Washington e Pechino costruiscono la loro forza economica su investimenti colossali nell’high tech. Ma i profitti sono assenti e il debito cresce: una bolla pronta a scoppiare
Nel primo semestre di quest’anno, l’economia degli Stati Uniti ha registrato una crescita del prodotto interno lordo che ha fatto parlare di una tenuta e di un dinamismo superiori rispetto alla Cina. Sotto la superficie di questi numeri rassicuranti si nasconde tuttavia una realtà ben diversa. Gli investimenti in apparecchiature informatiche e software hanno generato il 92% della crescita economica statunitense durante tale periodo. Senza questa componente, concentrata principalmente nell’intelligenza artificiale, la crescita si sarebbe fermata a un misero 0,1% annualizzato. Parallelamente, le dieci maggiori società tecnologiche, guidate dalle cosiddette Magnifiche Sette dell’AI, rappresentano ormai il 40% del valore totale del mercato azionario del paese. L’economia americana dipende oggi in modo preponderante da una scommessa colossale sull’intelligenza artificiale, una corsa agli investimenti che ricorda le grandi bolle speculative del passato. Questa fragilità strutturale non riguarda solo Wall Street o la Silicon Valley, ma anche gli equilibri della competizione tecnologica con la Cina, rivelando come entrambe le superpotenze stiano costruendo la propria narrativa di forza economica su fondamenta più precarie di quanto ammettano pubblicamente.

L’architettura di una bolla da mille miliardi
Le aziende tecnologiche statunitensi hanno speso circa 400 miliardi di dollari nel 2025 per infrastrutture dedicate all’intelligenza artificiale. Le previsioni per i prossimi anni sono ancora più vertiginose. McKinsey stima che nel corso dei prossimi cinque anni le aziende di tutto il mondo investiranno 5,2 trilioni di dollari in chip, centri di calcolo ed energia per produrre intelligenza artificiale. Morgan Stanley prevede circa 3 trilioni di dollari tra il 2025 e il 2030 per la nuova capacità di calcolo dei centri dati. Il solo progetto Stargate, lanciato da OpenAI insieme a SoftBank, Oracle e investitori mediorientali, ha pianificato investimenti per 500 miliardi entro il 2029 per la costruzione di dieci giganteschi centri di calcolo in Texas e altrove. Questi numeri impressionanti vengono presentati come la prova della fiducia nel potenziale rivoluzionario della tecnologia, ma nascondono una domanda fondamentale che rimane senza risposta convincente. Dove sono i profitti che dovrebbero giustificare questa marea immane di capitale?
Nessuna delle aziende che sviluppano modelli di intelligenza artificiale generativa sta realizzando profitti. OpenAI, valutata 500 miliardi di dollari e considerata il campione del settore con 700 milioni di utenti per ChatGPT, ha perso 5 miliardi nel 2024 e si stima perderà tra i 14 e i 15 miliardi nel 2025. Microsoft, colosso tecnologico che genera decine di miliardi di utili ogni trimestre, prevede di incassare solo 3 miliardi dai servizi AI a fronte di investimenti pianificati per 80 miliardi quest’anno. Amazon spenderà 105 miliardi per ricavarne appena 5, mentre Google investirà 75 miliardi per guadagnarne 7,7. Meta, dopo il fallimento spettacolare del “metaverso”, ha puntato tutto sull’AI con una spesa di 72 miliardi che dovrebbe fruttare tra i 2 e i 3 miliardi. Il costo elevato dei centri di calcolo fa perdere denaro persino sugli abbonamenti a pagamento. L’unica società che sta davvero guadagnando in questa corsa è Nvidia, produttrice delle unità di elaborazione grafica che alimentano l’addestramento dei modelli AI, il cui valore di mercato ha appena raggiunto i 5 trilioni di dollari.

Il problema è che questa ricchezza apparente poggia su una struttura circolare che ricorda pericolosamente certi meccanismi finanziari pre-2008. OpenAI ha siglato quest’anno accordi per oltre un trilione di dollari con fornitori di capacità di calcolo come Nvidia, AMD, Oracle e Broadcom. Questi accordi prevedono spesso forme di finanziamento incrociato. Nvidia, per esempio, ha promesso di investire 100 miliardi in OpenAI nei prossimi dieci anni, denaro che OpenAI utilizzerà per acquistare le unità grafiche di Nvidia. AMD offrirà a OpenAI la possibilità di acquistare fino al 10% delle proprie azioni a un centesimo per titolo, consentendole poi di rivendere quelle quote sul mercato per finanziare l’acquisto dei processori AMD. Oracle, SoftBank e altri sono coinvolti in schemi simili. Questa macchina a moto perpetuo di capitale e tecnologia crea un ecosistema dove investitori, fornitori e clienti sono spesso gli stessi soggetti, amplificando così i rischi sistemici.
L’impatto fisico di questa corsa è tanto massiccio quanto insostenibile. I centri di calcolo per l’intelligenza artificiale consumano quantità spropositate di acqua per il raffreddamento e di elettricità per il funzionamento. Secondo le stime, il consumo elettrico dei centri dati a livello globale potrebbe più che raddoppiare tra il 2024 e il 2030, aggiungendo una domanda equivalente al fabbisogno attuale del Giappone. Nei soli Stati Uniti, la domanda di energia elettrica legata specificamente ai centri dati per l’intelligenza artificiale potrebbe crescere di oltre trenta volte entro il 2035, passando da 4 a 123 gigawatt. Per soddisfare questa fame insaziabile, le aziende tecnologiche stanno investendo nel nucleare e nei combustibili fossili, con Microsoft, Google, Amazon e Meta che stanno finanziando centrali a gas naturale dedicate ai loro centri di calcolo. La tutela dell’ambiente è stata messa da parte di fronte alla necessità di alimentare la macchina dell’AI.
Le istituzioni finanziarie internazionali hanno cominciato a lanciare segnali di allarme sempre più espliciti. Il Fondo Monetario Internazionale ha avvertito che le valutazioni attuali stanno raggiungendo i livelli visti durante l’entusiasmo per internet venticinque anni fa, poco prima dello scoppio della bolla delle dotcom, mentre analisti di Goldman Sachs, JPMorgan e Citi hanno pubblicato rapporti che mettono in guardia sui rischi di una correzione drastica. Il problema non è più confinato ai soli mercati azionari. Il ricorso crescente al debito per finanziare questi progetti coinvolge sempre più società con bilanci fragili che si rivolgono al credito privato, spostando l’esposizione dal capitale di rischio al sistema bancario. Se la bolla scoppiasse, le conseguenze non si limiterebbero alla distruzione di ricchezza finanziaria, ma potrebbero trascinare l’economia reale in una recessione, proprio come accadde con la crisi immobiliare del 2007-2009.
Il modello cinese tra pragmatismo e sovra-investimento
La Cina osserva questa corsa negli Usa con un misto di determinazione e cautela. Quando DeepSeek ha catturato l’attenzione mondiale all’inizio del 2025 presentando un modello con prestazioni paragonabili a ChatGPT, l’azienda cinese ha dichiarato di averlo sviluppato con costi significativamente inferiori e utilizzando processori meno avanzati di quelli monopolizzati dalle società americane. Al di là delle cifre comunicate, che sollevano interrogativi sulla loro attendibilità completa, l’episodio ha evidenziato una differenza di approccio. Mentre la Silicon Valley insegue l’intelligenza artificiale generale, una sorta di divinità tecnologica capace di superare l’intelligenza umana in ogni campo, la leadership cinese tende a parlare dell’AI come di uno strumento pratico per migliorare la produttività industriale e l’efficienza amministrativa. Questa diversità di filosofia non è solo retorica. I documenti strategici di Pechino enfatizzano l’integrazione dell’intelligenza artificiale nei settori economici esistenti piuttosto che la creazione di capacità cognitive astratte.
Ma la stessa Cina non è immune dalla febbre degli investimenti. Xi Jinping ha personalmente messo in guardia contro il rischio di sovra-investimento durante una conferenza di alto livello sul lavoro urbano, chiedendosi retoricamente se tutte le province del paese debbano davvero sviluppare industrie nelle stesse direzioni e citando esplicitamente intelligenza artificiale e veicoli elettrici. L’avvertimento non è casuale. I centri di calcolo cinesi stanno proliferando a ritmo accelerato e il consumo energetico legato all’AI è destinato a triplicarsi entro la fine del decennio secondo Goldman Sachs, superando la produzione elettrica totale della Germania del 2024. Nonostante l’espansione massiccia di energia solare ed eolica, la Cina sta contemporaneamente aumentando la propria capacità di generazione da carbone, evidenziando una tensione tra ambizioni tecnologiche e realtà energetiche. Il boom dei titoli azionari delle società cinesi legate all’intelligenza artificiale rispecchia quello americano, con valutazioni che salgono vertiginosamente sulla base di aspettative future più che di risultati concreti.
La Cina gode tuttavia di alcuni vantaggi strutturali che potrebbero rivelarsi decisivi nel lungo periodo. Il paese dispone di una base di ingegneri altamente qualificati, molti dei quali formati nelle migliori università cinesi come Tsinghua, Pechino e Zhejiang, e che si muovono fluidamente tra laboratori nella Silicon Valley e progetti in patria. La politica anti-immigrazione dell’amministrazione Trump e la xenofobia crescente del movimento MAGA potrebbero spingere più talenti a rientrare in Cina, portando competenze critiche. Sul fronte energetico, gli Stati Uniti si trovano alle prese con infrastrutture inadeguate e un dibattito politico che frena l’espansione delle rinnovabili. La Cina, invece, ha installato nella prima metà del 2025 ben 256 gigawatt di capacità solare, dodici volte i 21 gigawatt americani. Ha inoltre 32 reattori nucleari in costruzione contro nessuno negli Stati Uniti. Il paese dispone poi di 1,4 miliardi di abitanti con un’alta penetrazione digitale, generando volumi di dati che rappresentano un terreno ideale per addestrare sistemi di intelligenza artificiale applicati alla vita reale.

Il settore dei semiconduttori mette però a nudo la complessità e le vulnerabilità della situazione cinese. Le restrizioni americane sulle esportazioni di chip avanzati hanno spinto Pechino verso l’autosufficienza. Tuttavia, la realtà è più sfumata di quanto le dichiarazioni ufficiali lascino intendere. DeepSeek ha dovuto posticipare il lancio della sua nuova intelligenza artificiale, inizialmente previsto per maggio, a causa delle difficoltà nell’addestrarla con processori Huawei come richiesto dal governo. L’azienda aveva in realtà accumulato scorte consistenti di processori Nvidia di fascia alta prima dell’inasprimento delle restrizioni americane. Alibaba, da parte sua, ha potuto addestrare i propri modelli connettendosi a server installati fuori dal territorio cinese. Il congelamento degli asset della controllata cinese Nexperia da parte del governo olandese, giustificato con ragioni di sicurezza nazionale, ha ulteriormente evidenziato quanto la catena di approvvigionamento cinese dei semiconduttori rimanga vulnerabile alle pressioni geopolitiche. La finezza di incisione dei chip rimane il tallone d’Achille. Mentre Taiwan Semiconductor Manufacturing Company produce già chip a 3 nanometri e si prepara ai 2 nanometri, il gigante statale cinese SMIC è in grado di produrre chip solo fino ai 7 nanometri e dalle prestazioni più instabili rispetto alla concorrenza, un divario tecnologico che riflette le restrizioni occidentali sull’accesso alle macchine di litografia più avanzate prodotte dall’olandese ASML. Huawei starebbe tentando di costruire una propria linea di produzione basata su tecnologie emergenti per aggirare questi limiti, ma il successo è tutt’altro che garantito.

Due giganti con i piedi d’argilla
La competizione tecnologica tra Stati Uniti e Cina nell’intelligenza artificiale sta ridefinendo gli equilibri economici globali, ma non nel modo che le narrazioni ufficiali vorrebbero far credere. Washington presenta una crescita sostenuta alimentata dall’innovazione tecnologica, mentre Pechino viene descritta come impantanata in problemi strutturali e rallentamento economico. La realtà è che entrambe le economie mostrano fragilità profonde, semplicemente mascherate in modi diversi. Mentre gli Stati Uniti dipendono per la quasi totalità della propria crescita da investimenti in tecnologia dell’informazione che non generano profitti e potrebbero rivelarsi insostenibili, la Cina sta accumulando capacità produttiva in settori dove la domanda reale resta debole in un contesto dell’economia generale già enormemente oberato da sovracapacità, profitti in calo e lievitazione del debito. La bolla dell’intelligenza artificiale funziona come una droga economica per entrambe, permettendo di posticipare il confronto con debolezze strutturali più profonde che riguardano il debito, la produttività stagnante e le distorsioni della crescita guidata dagli investimenti.
Il paradosso più evidente riguarda proprio la natura degli investimenti. Washington critica abitualmente il capitalismo di stato cinese come distorsivo e inefficiente, ma la bolla americana dell’AI poggia su meccanismi di finanziamento circolare tra società tecnologiche che ricordano proprio quella pianificazione centralizzata tanto deprecata. Quando Nvidia investe 100 miliardi in OpenAI perché OpenAI compri processori Nvidia, oppure quando AMD offre azioni quasi gratuite a OpenAI in cambio di futuri acquisti massicci, siamo di fronte a forme di coordinamento industriale che differiscono dal modello cinese più per gli attori coinvolti che per la logica sottostante. Allo stesso modo, Pechino proclama un approccio pragmatico e orientato alle applicazioni concrete, ma alimenta comunque una corsa speculativa con valutazioni gonfiate e investimenti duplicati. La distinzione ideologica tra mercato libero e intervento statale diventa nebulosa quando entrambi i sistemi producono allocazioni di capitale massicce basate su aspettative gonfiate ad arte.
La metafora dei culti del cargo delle isole melanesiane offre una chiave di lettura efficace per comprendere le dinamiche in atto. Durante la seconda guerra mondiale, le popolazioni locali vedevano gli occidentali ricevere merci straordinarie trasportate da “uccelli di metallo” e tentavano di replicare il fenomeno costruendo effigi di aerei in bambù e issando bandiere americane, confondendo correlazione e causalità. Oggi aziende, governi e investitori moltiplicano gli annunci sull’intelligenza artificiale, investono somme colossali in infrastrutture e proclamano strategie AI nella speranza che arrivi la magia della produttività e dei profitti. Ma gli aerei potrebbero non atterrare mai, o almeno non con il carico prezioso promesso. Quando ciò diventerà evidente, la domanda non sarà chi ha vinto la gara tecnologica tra Washington e Pechino, ma quanto danno economico entrambe dovranno assorbire e se il sistema economico globale, già provato da decenni di crescita basata sul debito e sulla speculazione, possa reggere l’impatto di un’ennesima bolla di dimensioni senza precedenti.
*articolo apparso su substack.com il 31 ottobre 2025
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