La guerra tra Israele e Iran dopo il «cessate il fuoco»

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Nell’analisi dell’intervento militare di Israele contro l’Iran, seguito da quello degli Stati Uniti, è necessario tenere conto di almeno tre punti essenziali:

  1. Questa guerra è una guerra per l’egemonia nella regione, volta a ristabilire l’influenza in declino dell’imperialismo occidentale;
  2. Questa guerra mira ad approfondire la strategia regionale di Israele;
  3. Questa guerra si inserisce nel quadro del completamento di una delle fasi del progetto di colonizzazione israeliana in Palestina.

Qualsiasi posizione sulla guerra iniziata da Israele contro l’Iran deve essere esaminata attraverso queste prospettive.

Dopo l’annuncio improvviso di Trump di un cessate il fuoco tra Iran e Israele – seguito da smentite iniziali e poi da conferme – l’immagine che sta gradualmente emergendo è quella della fine della guerra diretta di Israele contro l’Iran. I media del regime iraniano vendono ai loro sostenitori una narrazione di vittoria, mentre Trump presenta il cessate il fuoco come un risultato degno di un premio Nobel per la pace. Tuttavia, per i motivi che qui esporremo, riteniamo che questo cessate il fuoco sia, nella migliore delle ipotesi, solo una fragile e temporanea pausa in una guerra più ampia e prolungata.

Perché il cessate il fuoco non sarà duraturo?

In linea di principio, un cessate il fuoco – nel senso stretto del termine – è il risultato di una situazione di guerra particolare in cui entrambe le parti sono riuscite a dimostrare una forza equivalente (un equilibrio di forze), al punto che una valutazione realistica mostra che il proseguimento del conflitto porterebbe solo a una distruzione reciproca senza chiare prospettive di vittoria per nessuna delle due parti.

Tuttavia, una situazione del genere non si è verificata durante la guerra dei 12 giorni: Israele aveva chiaramente il vantaggio, mentre la Repubblica islamica mostrava evidenti debolezze nelle sue capacità di difesa, vulnerabilità sul piano dell’intelligence e di una risposta squilibrata. Ciò dimostra non solo che il cessate il fuoco è artificiale, ma anche che la probabilità di raggiungere un accordo convenzionale con gli Stati Uniti è più bassa che mai. La cessazione delle ostilità sembra possibile solo a prezzo di ampie concessioni in materia nucleare, balistica e regionale, accompagnate da garanzie giuridiche e politiche che impediscano qualsiasi futura rimessa in discussione di tali concessioni, in altre parole una resa ufficiale del regime di Teheran.

D’altra parte, la cessazione della guerra in questa fase non ha nemmeno una logica strategica per Israele, in quanto parte offensiva. Finora, anche il raggiungimento degli obiettivi minimi di questa guerra, ovvero la distruzione delle capacità nucleari della Repubblica islamica, rimane incerto [1], per non parlare dell’istituzione di garanzie politiche o militari per impedire qualsiasi ricostituzione futura di tali capacità.

Il cessate il fuoco può quindi, dal punto di vista israeliano, avere una ragione tattica, probabilmente quella di guadagnare tempo per colmare le proprie lacune in materia di capacità di difesa. Verso la fine del conflitto, la vulnerabilità dei sistemi di difesa israeliani era notevolmente aumentata. Inoltre, i cyberattacchi messi a punto dalla Repubblica islamica avevano disturbato i sistemi di allarme israeliani, che non erano ancora stati ripristinati nell’ultimo giorno di questa recente guerra. Il recente annuncio del governo tedesco relativo all’istituzione di un «cyberdome» in Israele si inserisce in questo tentativo di recupero tattico.

A ciò si aggiunge l’assenza di qualsiasi documento scritto, di condizioni esplicite o di impegni giuridici vincolanti tra le due parti, convalidati da terzi imparziali, il che è di per sé una prova della natura fragile e temporanea di questo presunto cessate il fuoco. Senza contare le numerose violazioni da parte di Israele dei suoi impegni scritti sin dalla sua creazione – dagli accordi di Oslo al cessate il fuoco sottoscritto lo scorso novembre con il Libano – che dimostrano chiaramente che nessun documento giuridico è realmente vincolante per Tel Aviv.

Certo, la contraddizione nel discorso, la confusione nel processo decisionale e l’incoerenza strategica sono i tratti distintivi di Trump, che li ha portati al parossismo nella maggior parte delle sue politiche (che si tratti di dazi doganali o della recente guerra militare). Ma il costo politico e mediatico che quest’ultimo conflitto gli ha imposto, così come le difficoltà che ha incontrato nel trarne un bilancio positivo, lo avrebbero spinto, secondo le sue stesse dichiarazioni, a considerare l’utilizzo dell’esito di questa guerra di 12 giorni come base di negoziazione con la Repubblica islamica, nell’ambito di un nuovo accordo (JCPOA 2). E se fallisse, potrebbe dare il via libera a Israele per avviare la seconda fase della guerra.

D’altra parte, come abbiamo accennato, entrano in gioco anche interessi economici che non rendono indesiderabile la ripresa del conflitto in Iran da parte degli Stati Uniti: l’aumento relativo del prezzo del petrolio durante questo breve periodo di guerra ha rilanciato lo sfruttamento del petrolio di scisto americano, spingendo molte banche petrolifere ad abbandonare il petrolio dell’OPEC, ormai troppo esposto ai rischi geopolitici, per stipulare contratti a termine sul petrolio di scisto.

Lo abbiamo visto chiaramente: non appena la Repubblica islamica ha minacciato di chiudere lo Stretto di Hormuz, Trump è tornato sulla scena con il suo famoso slogan elettorale «Drill, baby, drill», promettendo una nuova prosperità ai suoi principali sostenitori elettorali, le compagnie petrolifere americane. Questo aspetto è tanto più importante in quanto, appena poche settimane prima di questo conflitto, alcune di queste aziende erano sull’orlo della chiusura a causa del crollo dei prezzi del petrolio. Un aumento anche solo di 10-20 dollari al barile avrebbe potuto tirarle fuori da questa impasse e riportarle alla redditività.

In realtà, a causa dei costi più elevati di estrazione del petrolio di scisto leggero rispetto al petrolio pesante, si stima che al di sotto dei 50 dollari al barile queste aziende siano in crisi e che la loro produzione non sia più economicamente sostenibile. A 55 dollari riescono a malapena a rimanere a galla; a 60 dollari la loro produzione può stabilizzarsi; e a 65 dollari o più, la crescita e lo sviluppo dell’industria dello scisto negli Stati Uniti diventano possibili [2].

Qual è la funzione militare e politica del cessate il fuoco?

Mentre la versione ufficiale della Repubblica Islamica presenta il cessate il fuoco come il risultato della sua superiorità militare, in particolare attraverso l’attacco coordinato e simbolico contro la base americana di Al-Udeid in Qatar, e la versione ufficiale degli Stati Uniti lo attribuisce all’intervento decisivo di Washington nella «distruzione completa» delle capacità nucleari iraniane, la versione israeliana è completamente diversa.

Israele descrive questo cessate il fuoco come una misura tattica e transitoria [3], accompagnata da condizioni implicite, in particolare il controllo totale dello spazio aereo iraniano e la ripresa immediata degli attacchi in caso di qualsiasi tentativo di ricostruzione militare o nucleare.

Al di là di questa interpretazione instabile del cessate il fuoco da parte di Israele, non è da escludere, a nostro avviso, che questo «cessate il fuoco» sia esso stesso una tattica di guerra, volta ad allentare i protocolli di sicurezza intorno agli alti funzionari iraniani, facilitarne la localizzazione e condurre omicidi mirati di alto livello, in particolare contro Khamenei o altri alti funzionari militari, che Israele non sarebbe riuscito a eliminare durante il conflitto attivo.

Le dichiarazioni esplicite di funzionari israeliani che evocano l’opzione di un assassinio di Khamenei, così come l’ammissione di un funzionario iraniano su un tentativo fallito di Israele di uccidere i capi dei tre poteri [4], nonché il mantenimento dei protocolli di sicurezza di guerra da parte del regime per 4-5 giorni dopo il cessate il fuoco, sembrano rafforzare questa ipotesi da parte dei servizi di sicurezza iraniani. Questi elementi includono: il rinvio dei funerali dei comandanti del Corpo delle Guardie della Rivoluzione, il rifiuto di Khamenei di apparire in pubblico per giorni, la proroga del divieto di voli interni ed esterni e il proseguimento del telelavoro nelle amministrazioni.

Va notato che questa guerra diretta è la continuazione di un precedente conflitto indiretto che, intensificandosi nel corso dell’ultimo anno, aveva reso quasi quotidiani gli omicidi, gli attacchi informatici, i sabotaggi, gli incendi e le operazioni di molestia o per procura. Negli ultimi mesi prima del conflitto militare diretto, una guerra per procura aveva persino portato all’indebolimento e alla paralisi dei bracci regionali della Repubblica islamica.

Da questo punto di vista, l’attuale cessate il fuoco non costituisce un’interruzione del conflitto stesso, ma un semplice cambiamento nella forma e nei mezzi della guerra: un passaggio da attacchi aperti ad azioni segrete, indirette e per intermediari, come era il caso in precedenza.

Tuttavia, va notato che l’equazione del conflitto per procura non sarà più la stessa prima e dopo l’esperienza di questo recente attacco diretto. Ora, con un rapporto di forza nettamente favorevole a Israele, una nuova fase della guerra indiretta potrebbe essere caratterizzata da ripetute violazioni dello spazio aereo iraniano, omicidi mirati di personalità politiche e militari e, parallelamente, una propaganda del regime volta a minimizzare o negare questi attacchi, presentandoli come incidenti o catastrofi naturali.

Per la Repubblica islamica, questa tregua rappresenta un’occasione d’oro per intensificare la repressione, gli arresti di massa, le esecuzioni, nonché per regolare i conti con gli oppositori che prima non osava prendere di mira così apertamente per paura di scatenare rivolte popolari. Un contesto di guerra offre il terreno ideale per imporre un clima di repressione interna.

L’accusa, pronta all’uso, di spionaggio o collaborazione con uno Stato nemico non solo permette di legittimare e accelerare le ondate di arresti, torture, condanne pesanti o pene di morte; ma anche di rafforzare la repressione dei migranti afghani e delle minoranze nazionali.

Inoltre, in nome dello stato di guerra e del rafforzamento del bilancio militare, il regime aumenterà la pressione economica sulla classe lavoratrice e ridurrà ulteriormente le responsabilità dello Stato nella fornitura di beni essenziali e servizi pubblici.

Conclusione

L’attuale fragile cessate il fuoco è solo una pausa breve e temporanea. Segna un cambiamento nella forma del conflitto, da una guerra diretta a una guerra indiretta, nonché un’evoluzione dei mezzi di combattimento, dai missili e dagli aerei da caccia agli omicidi mirati e ai sabotaggi terrestri. Durante questo periodo, la popolazione non vedrà più missili colpire le zone urbane e arriverà a credere che la guerra sia finita, mentre in realtà il conflitto continua, in modo più subdolo, sotto le apparenze della vita quotidiana.

Per la Repubblica islamica, questo periodo rappresenta un’opportunità per intensificare la repressione interna e instaurare un clima di repressione politica. La diffusione dell’illusione di un cessate il fuoco duraturo o della speranza illusoria di una pace possibile – sia attraverso l’intervento delle istituzioni internazionali, delle potenze capitaliste occidentali o orientali, sia attraverso concessioni della Repubblica islamica nei negoziati con gli Stati Uniti – serve solo a un obiettivo: distogliere l’attenzione dall’analisi delle cause strutturali e sistemiche di questa guerra, ovvero i tratti dell’economia politica mondiale che la genera, e scartare l’unica via d’uscita reale: una via rivoluzionaria.

In momenti come questo, alcune tendenze opportuniste e riformiste della sinistra cercano di ridurre questo conflitto a un’opposizione manichea tra «il bene» e «il male». Cercano di delegittimare qualsiasi orientamento che si opponga sia alle aggressioni imperialiste che al regime al potere.

Eppure, in questi momenti critici, basta camminare per le strade di Teheran per essere sottoposti a perquisizioni casuali e, al minimo segno di dissenso, i propri effetti personali possono essere utilizzati per costruire un dossier giudiziario e giustificare l’arresto.

Di fronte a ciò, l’affermazione dell’indipendenza di classe non è una posizione idealistica o teorica, ma una necessità pratica. Di seguito chiameremo tale posizione «terzo fronte».

I primi dieci giorni di guerra hanno portato la maggior parte delle persone che vedevano in Israele un possibile liberatore a mettere in discussione questa illusione.

I dieci giorni successivi hanno offerto l’occasione per dissipare le illusioni di alcune correnti politiche, in particolare della sinistra moderata, che negli ultimi giorni hanno quasi raggiunto le file delle forze del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione in nome della difesa della madrepatria in pericolo!

Queste correnti continuano ad attaccare i sostenitori di un «terzo fronte» contrario sia agli interventi esterni che al regime oppressivo in atto.

Questi gruppi difendono la guerra di classe solo in tempo di pace, mentre in tempo di guerra predicano la pace tra le classi! Tuttavia, dimenticano ingenuamente che sono loro ad accontentarsi della Repubblica islamica, e non il contrario!

In realtà, con il suo arsenale ben fornito di missili, droni, forze proxy, servizi segreti, tre forze armate e una potente macchina propagandistica, perché mai la Repubblica islamica avrebbe bisogno di piccoli gruppi di propagandisti «di sinistra» se non per usarli come semplici portavoce e soldati innocui?

È interessante notare che queste tendenze politiche attribuiscono un’importanza esagerata all’«attuale situazione di guerra», come se la storia non avesse mai conosciuto guerre mondiali e come se il movimento rivoluzionario socialista internazionale non avesse alcuna tradizione, riflessione, teoria o formula chiara per una risposta indipendente di classe alla questione della guerra!

Questa tendenza definisce il terzo fronte una «posizione di carta», mentre in realtà, affinché le sue posizioni non rimangano puramente teoriche, dovrebbe accompagnare attivamente il potere repressivo, partecipare alle manifestazioni governative, aiutare a identificare le persone sospette, denunciare i sostenitori del «terzo fronte» come «agenti di Israele» e frenare qualsiasi sciopero o movimento operaio in nome del «rafforzamento del nemico». Ciò dimostra almeno che in questa posizione reazionaria rimane persistente!

Un’altra corrente di destra all’interno della cosiddetta sinistra, riguardo alla recente guerra, è quella che, con il pretesto di sostenere il «Terzo Fronte» (opposizione ai due schieramenti in guerra), ha completamente svuotato questo concetto del suo contenuto di classe, proponendo invece come soluzione l’intervento di organismi che garantiscono l’ordine esistente, come l’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ecc. Tuttavia, la guerra stessa è nata dalle condizioni esistenti, e il ruolo di queste istituzioni è proprio quello di giustificarla.

La storia ha dimostrato che la guerra tra Stati capitalisti scoppia indipendentemente dalla volontà e dalle forze dei rivoluzionari. Di conseguenza, il dovere dei rivoluzionari è quello di adattare le tattiche di lotta di classe alle condizioni mutevoli, e non di rifiutare completamente la strategia rivoluzionaria. Perché la rivoluzione non avviene mai in laboratorio o in condizioni isolate, e qualsiasi prospettiva che cerchi di gerarchizzare o dare priorità ai fronti di lotta finirà per schierarsi dalla parte di uno di essi.

Questa tregua effimera, così come è un’opportunità per ricaricare le batterie per l’aggressore esterno e il campo repressivo interno, deve anche essere un’occasione per consolidarsi e riprendere l’iniziativa per i lavoratori, le donne, gli studenti e i popoli in lotta.

Si tratta di un’opportunità:

  • di preparazione teorica, di campagne e di lavoro di sensibilizzazione (spiegare gli interessi delle parti in conflitto e contribuire a rafforzare il conflitto di classe attraverso il rafforzamento del «terzo fronte»);
  • di sostituzione dei mezzi di comunicazione sicuri e criptati (in un contesto di interruzione di Internet);
  • di apprendimento delle prime cure mediche e preparativi logistici (medicinali, cibo, denaro contante e, in alcune zone e a condizione di un accesso sicuro, armi);
  • di ricostruzione dei gruppi dispersi a seguito della repressione post-rivolta del 2022;
  • di intervento socialista nei rari sindacati e collettivi indipendenti attivi e rafforzamento dei legami con coloro che si riconoscono nella lotta degli sfruttati e degli oppressi in vista del «terzo fronte» (anche se, fortunatamente, la maggior parte delle dichiarazioni, in particolare quelle dei sindacati, abbia espresso opposizione ai due schieramenti belligeranti, le incomprensioni non classiste sulle ragioni del conflitto e l’illusione del potere effettivo di istituzioni come l’ONU – piuttosto che del potere reale della classe lavoratrice stessa – rimangono ampiamente diffuse);
  • di altre iniziative di questo tipo.

[1] – Un rapporto trapelato dal Pentagono sui risultati dell’attacco americano contro Fordow mette in discussione l’efficacia della distruzione di questi impianti nucleari: https://edition.cnn.com/2025/06/24/politics/intel-assessment-us-strikes-iran-nuclear-sites. Inoltre, la localizzazione di 400 chilogrammi di uranio arricchito al 60% rimane incerta, mentre le agenzie di intelligence statunitensi e israeliane hanno avanzato ipotesi sull’esistenza di altri siti nucleari nascosti nella Repubblica islamica. Ad esempio, si dice che a pochi minuti dagli impianti di Natanz esista un altro complesso sotterraneo situato sotto il monte “Kolang Gazla”, a una profondità maggiore rispetto a Fordow. L’accesso a questo complesso rappresenterebbe una sfida più impegnativa e potrebbe servire come deposito di uranio arricchito di emergenza o di attrezzature per l’assemblaggio di centrifughe. Negli ultimi anni, la costruzione e lo sviluppo di questo complesso sono stati monitorati e documentati negli Stati Uniti dall’Institute for Science and International Security (ISIS): https://isis-online.org/uploads/isis-reports/documents/New_Security_Perimeter_Around_Natanz_Mountain_Area_Final_April_23_2025.pdf

[2] https://www.bloomberg.com/opinion/articles/2025-06-24/israel-iran-conflict-ceasefire-or-not-the-world-is-swimming-in-oil

[3] Ministro della Difesa israeliano, Israel Katz: «Questo cessate il fuoco non è la fine del gioco; è una pausa tattica. Se l’Iran pensa che questa pausa gli consentirà di riarmarsi, si sbaglia di grosso». — Citazione dal New York Times, 24 giugno 2025.
Eyal Zamir, Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano: «Siamo alla fine di una fase importante, ma la lotta contro l’Iran non è finita.»
Benjamin Netanyahu, Primo Ministro di Israele: «Abbiamo accettato questa misura temporanea perché gli obiettivi di sicurezza iniziali di Israele sono stati raggiunti. Ma non fatevi illusioni: non è pace, è solo una pausa» — Citazione dal Wall Street Journal, 23 giugno 2025.

[4] Tentativo di assassinio di alti funzionari del regime iraniano da parte di Israele: il 26 Khordad (corrispondente alla metà di giugno 2025), questo tentativo è stato inizialmente menzionato da Vahid Jalili, vicepresidente della televisione di Stato iraniana (IRIB), poi ripreso da Pezechkian, presidente della Repubblica Islamica.

*articolo apparso su alencontre.org il 22 luglio 2025

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