Ennesimo massacro di civili nel nord del Sudan ma l’approccio europeo, dominato dalla paura dei “flussi migratori”, lo rende invisibile
Esecuzioni sommarie, stupri, aggressioni, saccheggi, rapimenti. Mucchi di cadaveri nelle strade, nelle sedi universitarie, nei siti militari. Dalle immagini satellitari e dalle testimonianze dei pochi che sono riusciti a raggiungere la salvezza, la città sudanese di Al-Fashir, caduta da una settimana dopo 18 mesi di assedio, è una trappola di morte. A prendere la città, il principale centro urbano del nord Darfur, sono state le Forze di Supporto Rapido (RSF/FSR), l’armata paramilitare che da oltre due anni si contende il controllo del Paese con l’esercito regolare (SAF, Sudanese Armed Forces). Una guerra civile in cui entrambe le parti sono state accusate di crimini di guerra e di atrocità: sia i regolari di Khartoum, dove governa de facto il generale Abdel Fattah al Burhan, sia le Rsf agli ordini del generale Mohamed Hamdan Dagalo, più noto come Hemedti. Una situazione “apocalittica” secondo i ministri degli Esteri tedesco e britannico.
E’ dall’aprile 2023 che una guerra sta devastando il Sudan, cancellando intere città e spezzando una società già fragile, quasi tredici milioni di persone costrette a fuggire, di cui oltre 9,6 milioni all’interno dei confini nazionali. Si tratta di uno dei più imponenti spostamenti di popolazione del XXI secolo, eppure l’attenzione internazionale resta minima. Le Nazioni Unite parlano di una crisi umanitaria di proporzioni catastrofiche; diverse ONG, tra cui Refugees International e Human Rights Watch, non esitano a descrivere quanto accade come un genocidio in corso.
Tornando ad Al-Fashir: contava a fine agosto almeno 260 mila persone. Sempre secondo l’Onu oltre 65 mila abitanti sarebbero fuggiti, in particolare verso la città di Tawila, qualche decina di chilometri più a ovest. Ma negli ultimi cinque giorni sono solo 5mils le persone arrivate davvero ai team di Medici Senza Frontiere che si erano organizzati alle porte di Tawila per ricevere quello che si aspettavano essere un afflusso di massa.
Quei pochi arrivati ai loro punti sanitari, poi, presentavano perlopiù ferite da arma da fuoco, fratture e lesioni dovute a percosse e torture. E poi i racconti di omicidi di massa, bambini uccisi a colpi d’arma da fuoco davanti ai genitori, violenze sessuali, rapimenti a scopo di riscatto. Nella città invasa dalle milizie ma anche, spietatamente, lungo le vie di fuga.
“I numeri degli arrivi non quadrano, mentre crescono le testimonianze di atrocità su larga scala – riflette Michel Olivier Lacharité, responsabile delle emergenze di Msf – dove sono tutte le persone che sono sopravvissute a mesi di carestia e violenza a Al-Fashir? La risposta più probabile, anche se spaventosa, è che vengono uccisi, bloccati e inseguiti mentre cercano di fuggire. Chiediamo urgentemente alle Rsf di risparmiare i civili e consentire loro di mettersi in salvo”. L’appello viene esteso anche alle potenze che sulla regione esercitano influenza diplomatica – Usa, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto – di fare il possibile per fermare il massacro”.
Con la presa di Al-Fashir, ora l’Rsf controlla tutte le cinque principali città del Darfur nell’ovest del Sudan, mentre l’esercito regolare domina il nord, l’est e il centro del Paese. Il generale Hemedti, capo delle Rsf, ha annunciato giovedì scorso una indagine sulle azioni dei suoi uomini ad Al-Fashir dopo che sui social hanno iniziato a circolare video, verificati tra gli altri dalla Bbc, che mostravano i combattenti delle Rapid Support Forces che giustiziavano diverse persone disarmate in città.
Un gesto, quello del warlord sudanese, che a molti osservatori è parso un mero tentativo, solo formale, di autoassoluzione: anche il responsabile umanitario delle Nazioni Unite, Tom Fletcher, ha messo in dubbio il reale impegno delle Rsf a indagare sui crimini.
Si prevede dunque che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu terrà una riunione sul Sudan, teatro da oltre due anni di un conflitto che ha provocato quella che secondo le Nazioni Unite è la più grave crisi umanitaria del mondo. Il Regno Unito (ex potenza coloniale del Sudan) fornirà ulteriori 5 milioni di sterline in aiuti umanitari in risposta alle violenze ad Al-Fashir, oltre ai 120 milioni che sta già dando al Sudan.
A Khartoum, nella capitale ormai distrutta dai combattimenti tra l’esercito regolare e le Forze di supporto rapido (FSR), non esistono più luoghi sicuri. Le testimonianze raccolte descrivono un paese dove ogni giorno migliaia di persone si mettono in marcia, spostandosi di continuo tra città e villaggi nella speranza di sopravvivere. Quello che accade, spiegano gli osservatori, è un ciclo interminabile di fughe e di ritorni, di evacuazioni e di nuovi assedi.
Tra le voci che da mesi cercano di far luce sulla crisi c’è quella della politologa Sarra Majdoub, ricercatrice indipendente ed ex esperta per il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul Sudan. In un’intervista rilasciata al media indipendente francese Mediapart, Majdoub ha raccontato la portata del disastro e la cecità del mondo di fronte a una tragedia che non riguarda soltanto l’Africa.
La studiosa ha spiegato che la guerra sudanese è diversa da tutte le precedenti perché non riguarda più solo le periferie del paese, ma anche le aree centrali e urbane. Perfino la capitale, un tempo rifugio per chi fuggiva dal Darfur o dal Kordofan, è oggi teatro di massacri e distruzioni. Majdoub ha sottolineato che il conflitto ha colpito in modo trasversale la popolazione: interi quartieri e villaggi sono stati svuotati, mentre la classe media urbana, che non aveva mai conosciuto la guerra, si è trovata improvvisamente senza casa, mezzi o protezione.
Secondo la ricercatrice, il dramma umanitario è aggravato da una profonda disuguaglianza sociale: chi ha mezzi economici riesce a fuggire verso l’Egitto, il Kenya, l’Uganda o il Ciad, dove oggi si contano più di mezzo milione di rifugiati sudanesi. Gli altri restano intrappolati nel paese, costretti a trovare riparo in scuole, università o ospedali abbandonati. Le autorità militari, ha ricordato Majdoub, spesso rifiutano di autorizzare la creazione di campi profughi nelle zone sotto il loro controllo, per non dare l’impressione di aver perso la guerra o di riconoscere la sua durata.
Nonostante il collasso dello Stato, la sopravvivenza delle comunità è garantita in larga parte da reti di solidarietà locale: cucine collettive, gruppi di mutuo soccorso, organizzazioni spontanee che suppliscono all’assenza delle grandi ONG internazionali, ostacolate dal blocco degli accessi e da una burocrazia paralizzante. Majdoub ha osservato che, laddove gli attori umanitari tradizionali non riescono a intervenire, sono proprio i cittadini a garantire i servizi essenziali.
Uno degli episodi più drammatici resta quello di El-Geneina, dove tra aprile e giugno 2023 le FSR hanno assaltato ripetutamente i siti che ospitavano sfollati interni, incendiando interi campi e costringendo mezzo milione di persone a fuggire in una sola settimana. La caduta successiva di El-Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale, ha confermato la brutalità di una strategia basata su assedi e deportazioni. Secondo Majdoub, l’obiettivo delle FSR è svuotare i territori e piegare la popolazione attraverso la fame, la violenza sistematica e l’uso di droni e armi sofisticate: un metodo che ricorda, in scala diversa, le tattiche impiegate da Israele contro la popolazione civile di Gaza.
Majdoub ha denunciato anche l’atteggiamento della comunità internazionale, che continua a interpretare il conflitto sudanese con categorie riduttive e stereotipate, limitandosi a parlare di “nuova guerra africana” senza interrogarsi sulle sue radici politiche. A suo avviso, questa semplificazione rischia di cancellare la storia del paese, la rivoluzione del 2019 e le nuove forme di solidarietà nate nel pieno del disastro.
La ricercatrice ha sostenuto che la risposta umanitaria internazionale è spesso più performativa che concreta: comunicati, risoluzioni e summit non modificano in nulla la vita quotidiana degli sfollati. Ha ricordato di aver visitato i campi del Darfur negli anni Duemila, quando la crisi era ancora “mediaticamente attraente” e finanziata a livello globale, ma già allora la sensazione di abbandono era palpabile.
Oggi, ha osservato ancora Sarra Majdoub, la guerra in Sudan è invisibile perché non tocca direttamente l’Europa: finché i profughi restano confinati nei paesi limitrofi o all’interno del Darfur, la tragedia non viene percepita come una minaccia. L’approccio europeo, dominato dalla paura dei “flussi migratori”, punta a contenere la mobilità più che ad affrontare le cause del conflitto.
Majdoub ha concluso che la questione umanitaria non può essere separata da quella migratoria e dal controllo dei movimenti di popolazione. Il modello dei campi profughi, sostenuto dai principali donatori internazionali, serve più a gestire che a risolvere la crisi. Per la ricercatrice, soltanto riconoscendo il ruolo delle solidarietà locali e restituendo ai sudanesi la capacità di autodeterminarsi sarà possibile spezzare l’attuale ciclo di violenza e di spostamenti forzati.
La commissione Esteri della Camera dei deputati italiana ascolterà una delegazione del Sudan Liberation Movement in un’audizione informale in programma mercoledì 5 novembre. Dal sito istituzionale della III Commissione (Affari esteri e comunitari) non si riesce a evincere di più perché, in realtà il SLF è spaccato in due fazioni.
Dallo scoppio della nuova guerra tra l’esercito regolare e le Forze di supporto rapido nell’aprile 2023, il SLM si è trovato in una posizione ambigua: la fazione di Minnawi, ispirata al nazionalismo sudanese “unitario”, si è alleata con l’esercito, accusando le RSF di voler distruggere il Darfur e perpetrare un nuovo genocidio. La fazione di Abdel Wahid al-Nur, invece, è rimasta più autonoma: ha denunciato i crimini di entrambe le parti e continua a controllare parte del Jebel Marra, dove organizza reti di autodifesa e di assistenza civile. Continua a dirsi laica, federalista e antiautoritaria, con riferimenti espliciti alla rivoluzione del 2019 e alla richiesta di uno Stato civile, ma senza un programma politico articolato.
Oggi il Sudan Liberation Movement rappresenta più un ombrello politico e simbolico che un’entità unitaria. Le sue fazioni controllano porzioni di territorio nel Darfur e restano tra i principali attori della resistenza armata locale.
Nonostante le divisioni, il SLM continua a essere percepito da molte comunità non arabe come l’erede della rivolta originaria del Darfur, legata alla richiesta di dignità, giustizia e rappresentanza politica. Alle sue origini, il linguaggio politico dell’SLM era fortemente influenzato dal panafricanismo e dal socialismo democratico: una retorica di emancipazione dalle élite arabe di Khartoum e di inclusione delle popolazioni “africane” del Sudan (Fur, Masalit, Zaghawa, ecc.).
Alcuni ricercatori — tra cui Alex de Waal e Jérôme Tubiana — hanno notato che il movimento si ispirava anche alle lotte di liberazione dell’Africa australe (ANC, SPLM, ecc.), pur senza un’ideologia marxista strutturata. Con il tempo, però, la guerra prolungata e le rivalità personali hanno svuotato il movimento di una piattaforma ideologica coerente. Oggi molte delle sue componenti operano come attori armati locali, più che come partiti politici nel senso classico.
*articolo apparso su popoffquotidiano.it il 2 novembre 2025
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