Ci mancava solo la discussione sul sistema elettorale…

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Forse era inevitabile, ma la discussione post-arrocco sta prendendo una piega poco promettente: quella sul sistema elettorale. A destra come a sinistra, alcuni iniziano a pensare che un altro sistema – per esempio quello maggioritario, adottato in diversi altri Cantoni – permetterebbe di fare chiarezza, portando a governi più coesi, produttivi e capaci di decidere.
A sinistra, si fantastica sull’idea che un passaggio all’opposizione servirebbe a ricaricare le batterie, rafforzarsi e poi tornare – più forti di prima – per imporre finalmente una “politica progressista”. Una prospettiva tanto suggestiva quanto poco realistica, se si considera che coloro che da decenni si definiscono la “sinistra” all’interno del PS si sono ben guardati (malgrado 12 anni di “bertolismo”) dal porre seriamente la questione nelle sedi opportune del partito.
Tutti bei discorsi, se non fosse che sono miseramente naufragati alla prova della realtà degli ultimi 30-40 anni – tanto a livello cantonale (senza dimenticare i governi comunali, alle prese con gli stessi problemi), quanto nazionale e internazionale. Significative, in tal senso, le parabole delle principali forze della “sinistra” europea: giunte al potere dopo lunghe “cure” di opposizione, hanno finito per adottare – spesso in modo persino più radicale – i programmi neoliberisti dei governi precedenti.
È l’orientamento politico che va modificato, la prospettiva con la quale ci si pone di fronte ai problemi, non tanto il sistema elettorale; che, sia detto di passata, è meglio che resti il più proporzionale possibile piuttosto che abbracci illusorie prospettive maggioritarie.
Detto, questo, a nostro avviso i problemi sono altri, e in particolare due.
Il primo riguarda la necessità di assumere un programma politico fondato su una rottura con il capitalismo, formulando proposte di cambiamento e rivendicazioni che rispecchino i bisogni e le preoccupazioni della maggioranza della popolazione, senza preoccuparsi troppo della loro compatibilità con l’attuale quadro politico e finanziario.
Il secondo è la consapevolezza della debolezza dell’attuale “fronte progressista”, da intendersi non tanto (o non solo) sul piano istituzionale ed elettorale, quanto soprattutto su quello sociale. Viviamo in un capitalismo reale in cui la ricchezza viene distribuita in maniera sempre più iniqua. Modificare questi rapporti di forza dovrebbe essere la prima preoccupazione della sinistra. Si tratta di un compito lungo, difficile, paziente e tutt’altro che garantito, che impone una revisione profonda delle priorità e del significato stesso dell’essere “a sinistra”.
Occorre prendere atto della sconfitta subita in questi decenni dal mondo del lavoro (basti pensare allo stato comatoso in cui versano le organizzazioni sindacali) e riflettere su come riattivare quella forza sociale fondamentale che è decisiva per qualsiasi reale prospettiva di cambiamento politico e sociale.
Un programma anticapitalista e una pratica quotidiana di contestazione dei rapporti di forza: sono questi i due pilastri su cui dovrebbe fondarsi una nuova discussione a sinistra.
È quel cambiamento di paradigma che abbiamo auspicato con la proposta, lanciata nelle scorse settimane, di “costruire un fronte unitario di opposizione sociale e politica”.
Ci sembra, oggi, l’unica strada percorribile per avviare una discussione seria sugli obiettivi e i metodi della lotta politica contro il regime economico e sociale in cui viviamo.

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