Come la Cina nasconde il crollo immobiliare con la censura

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Mentre il mercato immobiliare cinese continua a crollare, Pechino censura influencer e dati indipendenti. La stretta su Vanke e migliaia di account chiusi rivelano un sistema al limite.

Il 5 dicembre scorso tre dei principali organi di potere cinesi hanno convocato simultaneamente i vertici delle maggiori piattaforme digitali del paese. La Commissione per l’Edilizia di Pechino, l’Ufficio del Cyberspace e la Polizia hanno riunito intorno allo stesso tavolo virtuale i rappresentanti dei social Douyin (la versione cinese di TikTok) e Xiaohongshu, nonché di piattaforme che aggregano contenuti immobiliari. L’incontro aveva un obiettivo ben definito, espresso con la consueta formula burocratica che in Cina prelude sempre a operazioni di massa: “rafforzare la governance” dell’ecosistema digitale e contrastare le informazioni che disturbano l’ordine del mercato immobiliare. Nei sette giorni successivi, le piattaforme hanno rimosso oltre 17.000 post, chiuso 2.300 account e livestream, cancellato più di 100 articoli. Tra gli account bannati figuravano nomi noti come “Beijing Apartments”, “Lao Li Talks Beijing Housing”, “Ruige Financial View”, influencer seguiti da centinaia di migliaia di persone che commentavano quotidianamente l’andamento del mercato nella capitale. Le loro colpe, elencate nel comunicato ufficiale, includevano “parlare negativamente del mercato immobiliare di Pechino”, “creare panico di mercato”, “vendere ansia”, “speculare sulle politiche” e “amplificare le fluttuazioni di mercato per generare transazioni”. Il comunicato finale ha chiarito che si tratta solo dell’inizio, promettendo un approccio di “tolleranza zero” permanente contro chi disturba l’ordine del settore.

L’operazione ha coinciso con un secondo livello di censura, apparentemente meno clamoroso ma forse più significativo sul piano simbolico. A metà novembre, China Real Estate Information Corp e China Index Academy, i due principali fornitori privati di dati sul mercato immobiliare cinese, hanno smesso improvvisamente di pubblicare i loro consueti rapporti mensili sulle vendite delle prime cento società immobiliari. La sospensione è arrivata dopo che i dati di ottobre avevano registrato un crollo del 42% delle vendite su base annua. Secondo quanto riportato da Bloomberg, le autorità hanno ordinato alle società di interrompere temporaneamente la diffusione pubblica delle statistiche. La mossa ha eliminato una delle poche finestre indipendenti attraverso cui osservatori esterni e investitori potevano monitorare lo stato reale del settore, lasciando spazio soltanto ai dati ufficiali dell’Ufficio Nazionale di Statistica, che presentano sistematicamente quadri meno allarmanti. Tutto ciò alimenta il sospetto che il governo stia costruendo un’infrastruttura permanente di controllo narrativo sul settore.

Il paradosso è stridente: mentre nei documenti destinati ai quadri del partito il governo ammette che il vecchio modello immobiliare è ormai insostenibile, chiunque esprima pubblicamente analisi critiche sul settore rischia di vedersi chiudere l’account o cancellare i contenuti. Il governo può ammettere che il modello precedente ha fallito, ma i cittadini comuni non possono discuterne liberamente. È una schizofrenia politica che rivela quanto Pechino si trovi in difficoltà. Quando un paese ricorre alla gestione della narrativa invece che alle soluzioni economiche concrete, sta implicitamente ammettendo di aver esaurito gli strumenti tradizionali. La censura, in altre parole, è diventata la principale politica economica del Partito Comunista Cinese per affrontare la crisi immobiliare e questo dice molto più di qualsiasi dato ufficiale su quanto sia grave la situazione reale.

La fine del “too big to fail”

La censura serve anche a nascondere quanto stiano peggiorando le cose per i protagonisti del settore che fino a poco tempo fa sembravano al riparo dal disastro. A fine novembre, China Vanke, ancora il sesto sviluppatore immobiliare più grande del paese, ha presentato una richiesta che ha gelato i mercati finanziari. L’azienda ha chiesto ai possessori di un’obbligazione da 2 miliardi di yuan in scadenza il 15 dicembre di approvare una proroga di dodici mesi sul rimborso del capitale, senza offrire alcun pagamento anticipato in contanti. Pochi giorni dopo è arrivata una seconda richiesta analoga per un titolo da 3,7 miliardi di yuan con scadenza a fine dicembre. La mossa ha sorpreso gli investitori perché Vanke non è un qualsiasi sviluppatore privato sull’orlo del collasso, come i tanti che hanno dichiarato default negli ultimi anni. Il suo azionista principale è Shenzhen Metro Group, l’operatore pubblico della metropolitana di Shenzhen, che possiede il 27% delle azioni e aveva già fornito liquidità per oltre 30 miliardi di yuan in tredici round di sostegno dal 2023. L’aspettativa diffusa era che il legame con lo stato avrebbe garantito a Vanke la capacità di onorare i propri debiti, distinguendola dai giganti privati come Evergrande e Country Garden che sono crollati senza particolari aiuti governativi. La richiesta di dilazione ha invece dimostrato che nemmeno i legami politici più solidi bastano più a salvare chi opera nel settore.

La votazione sui termini della proroga si è conclusa venerdì scorso con un esito negativo. Vanke ha ora cinque giorni lavorativi di periodo di grazia per trovare i 2 miliardi di yuan necessari a evitare il default tecnico. Se non ci riuscirà, scatteranno clausole di cross-default che potrebbero estendersi anche al debito offshore, innescando una cascata di conseguenze. L’azienda ha passività fruttifere per 362,93 miliardi di yuan, di cui 158,3 miliardi in scadenza entro un anno, circa il 44% del totale. Le vendite sono crollate del 43% nei primi dieci mesi del 2025, segnando il quinto anno consecutivo di contrazione e il declino più marcato dall’inizio della crisi nel 2021. Le agenzie di rating S&P e Moody’s hanno declassato l’azienda considerando l’eventuale proroga come una forma di “ristrutturazione distressed”, ovvero un default mascherato.

Le perdite accumulate da Vanke hanno già trascinato la società statale Shenzhen Metro a una perdita di 33,46 miliardi di yuan nel 2024, rendendo politicamente difficile continuare a pompare denaro pubblico in un’azienda che potrebbe non riprendersi mai. L’idea che alcuni operatori immobiliari fossero troppo grandi o troppo importanti per fallire è tramontata definitivamente. Da quando Evergrande è crollata nel 2021, sono oltre settanta le società di costruzione che hanno dichiarato default o hanno avuto bisogno di salvataggi statali. I primi cento costruttori del paese vendono oggi solo il 38% rispetto ai livelli del 2020 e la liquidità disponibile dei primi cinquanta si è dimezzata dal 2021 rendendo la maggior parte delle aziende strutturalmente incapaci di far fronte agli impegni immediati. Pechino ha deciso che è preferibile gestire una lunga recessione controllata, facendo assorbire parte dei rischi ai creditori privati, piuttosto che creare una nuova bolla attraverso salvataggi generalizzati che drenerebbero risorse pubbliche ormai scarse. Le finanze dei governi locali sono infatti sotto pressione estrema, con i ricavi dalle vendite di terreni crollati del 60% rispetto al picco del 2021. Non c’è più spazio per interventi illimitati, e anche le aziende con legami statali devono arrangiarsi.

I numeri reali di una crisi quinquennale

La pressione sui conti pubblici locali deriva dall’ampiezza sistemica del settore immobiliare nell’economia cinese, una dimensione che i dati ufficiali tendono a sottostimare considerevolmente. Il documento governativo del 16 dicembre cita il 13% come quota del prodotto interno lordo rappresentata da immobiliare e costruzioni, una cifra che si riferisce esclusivamente al valore aggiunto diretto dei due comparti. Il calcolo però ignora l’indotto industriale massiccio che ruota attorno all’edilizia, dalle acciaierie ai cementifici, dai produttori di vetro e alluminio fino all’arredamento e agli elettrodomestici, oltre ai servizi finanziari legati ai mutui ipotecari che costituiscono una porzione enorme del credito bancario. Gli analisti occidentali stimano che, includendo l’intera filiera, il peso reale arrivi al 25-30% del prodotto interno lordo. Questa discrepanza tra cifre ufficiali e calcoli più comprensivi non è però una peculiarità cinese. In Italia, per fare un paragone, i dati ISTAT attribuiscono alle costruzioni il 5,3% del PIL, ma quando si include il settore dei servizi immobiliari e l’indotto completo, secondo le stime di Scenari Immobiliari e CRESME, si arriva facilmente oltre il 25%. Il fenomeno mostra come le economie moderne, sia in Occidente che in Asia, abbiano costruito vulnerabilità sistemiche simili legate alla dipendenza dall’immobiliare, rendendo qualsiasi crisi del settore potenzialmente devastante per l’intero sistema economico.

La crisi cinese è iniziata nell’estate del 2020, quando il governo ha imposto la politica delle “tre linee rosse” che limitava drasticamente la capacità degli sviluppatori di indebitarsi. Le regole hanno provocato una stretta creditizia che ha mandato in difficoltà quasi immediatamente i gruppi più esposti, con Evergrande che ha dichiarato default nel dicembre 2021 e Country Garden che l’ha seguita nel 2023. Da allora il mercato non ha mai smesso di deteriorarsi e la discesa prosegue inarrestabile nonostante il governo abbia già tagliato i tassi sui mutui, eliminato gran parte delle restrizioni all’acquisto introdotte negli anni del boom e fornito fondi ai governi locali per comprare inventario invenduto. Nessuna delle misure adottate finora ha prodotto un’inversione di tendenza.

L’inventario rimasto invenduto costituisce uno dei nodi più difficili da sciogliere. Nelle città di terza fascia si sono accumulate giacenze pari a quaranta mesi di vendite ai ritmi attuali, un sovraccarico che rende impossibile un riassorbimento rapido anche se la domanda dovesse riprendersi. La sovrapproduzione degli anni passati ha lasciato milioni di metri quadrati vuoti, interi quartieri disabitati e progetti incompiuti abbandonati. Secondo le stime della banca britannica Barclays, il crollo dei valori immobiliari ha cancellato circa 18.000 miliardi di dollari di ricchezza delle famiglie cinesi, una cifra che supera l’intero prodotto interno lordo annuale del paese. Questa evaporazione di ricchezza si riflette direttamente sui comportamenti di consumo. Il tasso di risparmio delle famiglie cinesi è schizzato al 55% nel 2024, un livello mai visto dal 1952. Le vendite al dettaglio, indicatore chiave della spesa delle famiglie, sono cresciute appena dell’1,3% a novembre rispetto all’anno precedente, segnando il ritmo più lento dall’epoca delle chiusure per il Covid. La popolazione ha smesso di spendere perché teme per il futuro, e questa paralisi dei consumi alimenta a sua volta la deflazione che affligge l’economia cinese da due anni consecutivi, il periodo più lungo di calo generalizzato dei prezzi dagli anni Sessanta.

Il settore immobiliare, che per decenni è stato il principale motore della crescita economica cinese, si è trasformato nel suo maggiore freno. La domanda di materiali da costruzione come acciaio e cemento è crollata, trascinando verso il basso interi comparti industriali e colpendo i paesi esportatori di materie prime come Australia, Brasile e Cile che dipendevano fortemente dagli acquisti cinesi. La disoccupazione giovanile resta bloccata al 17%, un livello che indica quanto sia difficile per i nuovi entrati nel mercato del lavoro trovare opportunità in un’economia che rallenta. Gli investimenti in attività fisse, misurati nei primi undici mesi del 2025, sono crollati rispetto all’anno precedente, con il comparto immobiliare che ha registrato contrazioni ancora più marcate. Si è innescato insomma un circolo vizioso in cui il pessimismo diffuso induce le famiglie a rinviare gli acquisti nella speranza di prezzi ancora più bassi, spingendo i proprietari esistenti a mettere sul mercato le proprie abitazioni prima che il valore scenda ulteriormente, il che a sua volta accelera il calo dei prezzi e alimenta nuovo pessimismo. Le autorità sembrano riluttanti a varare programmi di stimolo massiccio come avevano fatto in passato, probabilmente per timore di creare un’altra bolla speculativa. Il risultato è che la crisi si trascina avanti senza una soluzione in vista, con la prospettiva che possa durare un altro decennio prima di raggiungere un nuovo equilibrio, proprio come è accaduto in Giappone dopo lo scoppio della bolla immobiliare all’inizio degli anni Novanta.

Il piano di “atterraggio controllato” e le sue contraddizioni

Di fronte a questa situazione, il governo ha pubblicato nei giorni scorsi un documento programmatico che delinea la strategia per il futuro del settore immobiliare, inserendolo nel quadro del quindicesimo piano quinquennale che partirà nel 2026. Il testo, apparso sul Quotidiano del Popolo, parla esplicitamente della necessità di “costruire un nuovo modello di sviluppo immobiliare” e ammette con insolita franchezza che il vecchio sistema basato su indebitamento elevato e rotazione rapida degli investimenti ha esaurito la sua funzione. Il documento propone tre riforme concrete che rivelano, più delle dichiarazioni d’intenti, la natura effettiva dei problemi che il governo cerca di affrontare. La prima riguarda l’introduzione del sistema della “banca principale”, secondo cui ogni progetto immobiliare dovrà avere una sola banca di riferimento presso cui depositare tutti i fondi relativi allo sviluppo, alla costruzione e alle vendite. La misura serve a impedire che i costruttori continuino a svuotare sistematicamente i conti dei progetti, spostando denaro dalle prevendite di un cantiere a un altro e lasciando edifici incompiuti senza liquidità per completarli. È una forma di controllo anti-frode che testimonia quanto sia stata finora diffusa la pratica di usare i fondi destinati a un progetto per finanziare operazioni completamente diverse, spesso in altre città o addirittura in altri settori economici.

La seconda riforma riguarda la graduale eliminazione del sistema di prevendita, sostituendolo con la vendita di case già completate. Per decenni la Cina ha permesso ai costruttori di vendere appartamenti non ancora costruiti, costringendo gli acquirenti a pagare in anticipo sulla base di rendering grafici e modelli in scala. Il sistema ha generato profitti enormi per le aziende, che potevano utilizzare i soldi delle prevendite come capitale per iniziare nuovi progetti prima ancora di aver finito quelli precedenti. Ma ha anche lasciato centinaia di migliaia di acquirenti con appartamenti mai consegnati quando le società di costruzione sono andate in crisi di liquidità. L’ammissione che questo meccanismo va superato costituisce probabilmente l’elemento più rilevante del documento, perché equivale a dire che il sistema fondamentale su cui si è basata la crescita immobiliare cinese degli ultimi trent’anni era intrinsecamente disfunzionale. Tuttavia, il testo specifica che nelle aree dove serve, la prevendita continuerà temporaneamente con maggiori controlli sui fondi, lasciando intendere che l’eliminazione completa richiederebbe uno shock troppo forte per il sistema e verrà quindi attuata con estrema gradualità. La terza riforma prevede la creazione di un fondo pubblico di manutenzione degli edifici, finanziato attraverso il bilancio fiscale e i ricavi dalle vendite di terreni statali. L’obiettivo dichiarato è garantire risorse per riparare gli immobili che mostrano problemi strutturali, ma il fatto che si renda necessario un fondo ad hoc rivela la consapevolezza che molti edifici costruiti negli ultimi vent’anni presentano difetti derivanti da corruzione, materiali scadenti e progetti fraudolenti. È sostanzialmente una misura preventiva per evitare scandali futuri legati a crolli o cedimenti strutturali.

Accanto a queste riforme, il documento promette un aumento dell’offerta di housing sociale per i lavoratori urbani e le famiglie in difficoltà. La formulazione può generare equivoci se letta con categorie occidentali, perché il sistema cinese di alloggi a prezzi calmierati funziona in modo radicalmente diverso dalle (ormai quasi inesistenti) case popolari europee. In Cina, l’housing sociale consiste principalmente nella vendita di appartamenti a prezzi scontati rispetto al mercato, ma sempre attraverso acquisto da parte degli assegnatari. Chi compra deve comunque disporre di capitale per l’anticipo e accendere un mutuo per il resto, il che significa che il programma si rivolge al ceto medio con redditi sufficienti, non alle persone genuinamente povere o precarie che non hanno accesso al credito bancario. Il meccanismo funziona essenzialmente come un salvataggio mascherato dei costruttori in difficoltà. Lo stato acquista appartamenti invenduti dalle aziende in crisi, fornendo loro liquidità immediata, e li rivende a prezzo ridotto a chi può permetterseli. In questo modo assorbe parte dell’inventario che soffoca i bilanci delle società di costruzione e sostiene artificialmente i prezzi, evitando che il mercato trovi da solo il suo livello di equilibrio, che sarebbe molto più basso. Si tratta quindi più di un sostegno al settore camuffato da politica sociale che di un reale intervento redistributivo. I veri beneficiari sono le aziende che riescono a liberarsi di giacenze altrimenti invendibili, mentre chi riceve gli alloggi ottiene uno sconto, ma deve comunque indebitarsi pesantemente.

Nonostante queste misure, le proiezioni degli analisti finanziari restano pessimiste. S&P Global Ratings prevede un’ulteriore contrazione delle vendite immobiliari del 6-7% nel 2026, sostenendo che la fiducia degli acquirenti rimarrà debole e che i prezzi continueranno a scendere. Alcuni osservatori prevedono una stabilizzazione già nel 2027, ma si tratta di una minoranza ottimista che fatica a spiegare quali fattori potrebbero innescare un’inversione di tendenza in assenza di stimoli massicci alla domanda. Il piano governativo, infatti, non contiene alcuna misura significativa per incentivare i consumi o aumentare il potere d’acquisto dei nuclei familiari. Mancano completamente le riforme strutturali più volte invocate dagli economisti e il risultato è quello di un approccio che si limita a controllo, regolamentazione e intervento statale, sperando che il tempo e la gestione amministrativa attenuino gradualmente gli squilibri senza provocare traumi sociali insostenibili.

Nel frattempo, il focus politico del governo si è spostato altrove. Il comunicato della quarta sessione plenaria del Comitato Centrale del Partito Comunista, tenutasi a ottobre, ha menzionato la questione immobiliare una sola volta, mentre ha ripetuto decine di volte i termini “innovazione” e “sicurezza”, segnalando che le priorità di Pechino si concentrano ormai su tecnologia, autosufficienza industriale e stabilità del regime. L’immobiliare viene gestito in modalità di contenimento del danno, non di rilancio. Mentre Vanke entra nel periodo di grazia che potrebbe portarla al default, sui social cinesi continua a regnare il silenzio forzato imposto dalle autorità. I prezzi crollano ma non si può dirlo, i costruttori falliscono ma non si può commentarlo. Se il governo non riesce a controllare il mercato, controlla almeno la narrativa che lo circonda. I fondamentali economici, però, restano immutati. La demografia negativa, la sovraproduzione cronica e il debito insostenibile non scompaiono perché si cancellano i post che ne parlano. E ogni giorno che passa, altri account vengono chiusi, altri contenuti rimossi, altre verità scomode censurate, in attesa del prossimo shock che quasi nessuno avrà previsto, semplicemente perché a quasi nessuno era permesso guardare.

*articolo apparso su andreaferrario1.substack.com il 17 dicembre 2025.

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