Il Ministero della Sicurezza di Stato cinese controlla 800.000 agenti e penetra economia e infrastrutture. Ma sorvegliare l’élite stessa genera contraddizioni insostenibili
La riunione del Politburo del giugno 2025 è passata quasi inosservata nei resoconti internazionali, ma ha segnato una frattura sotterranea nel sistema politico cinese. Il comunicato ufficiale ha omesso due formule che da anni accompagnano ogni documento del Partito Comunista, cioè quella di Xi Jinping come “nucleo” della direzione e i riferimenti espliciti al “pensiero di Xi Jinping”. Al loro posto è comparso un linguaggio inedito, quasi burocratico nella sua freddezza. Il testo ha introdotto nuove “regolamentazioni sul lavoro degli organi decisionali, deliberativi e di coordinazione del Comitato centrale”. Più significativa ancora è una locuzione che suona come un monito a Xi: la necessità di “evitare di sostituirsi ad altri od oltrepassare i confini”. In un sistema dove ogni virgola viene ponderata, l’assenza parla quanto la presenza.
Queste omissioni rituali si inseriscono in un modello più ampio di scomparse dalla scena che nei mesi precedenti avevano alimentato congetture di ogni tipo. A luglio Xi era diventato il primo leader cinese a non prendere parte al vertice dei BRICS, sostituito dal premier Li Qiang. Durante le conferenze militari di settembre e ottobre dell’anno precedente, era stato il generale Zhang Youxia a presiedere, senza traccia del comandante supremo Xi. Nelle cruciali negoziazioni commerciali con gli Stati Uniti a Ginevra e Londra, il vicepremier He Lifeng aveva condotto i colloqui senza mai menzionare Xi o la sua ideologia. Persino il Quotidiano del Popolo, tempio della propaganda di stato, aveva pubblicato il 10 giugno un articolo in prima pagina sulle nuove politiche sociali omettendo ogni citazione del leader. Per un sistema costruito sul culto della personalità, questi vuoti avevano assunto il peso di dichiarazioni politiche.
Gli osservatori si dividono su interpretazioni diametralmente opposte. Alcuni vedono uno Xi indebolito, costretto a cedere terreno alle fazioni che ha represso per anni: i veterani della Lega della Gioventù Comunista legati all’ex presidente Hu Jintao, i “principini” (figli di alti funzionari che hanno convertito le connessioni politiche familiari in fortune economiche) con interessi economici all’estero, i vertici militari che conservano reti di potere autonome. Altri leggono invece una delega strategica, il calcolo di un leader che mantiene il controllo attraverso altri strumenti mentre apparentemente si ritrae. La chiave per decifrare l’enigma sta in ciò che accade contemporaneamente alle omissioni: mentre Xi sembra allentare la presa nei campi tradizionali dell’economia e della diplomazia, l’apparato di sicurezza dello stato espande in modo massiccio i propri poteri. Chen Yixin, ministro della Sicurezza di Stato, assume ruoli senza precedenti nella storia della Repubblica Popolare. Chen Wenqing, capo della Commissione per gli affari politici e legali, si avventura in territori economici tradizionalmente estranei agli uomini della sicurezza.
La domanda che agita i circoli del potere cinese non riguarda tanto il declino di Xi, quanto la natura della sua trasformazione. L’estate del 2023 aveva visto circolare per la prima volta voci concrete di dissenso al vertice. Secondo quanto riportato dalla testata giapponese Nikkei, durante il ritiro estivo di Beidaihe tre anziani del Partito avrebbero criticato apertamente Xi: Chi Haotian, ex ministro della Difesa, Zeng Qinghong, ex vicepresidente e kingmaker che aveva contribuito all’ascesa dello stesso Xi, e Zhang Dejiang, ex presidente del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo. Se confermato, l’episodio segnerebbe la prima crepa pubblica nel monolite del consenso costruito in oltre un decennio. Ma la vera crisi che Xi affronta è strutturale, radicata in una contraddizione che ha alimentato lui stesso. Ha concentrato più potere di qualsiasi leader dai tempi di Mao, abolendo i limiti di mandato e svuotando gli organi collegiali. Nel farlo, ha distrutto i meccanismi informali di successione che garantivano stabilità al regime. Ora che ha settantadue anni e la sua salute genera speculazioni ricorrenti, il sistema che ha plasmato a sua immagine non ha risposta alla domanda elementare del cosa accadrà dopo di lui.
Il guardiano del regime
Il paradosso più stridente della Cina contemporanea è incarnato dalla figura di Chen Yixin. L’uomo che guida l’agenzia più segreta del paese è diventato una presenza pubblica, quasi mediatica. Il Ministero della Sicurezza di Stato (MSS), che per decenni ha operato nell’ombra totale, oggi ha un account WeChat con milioni di follower in cui pubblica video educativi sulla minaccia dello spionaggio straniero e fumetti sui rischi per la sicurezza nazionale. Chen stesso appare regolarmente in conferenze, tiene discorsi pubblici, guida delegazioni in Asia sudorientale. Questa trasformazione radicale rivela una metamorfosi più profonda: il MSS non è più semplicemente un’agenzia di controspionaggio, è diventato un super apparato di controllo totale che penetra domini tradizionalmente estranei al lavoro di intelligence. La traiettoria personale di Chen spiega molto. Ha lavorato fianco a fianco con Xi tra il 2002 e il 2007, quando il futuro leader era segretario provinciale del Partito nella provincia dello Zhejiang. Dal 2018 al 2022 ha guidato la Commissione per gli affari politici e legali, orchestrando una campagna di “rettifica e educazione” dell’apparato di sicurezza che lui stesso ha paragonato alle purghe operate da Mao nel 1942. Quando nel luglio 2022 viene nominato ministro della Sicurezza di Stato, diventa il primo capo dell’intelligence a sedere nel Politburo dai tempi del Grande Timoniere. Secondo stime dell’FBI riportate dalla stampa americana, oggi comanda 800.000 agenti, dieci volte il personale del KGB al suo apice durante la Guerra Fredda.

La trasformazione funzionale del MSS affonda le radici in riforme organizzative che precedono l’arrivo di Chen ma che lui ha portato a compimento. Nato nel 1983 dalla fusione del dipartimento di controspionaggio del Ministero della Pubblica Sicurezza con il Dipartimento centrale di investigazione del Partito, il MSS ha operato per decenni con una struttura decentralizzata. Gli uffici locali rispondevano a una doppia catena di comando che in senso verticale portava ai superiori nel sistema di sicurezza dello stato e in quello orizzontale ai comitati del Partito a livello provinciale e municipale. Questa “doppia leadership” creava spazi di autonomia, permetteva ai potentati locali di bloccare operazioni sgradite, generava inefficienze e sacche di corruzione. Le riforme del 2016 e 2017 hanno spezzato questo equilibrio, istituendo una “leadership verticale” che trasferisce tutto il controllo a Pechino. I comitati locali del Partito hanno perso il potere di nominare i capi degli uffici provinciali, di stabilire i loro budget, di interferire nelle operazioni. Il MSS centrale ora controlla personale, finanziamenti e ogni aspetto operativo con una catena di comando diretta che aggira completamente le autorità territoriali. Questa centralizzazione non serve solo a migliorare l’efficienza e trasforma il MSS negli “occhi e orecchie” del centro contro qualsiasi forma di autonomia locale, proprio nei territori dove i principini e i figli dei veterani hanno costruito le loro basi di potere.

L’espansione orizzontale del MSS verso ambiti di natura economica rappresenta la vera rivoluzione. Nel gennaio di quest’anno il ministero ha acquisito la facoltà di supervisionare progetti di costruzione per edifici governativi, installazioni militari e strutture dell’industria della difesa. Ogni nuovo progetto o ristrutturazione richiede ora permessi del MSS. Gli agenti conducono ispezioni sul campo con potere sanzionatorio. Per chi conosce la struttura dell’economia politica cinese, il significato è cristallino: il MSS entra nei settori dove i figli dei veterani e i principini hanno tradizionalmente gestito contratti miliardari, come energia, telecomunicazioni, trasporti e infrastrutture critiche. Contemporaneamente, l’agenzia intensifica le pressioni sulle società di consulenza straniere. La legge sul controspionaggio, revisionata nello stesso anno, espande la definizione di spionaggio fino a includere attività economiche considerate dannose per la sicurezza nazionale. Gli account WeChat del MSS pubblicano avvertimenti costanti sui rischi delle consulenze estere come copertura per raccolta di intelligence. Questo crea un effetto raggelante sugli investitori stranieri, ma colpisce altrettanto duramente gli imprenditori nazionali e le loro reti internazionali. Il caso del figlio di Liu He, il vicepremier che ha negoziato l’accordo commerciale con la prima amministrazione Trump, illustra quanto il sistema sia indiscriminato. Liu Tianran, così si chiama il figlio, è stato indagato per corruzione finanziaria legata al tentativo di quotazione in borsa di Ant Group. La sua società di investimenti, Skycus Capital, aveva raccolto fondi dalla Banca di Sviluppo della Cina, da China Mobile e da giganti tecnologici come Tencent. Che persino le famiglie dei negoziatori chiave finiscano sotto la lente del MSS è un segno del fatto che nessuna rete di potere è più al sicuro.
La dimensione transnazionale del nuovo MSS completa il quadro. Tra il 2016 e il 2022 le forze di sicurezza cinesi hanno stabilito centodue “stazioni di polizia all’estero” in cinquantatré paesi. Ufficialmente servono per fornire servizi amministrativi ai cittadini cinesi residenti all’estero, ma indagini nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti hanno documentato il loro coinvolgimento in operazioni coercitive contro dissidenti. I gruppi di hacking affiliati al MSS hanno raggiunto una sofisticazione che allarma le agenzie di intelligence occidentali. Nell’aprile 2025 hanno sfruttato una vulnerabilità in SharePoint Server per compromettere quattrocento server e centoquarantotto organizzazioni in tutto il mondo, inclusi laboratori nucleari americani come la National Nuclear Security Administration e il Fermi National Accelerator Laboratory. I gruppi coinvolti, tracciati dalle società di cybersicurezza con i nomi Linen Typhoon e Violet Typhoon, hanno operato su mandato dei bureau di sicurezza provinciali, in particolare quello della provincia di Hubei. La rete di sorveglianza interna che supporta queste operazioni è altrettanto impressionante e fa affidamento su settecento milioni di telecamere installate in Cina, il settanta percento del totale mondiale. Il progetto Sharp Eyes promette “copertura totale, rete totale, disponibilità totale, controllo totale”. Le regolamentazioni sulla sicurezza dei dati emanate nel novembre 2024 stabiliscono un framework di supervisione che vale tanto all’interno quanto oltre i confini nazionali. Qualsiasi dato considerato “importante” deve essere catalogato, protetto e riferito al MSS.

Nel gennaio scorso è emersa la notizia di un nuovo centro di comando in costruzione a Pechino. Il complesso si estende su millecinquecento acri, dieci volte le dimensioni del Pentagono. Include bunker sotterranei progettati per resistere ad attacchi nucleari. La stampa occidentale lo definisce “centro di comando per tempo di guerra”, ma la domanda che sorge è inevitabile: preparazione per una guerra contro Taiwan o per scenari di crisi interna? La risposta probabilmente contempla entrambe le possibilità. Il MSS di Chen Yixin è un’istituzione ibrida, che fonde intelligence estera, controllo interno e repressione politica in un unico apparato centralizzato, verticalmente integrato e che risponde direttamente di fronte a Xi Jinping.
La sorveglianza dell’élite
La narrazione occidentale della sorveglianza in Cina si concentra abitualmente sugli strumenti di controllo della popolazione. Le telecamere a riconoscimento facciale, il sistema di credito sociale, la censura di internet. Questi elementi esistono, ma l’analisi che si limita a ciò perde di vista la dinamica più significativa che emerge dai documenti ufficiali e dai casi giudiziari degli ultimi due anni. Il Ministero della Sicurezza di Stato guidato da Chen Yixin non punta principalmente a disciplinare le masse. Il suo bersaglio primario è quello rappresentato dai network dell’élite che potrebbero rappresentare poli di potere alternativi a Xi Jinping. La sorveglianza serve a mappare, frammentare e ricattare i gruppi che hanno costruito fortune, carriere e lealtà reciproche attraverso decenni di riforme economiche. Questo rovesciamento di prospettiva permette di leggere sotto una luce diversa le purghe militari e le indagini sui principini economici.
Dal 2023 a oggi oltre quarantacinque ufficiali dell’Esercito Popolare di Liberazione sono finiti sotto inchiesta per corruzione. Non si tratta di una lista casuale. Molti di loro erano considerati fedeli di Xi Jinping, uomini che avevano costruito carriere nel sistema militare della provincia del Fujian quando Xi vi lavorava negli anni Novanta, oppure figure che lo stesso leader aveva personalmente promosso a incarichi di vertice. He Weidong, vice presidente della Commissione Militare Centrale, è stato epurato senza alcuna spiegazione chiara. Miao Hua, responsabile del Dipartimento del Lavoro Politico della commissione, che controllava ideologia e nomine dentro l’esercito, è stato espulso a giugno dello stesso anno. Li Shangfu, ministro della Difesa, e Li Hanjun, ammiraglio della marina, hanno subito la stessa sorte in momenti diversi. Il modello che emerge non è quello di una lotta tra fazioni nemiche, ma qualcosa di più inquietante. Xi sta purgando i propri uomini.

Le ipotesi si moltiplicano. Secondo una prima lettura, Xi ha perso il controllo e fazioni ostili dentro l’apparato militare forzano le purghe per indebolirlo. Una seconda interpretazione sostiene che il Ministero della Sicurezza di Stato ha scoperto effettivi casi di corruzione o slealtà tra persone che Xi riteneva fedeli. Ma esiste una terza possibilità, più disturbante. Il sistema di sorveglianza è diventato talmente vasto e automatizzato che chiunque entri in contatto con i network economici delle famiglie dei veterani o dei principini viene automaticamente segnalato, indipendentemente dalle sue lealtà politiche pregresse. In questo scenario, la macchina della sicurezza produce accuse non perché scopre complotti reali, ma perché le sue procedure tecniche categorizzano come sospette connessioni che nell’élite cinese sono inevitabili. Ogni generale, ogni funzionario di rango elevato, ogni dirigente di impresa statale ha parenti, ex compagni di università, soci commerciali che in qualche modo si collegano ai circuiti del potere economico informale. Quando il MSS acquisisce l’autorità di sorvegliare progetti infrastrutturali, contratti di difesa, investimenti tecnologici, la rete si stringe su tutti, fedeli compresi.
L’unico “aristocratico rosso” militare che sembra intoccabile è Zhang Youxia (i cosiddetti “aristocratici rossi” sono discendenti dei fondatori della Repubblica Popolare, la cui legittimità deriva dal servizio rivoluzionario dei padri) . Ha settantacinque anni, oltre i limiti di età che Xi stesso ha imposto per i vertici del partito, eppure resta vice presidente della Commissione Militare Centrale. Suo padre, Zhang Zongxun, era un veterano della guerra civile che combattè fianco a fianco con il padre di Xi. Questo legame familiare storico gli garantisce protezione, ma il suo ruolo appare sempre più ambiguo. Nell’autunno del 2024 ha presieduto conferenze militari importanti senza che Xi fosse presente. La Commissione Militare si è ridotta a quattro membri effettivi dopo le purghe. A dicembre dello stesso anno il Quotidiano dell’Esercito Popolare di Liberazione ha pubblicato una serie di articoli che enfatizzavano l’importanza della “leadership collettiva” rispetto all’autorità di “una sola voce”, la formula che Xi aveva usato per anni per descrivere il proprio primato decisionale. Questi segnali permettono letture opposte. Zhang potrebbe essere l’ultimo pilastro di Xi dentro l’esercito, oppure potrebbe emergere come potenziale successore o addirittura rivale nel momento in cui il leader supremo venisse meno.
Il paradosso insostenibile
Xi Jinping ha risolto il problema classico di ogni regime autoritario, quello di chi controlla i controllori, creando un Ministero della Sicurezza di Stato super centralizzato, verticalmente integrato, personalmente fedele. Ma questa soluzione genera tre contraddizioni impossibili da risolvere. La prima riguarda il conflitto tra sicurezza ed efficienza economica. I funzionari locali hanno sviluppato una strategia di sopravvivenza che chiamano “starsene sdraiati” (“lying flat”), un’espressione che indica conformità superficiale accompagnata da inazione deliberata. Temono che qualsiasi iniziativa possa essere interpretata come errore, esporli a indagini, rovinare carriere. Questa paralisi si traduce in ritardi nei progetti infrastrutturali, dove le revisioni di sicurezza si prolungano per mesi. Gli investimenti privati fuggono all’estero perché gli imprenditori non sanno più quali attività rischiano di essere catalogate come minacce alla sicurezza nazionale. Il settore del venture capital tecnologico è crollato dopo che il MSS ha condotto raid nelle sedi di società di consulenza internazionali nel 2023. Il premier Li Qiang ha annunciato politiche per favorire le imprese, ma gli interventi del MSS contraddicono sistematicamente questi segnali di apertura. Durante le Due Sessioni della primavera 2025 il Congresso Nazionale del Popolo (il “parlamento” cinese) non è riuscito a far passare una legge per promuovere il settore privato, segno di un conflitto interno al Partito Comunista tra chi dà priorità alla crescita economica e chi subordina tutto alla sicurezza.
La seconda contraddizione oppone la legittimità rivoluzionaria alla tecnocrazia sorvegliata. I cosiddetti “aristocratici rossi” non sono semplicemente degli arrivisti. Hanno credenziali storiche perché i loro padri hanno fondato la Repubblica Popolare. Zhang Youxia, Hu Chunhua, i principini sono portatori un capitale simbolico che deriva dal sangue versato e dal servizio prestato dai loro padri nelle guerre civili e nelle campagne di costruzione socialista. Sostituirli con tecnocrati sottoposti a sorveglianza permanente erode il consenso interno al Partito. L’università Fudan di Shanghai continua a essere l’incubatrice dei network alternativi. Wang Huning, membro del Comitato Permanente del Politburo e architetto ideologico del regime, si è formato lì, così come Guo Guangchang, fondatore del conglomerato Fosun International. Xi non può eliminare questo capitale intellettuale senza svuotare il Partito Comunista stesso delle competenze che gli permettono di governare un’economia da diciotto trilioni di dollari. Inoltre, la famiglia di Xi risulta compromessa negli stessi traffici economici che le campagne anticorruzione dovrebbero colpire. Un rapporto dell’intelligence statunitense diffuso a gennaio 2025 afferma che i parenti del leader detengono milioni di dollari in interessi commerciali e investimenti finanziari. Il settimanale tedesco Die Zeit in un’inchiesta ha verificato indipendentemente queste informazioni. Il doppio standard mina la credibilità dell’intera operazione.
La terza contraddizione, la più grave, riguarda la successione congelata che produce instabilità strutturale. Il sistema informale con cui Deng Xiaoping aveva garantito transizioni ordinate, quello secondo cui ogni leader designa il successore della generazione successiva, è stato distrutto. Hu Chunhua è stato estromesso. Sun Zhengcai, l’altro candidato designato da Hu Jintao per succedere a Xi, è in prigione dal 2018 con una condanna all’ergastolo per corruzione. Non esiste un erede visibile e Xi è ormai anziano e circolano voci ricorrenti sulla sua salute che alimentano ogni tipo di congettura. Cai Qi sta emergendo come possibile mediatore. È il primo funzionario dai tempi di Mao a ricoprire simultaneamente tre ruoli cruciali: membro del Comitato Permanente del Politburo, segretario del Segretariato Centrale, direttore dell’Ufficio Generale del Comitato Centrale. Ma anche Cai dipende dalla stessa macchina di sorveglianza che ha contribuito a costruire. Se Xi venisse meno, Cai potrebbe davvero governare in modo autonomo o finirebbe ostaggio dell’apparato securitario che oggi usa per mantenere il controllo?

Il precedente storico dei cicli di Stalin e Mao torna utile per capire questa dinamica. Le purghe generano paranoia, la paranoia innesca nuove purghe, il sistema implode. La scomparsa di He Weidong a marzo 2025 rappresenta uno di quei momenti in cui l’apparato securitario divora i propri sostenitori. La differenza cruciale rispetto ai due regimi del Novecento sta nel fatto che Stalin usava l’NKVD e Mao le Guardie Rosse, entità esterne all’élite che colpivano dall’esterno. Xi invece esegue le sue purghe attraverso il Ministero della Sicurezza di Stato, che è interno all’élite stessa. Questo solleva la domanda finale. Chi controlla il MSS? Chen Yixin è personalmente fedele a Xi, ma dopo Xi? Un apparato con ottocentomila agenti sviluppa inevitabilmente interessi propri. Il precedente del KGB sovietico è istruttivo. L’apparato di sicurezza divenne attore autonomo e contribuì al collasso del sistema nel 1991. La centralizzazione verticale funziona nel breve termine, ma è fragile nel lungo se il vertice vacilla.
La riunione del Politburo dello scorso giugno, con le sue omissioni rituali e l’espansione contemporanea dei poteri del MSS sulle infrastrutture, non ha segnato una contraddizione. Ha rivelato invece una strategia coerente. Xi ha rinunciato alla visibilità del consenso politico tradizionale perché ha costruito un’alternativa, quella del controllo permanente attraverso la sorveglianza, che include anche l’élite. Ma questo non ha risolto la crisi della successione, l’ha solo congelata. Un sistema basato sulla disciplina dell’élite ottenuta diffondendo la paura può durare quanto la vita di Xi. Dopo, il vuoto al vertice diventa voragine. Lo scorso novembre Xi ha stretto la mano a Jack Ma, CEO di Alibaba, in un gesto pubblico di apertura verso gli imprenditori tecnologici. Nello stesso periodo Chen Yixin annunciava i nuovi poteri del ministero sui progetti di costruzione strategici. Non era il raggiungimento di un equilibrio, ma il prolungamento artificiale della tensione. La sorveglianza universale, che include gli aristocratici rossi, non crea stabilità, bensì quella che alcuni definiscono come la “pace del cimitero”, un silenzio che non deriva dal consenso ma dal terrore.
*articolo apparso su substack.com il 20 ottobre 2025.
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