitanti, che vivono in una angoscia permanente, e persegue l’obiettivo israeliano, che rimane lo stesso: espellere i gazawi. Spingerli alla “partenza volontaria”, espressione che permetterà di dire che la popolazione di Gaza non è stata espulsa.
È prevista l’apertura del valico di Rafah, al confine con l’Egitto. Se avvenisse, molti dei miei amici vorrebbero partire. Molti altri, invece, sono già partiti per l’Egitto e vogliono tornare, soprattutto quelli che hanno case che non sono state rase al suolo. Erano partiti all’inizio della guerra, credendo che sarebbe durata due o tre mesi. Dopo due anni, non hanno più soldi. Ma questo non scoraggia chi vuole partire. Pensano ai loro figli, sperano di poter offrire loro un’istruzione adeguata, una salute migliore e, soprattutto, la stabilità. Ma Trump, gli occidentali e gli israeliani continuano a brandire lo spauracchio di Hamas. Dicono di voler ricostruire Gaza senza Hamas. Eppure, sanno che Hamas è ovunque, che fa parte della popolazione. Pretendere di fare qualcosa senza Hamas significa dire che si farà qualcosa, ma senza la popolazione.
Questo è il loro progetto e lo stanno attuando: la “Riviera” di Trump, Gaza diventerà una sorta di entità internazionale, guidata da esperi internazionali, con qualche palestinese che continuerà a viverci. Invece di farlo con le bombe, lo stanno facendo in sordina con questa non-vita, questa instabilità, questa angoscia. Il paziente non è ancora del tutto cosciente al termine dell’operazione, non sa se potrà alzarsi subito, né quanto tempo gli ci vorrà per riprendersi. Non sa cosa abbia fatto esattamente il chirurgo, né la profondità delle sue ferite. Il suo presente è confuso, il suo futuro è sconosciuto e lui pensa al passato. (Mercoledì 29 ottobre 2025)
*Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, nell’ottobre 2023 ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza City insieme alla moglie Sabah, ai figli di lei e al loro figlio Walid, di tre anni, sotto la minaccia dell’esercito israeliano. Si sono rifugiati a Rafah, poi a Deir al-Balah e successivamente a Nuseirat. Dopo un nuovo trasferimento a seguito della rottura del cessate il fuoco da parte di Israele il 18 marzo 2025, Rami è tornato a casa con la sua famiglia il 9 ottobre 2025. Questo articolo è apparso su OrientXXI il 31 ottobre 2025
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